«Senti come mi batte forte
il tuo cuore».
W. Szymborska
– Lo senti?
– C’è un ronzio.
– Concentrati.
– Ventole meccaniche.
– E poi?
– Niente.
– Come sarebbe, niente?
– È finto, non batte. Se non batte per me, non so se mi ami.
Amanda non accetta la mancanza di certezze. Se avesse saputo prima, non sarebbe in quella situazione. Poteva ammetterlo solo in un punto distante della sua mente, nelle stanze intoccabili di quello che pensava e non avrebbe dovuto – per educazione, pietà. Amore? Posa una mano sul petto di Tommaso. Sotto la sua impronta, un gorgoglio di ingranaggi filtrato dal sangue. Quello è reale. L’aveva visto, si era presa una prova della sua umanità, forse l’unica che sarebbe rimasta, alla fine. Lui le spinge la testa contro il collo, offre il suo odore, la traccia della pelle che traspira e sospira, viva. Spera di accontentarla, che questa volta basti.
–
Col cuore ci è nato, tre mesi in anticipo. Le infermiere della nursery lo battezzano come Tarantola, non smette di agitarsi nonostante una prognosi preoccupante. È il primo nome che lo accoglie, i suoi genitori sono indecisi e concludono di dargliene tre: Tommaso Nicola Lupo deve essere un bambino fortunato, con un indirizzo benestante, un’altalena e due rottweiler in giardino. Per un po’ la sua vita va secondo i piani. Ci sono le sue foto in soggiorno, lo ritraggono felice con la manina tesa, instabile sulle sue gambette in Grecia, su un sentiero dolomitico, smarrito ed estasiato tra i riflessi di città vetrificate.
I problemi iniziano a otto anni, svenimenti e cali di pressione, spossamento e sonni troppo lunghi: è questione di valvole che non si chiudono come dovrebbero, di malformazioni minuscole che con la crescita ne compromettono la sopravvivenza. Si aggrava e non si trova un cuore di ricambio: nessun decesso è compatibile con la sua vita. Il pellegrinaggio tra gli specialisti contempla vari punti del continente e l’ipotesi di una visita oltreoceano. Che sfuma quando Tommaso si aggrava e finisce in un reparto privato, al cospetto di un chirurgo lituano preso in prestito da una clinica lussemburghese. Un uomo immenso, scuro, stretto in camice e cravatta. Studia il suo faccino desolato non meno dei documenti elettronici sul tablet: valuta il pallore, la determinazione a restare sveglio su quel letto sospeso.
– Espiantiamo.
Sua madre piange, stringendo al petto il suo secondogenito, Alex: cinque anni, sano e precoce onicofago. Suo padre tiene le braccia incrociate e si erge a struttura portante della famiglia. Il completo nuovo gli tira sui gomiti, scoprendo i polsini della camicia. È di cattivo umore e pretende dettagli, come qualsiasi genitore col figlio impacchettato tra lenzuola sterili e un bonifico da inviare all’avvenuta conferma.
– L’intervento di sostituzione del cuore con un impianto biomeccanico è adatto al piccolo. È un candidato ideale.
– E i rischi?
– Il sistema è di ultima generazione ed è l’unica via percorribile nelle condizioni del paziente. Sarà un intervento all’avanguardia, data l’età. Ma il rischio di rigetto è basso e le probabilità di fallimento sono del diciassette percento durante l’operazione, del dodici nelle fasi successive. Un margine che riteniamo accettabile.
La madre di Tommaso strilla, facendo gemere il fratellino e tutti i malati del piano. Sveglia anche lui, sfidando i sedativi che gli gocciolano in vena. Il chirurgo è l’unico a non scomporsi.
– In questo stato le stime di sopravvivenza si contano in settimane. Con l’impianto avrà una vita normale. Potrà fare sport, studiare, avere dei figli. Valutate pure con calma.
Accenna a imboccare la porta. Sua madre lo insegue, traballante.
– Mi scusi!
– Francesca…
A suo padre stringe anche il colletto della camicia. Troppo sangue compresso, gli manca l’aria. Con la fronte tra pollice e indice, da un’impressione di profonda afflizione: ha una decisione da prendere e sua moglie si comporta da demente: sanno già tutto. Hanno letto, discusso, sostenuto riunioni dal vivo e online prima di quell’ultima verifica con lo specialista. Non ha il coraggio di scegliere e si inerpica su domande a cui saprebbe rispondere anche da sola. Non alza gli occhi per guardarla, non la raggiunge. Il luminare, invece, vuole apparire comprensivo. Le sorride. È ancora bella. Se non avesse il vizio del melodramma e fosse sola, le avrebbe dedicato più tempo. Il chiacchiericcio è sommesso e luttuoso, l’ansia nebulizzata nei sospiri contro la nuca del figlio minore che ciondola, troppo grande per le braccia di sua madre.
– E una volta risolta la cardiopatia? Ci hanno parlato di una condizione degenerativa irreversibile. Quanto potrà andare avanti?
– Il sistema è in grado di gestire le criticità del suo stato di salute. Con opportuni aggiornamenti dell’esokernel, si espande per sostenere l’organismo. Stimiamo che polmoni e reni non cresceranno abbastanza per svolgere le funzioni minime in un corpo adulto. Quando sarà il momento, programmeremo l’upgrade e saranno sostituiti da componenti biomeccaniche di uguale e maggiore funzionalità. Avrete un figlio sano. Il prezzo è la fiducia nella medicina. Nel futuro.
Un futuro che si irradia oltre le finestre dell’ospedale, nel panorama luminescente di costruzioni, tra braccia di gru tese sotto nuvole basse, in una nebbia che non si stacca dal mattino. I suoi genitori lo vedono, si sentono parte dell’evoluzione del mondo in eccellenza e decidono che non c’è altro da aggiungere. Si opera.
– Mamma, ma Tommy ci vuole bene anche col cuore finto?
Alex è incerto. La somministrazione di favole della buonanotte gli ha insegnato che le intenzioni e i pensieri vengono da lì. Alcuni personaggi dei suoi libri illustrati hanno sul petto uno sportellino che si apre per mostrare il cuore rosa all’interno. Immagina che per suo fratello sarà lo stesso, ritaglieranno una porta sul torace e toglieranno il suo cuore malandato per metterne uno d’acciaio, durissimo e indistruttibile.
– Le percezioni emotive rimarranno intatte.
La mamma gli parla e guarda il suo riflesso, scurito sul vetro della finestra. Non si è mai vista così afflitta, non avrebbe mai immaginato di provare un tale livello di apprensione. Immagina i valori del cortisolo nel suo sangue. La forma della molecola intasarle il reticolo venoso sottopelle, affondando le orbite, scavando le guance, facendole crollare gli zigomi.
– Le cosa?
Quasi non sente il piccolo attorcigliato alla gamba, seminascosto dal velo della gonna. Sono usciti che era quasi buio, per salutare Tommaso la notte prima dell’intervento. Ora le sagome delle gru sono illuminate da fari ad alto voltaggio che le disegnano come arti sterili e nudi. Così poco rassicuranti che deve farsi strattonare un paio di volte per accorgersi di non aver risposto al piccolo. Le percezioni emotive, gli ripete, e lui continua a non capire.
– Ci vorrà bene lo stesso. Perché è un bambino buono. Non potrà farne a meno. Resterà sempre un essere umano, come me e te e papà. Anzi.
Si sente di dover fare di più e si abbassa, gli carezza la testolina, senza togliergli la manina dalla bocca, dove ha ricominciato a rosicchiare l’indice. È il suo modo di non avere troppa paura delle cose e adesso ha il diritto di farlo, di scacciarla come può.
– Forse, proprio perché avrà un cuore diverso, ce ne vorrà ancora di più.
Alex le crede. In ogni caso, lui è sano e conta di restarci. Se suo fratello diventerà troppo buono, starà attento a fare in modo che gli altri non lo freghino, anche se è un mezzo robot. Ci penserà lui, a difenderlo.
Il sistema di nanomacchine innestato nel torace di Tommaso gli assicura il diploma delle medie e il brevetto di nuoto. Non ci sono cali di pressione, aritmie, rigetti.
Come previsto, neanche l’albero bronchiale si sviluppa a dovere e il ragazzo comincia a manifestare affaticamento respiratorio. I cavi e le sonde che gli infilano in gola e trasmettono i dati dell’aggiornamento gli impediscono di soffocare: sotto le costole si gonfiano nuovi alveoli in teflon e titanio. Non servono espianti. I vecchi tessuti polmonari si convertono in sali minerali, plasma e materiale di spurgo, evacuato in qualche colpo di tosse e muco denso. Sospirando, allo stetoscopio arriva un flusso costante e sereno di microventole.
L’impianto modula per il ragazzo una vita ordinaria. Un drenaggio sulla tiroide ripulisce il sangue, dosa anticorpi e ormoni. I picchi dell’adolescenza risultano smussati, è meno propenso degli altri alla masturbazione frenetica, a nascondersi in bagno alla ricerca di immagini con cui spremersi. Alle deflagrazioni umorali e alla ribellione di una voce che si radica su toni bassi oppone un equilibrio anomalo per la sua età. Dimostra una mente libera di immaginare, pensare, creare; una personalità sensibile. Tratto che, agli sgoccioli dei quindici anni, suscita l’interesse di Amanda.
Stanno insieme da nove mesi. Tommaso ripercorre al buio, ogni sera prima di dormire, il loro primo bacio: se lo sono scambiato in aeroporto, quando hanno lasciato Boston e il campus estivo di inglese per tornare a casa. Sulla scala mobile aveva superato l’enorme valigia di lei e si era lanciato sulle sue labbra con la determinazione folle di un paracadutista al primo salto, incerto se avrebbe mai più toccato terra. Quel giorno era morto per la seconda volta da quando gli avevano staccato il cuore dal petto. Aveva cominciato a vivere in una dimensione in cui il nome di Amanda era una carezza, lingua calda sulla sua, palpebre socchiuse nella voce degli altoparlanti che scandivano numeri, mettevano fretta. Ultima chiamata, imbarco, decollo.
Per festeggiare i primi sei mesi della relazione, decide di portarla a cena fuori. All’ingresso del ristorante, specializzato in crudi di pesce, li guardano male: troppo giovani, imbellettati, farseschi nel volersi spingere a forza contro l’età adulta. Poi, il direttore di sala legge il cognome di lui dalla prenotazione e a schiena dritta li accompagna al tavolo, che non è il migliore ma Amanda è contenta, ha messo un vestito bianco e corto e gli stivali col tacco. Glielo fa assaggiare contro la caviglia, alludendo a cose viste nei film che ancora non hanno sperimentato, ma c’è tempo e quella sera sembra un buon inizio.
– Ti piace, piccola?
Quel tono da americano con l’elicottero parcheggiato sul tetto la lusinga, anche se lui non ha niente di quello stereotipo. Ha guance lisce e tre peli sul mento che rade con cura, il ciuffo morbido senza lacca e un impaccio che gli fa sudare le mani quando gliele tende per raggiungerla, rischiando di far cadere calici che rimarranno vuoti.
– Tantissimo. Ora, non dirmi che ci hai portato tutte le tue ex.
Le piace provocare. Con il rossetto a infiammarle il viso le riesce ancora meglio e infiamma anche lui, fino alle orecchie.
– No, io lo conoscevo, ci sono stato ma…
– Con i tuoi?
Riesce a farlo sentire un bambino anche se hanno la stessa età. Aumenta la percezione falsata di una superiorità in esperienza e mezzi che lo distrugge, che lo aggroviglia alle parole, ai movimenti e al corpo di Amanda. Vorrebbe chiederle di baciarla, adesso. Alzarsi e fare l’adolescente arrapato che senza di lei non sarebbe, farsi cacciare per oscenità. Ma non può, e suda dentro alla camicia, impiccato dalla cravatta, redarguito dalla cintura di rettile attorno ai fianchi.
– Un paio di volte. Quando hanno ospiti.
– Allora sei esperto. Facciamo che ordini tu per me? Vediamo se indovini cosa mi piace.
Giocano a scambiarsi i piatti, lei rischia di sporcarsi e fa l’oltraggiata con il tovagliolo sulle cosce, sale un po’ di più lungo la gamba dei suoi pantaloni con la punta dello stivale, l’erezione fa male a Tommaso ma lui resiste; svuotano due bottiglie d’acqua minerale e dividono il dolce guardandosi negli occhi. Lei, con il viso poggiato alla mano e il mascara che resiste sulle ciglia e le fa lunghissime, è bellissima ed è con lui, alla prima cena elegante delle migliaia che si prospettano nella loro vita insieme.
– Però hai dimenticato i fiori.
Gli dice, facendo una battuta quando la raggiunge, dopo aver pagato il conto. Lui le passa il braccio attorno alle spalle, la protegge, la sua diva, uscendo sul marciapiede.
– Hai ragione.
– Dovrò tenerti il muso.
Gli morde il collo, senza far male. Lui la prende tra le braccia e ignora sua madre che li aspetta in auto, scrollando lo schermo del cellulare.
– C’è tua mamma.
Amanda si scolla dal bacio, arretrando con la testa, umida del loro fiato che gonfia l’aria di nuvole.
– Voglio prenderti quei fiori. Rose? Peonie? Tulipani?
– Non fare il matto, andiamo a casa.
– Dai, sul serio, voglio fare le cose per bene.
Si siedono dietro, relegando sua madre al ruolo di tassista. Amanda gli tiene la mano e se la strofina tra le cosce, ma ha la decenza di intrattenere con Francesca una conversazione a modo sulla qualità del cibo e la puntualità del servizio, senza tradire niente, non un sospiro, non una dilatazione dei tempi di risposta. Eppure, le piace. Tommaso lo sa. Ha fatto tutto per costruire una serata perfetta, tranne per i fiori. Scosta la testa di Amanda dallo spazio tra i sedili, ci si infila lui e dice alla madre di fermarsi.
– Ma perché, stai male? Hai problemi di stomaco, devi…
La blocca prima che elenchi le instabilità del suo organismo, intimandole di parcheggiare, che deve fare una cosa, assolutamente, e Francesca che non sa dirgli di no rallenta e obbedisce.
Tommaso si lancia fuori dall’auto e si incammina lungo l’inferriata del parco, arriva al cancello e lo scavalca, sente sua madre gridare e Amanda provare a ribadirgli che è matto, fuori di testa, ma a lui non importa, ha ragione e con la torcia del cellulare si muove verso le serre del roseto, chi vuoi che le abbia chiuse, e strappa cinque rose Bourbon, così dice il cartellino, spine comprese, e con i polsini della camicia sporchi di terra e un dolore basso al fianco sinistro torna da Amanda.
Una settimana dopo, il fegato sta cedendo. Viene ricoverato per il quarto upgrade e gli riservano una stanza singola. È solo, con una cannula che gli esce dal fianco. Lei non c’è, è impegnata con la scuola, con le interrogazioni da preparare, è fondamentale prenda bei voti e sia soddisfatta di sé, che abbia successo ogni volta che può ottenerlo. Ha solo il suo nome e lo ripete fissando il soffitto.
– Amanda.
I monitor che parametrizzano il suo corpo in grafici gli rimandano bip di assenso. La evoca in una stanza sfumata di menta, consumando le ore di attesa in un letto enorme per lui, miniatura di uomo fuso con le macchine. C’è solo il suono a definirla: nobile, dolciastro, morbido. Ripetendolo, percepisce sul palato ogni declinazione di lei. Spera arrivi, prima o poi. Guarda l’ora, è lenta sul quadrante, cerca di pensare ad Einstein che dice che è colpa sua e non del tempo, ma si distrae, torna sempre a lei.
– Amanda.
– Ti ho portato la musica.
È arrivata. Posa sul tavolino una cassa bluetooth a forma di coniglio. Dai forellini sulla pancia rosa esce un pezzo elettroswing che le piace. Danza sul posto, per farsi contenta e distrarlo. È entrata senza accompagnatori, indifferente agli orari di visita. Deve aver convinto qualcuno a considerarla un’eccezione, tipico di lei, così consapevole della sua unicità da riuscire a trasmetterla agli estranei.
– I tuoi non ci sono.
Lo dice con una certa soddisfazione, trovandolo solo, tutto per sé.
– Alex è passato a trovarmi dopo la scuola.
– Ah.
Non le è mai piaciuto. Sboccato, scomposto, antipatico con lei tutte le volte che si incrociano a casa di Tommaso. Un ragazzino viziato, l’ha definito con Francesca. Lei ha provato a giustificarlo, non ce l’ha con te, è protettivo col fratello, ha paura che tu possa farlo soffrire. Amanda aveva reagito male, ma aveva trattenuto reazioni più veementi davanti a lei, riservandole al fidanzato, che da quel momento evitava di nominarlo e di farli incontrare. A lei questa soluzione piace. Detesta sentirsi addosso i suoi occhietti da ratto, l’odore di sudore delle sue magliette in acrilico. Si sente giudicata e non se lo merita.
– Quanto ci vorrà ancora?
– Dodici ore.
– Bene. Allora domani esci e ce ne andiamo da qualche parte.
Sorride in sbuffi d’impazienza. Non le piace la formalità dell’ambiente né vedere il suo ragazzo in una maglia di cavi. La sua quiete, il peso improntato dalla testa sul cuscino, innescano un’idea sovversiva che le invade la faccia. La sua mente subisce accelerazioni nette, imbocca vie originali: Tommaso la trova geniale, non permette mai alla noia di introdursi nelle loro vite, riesce sempre a scostarsi, a evitarla e a trovare una via di fuga prima che li assalga. Le sorride, riconoscendo l’accento del suo entusiasmo.
– Fammelo toccare.
Lui si guarda tra le gambe, dove si affloscia il lenzuolo.
– No, no. Questo!
Tira il tubicino che gli entra nel fianco. Tommaso trattiene un sussulto.
– Cosa?
– Fammi entrare dentro di te. Sentire come sei, finché sei ancora fatto di carne. Non ti piacerebbe? Presto non avrai più il fegato. Voglio toccarlo, capire il tuo corpo, se sta davvero morendo.
Lui non risponde. Cerca di prenderle la mano, lei non richiude le dita sulle sue.
– Voglio ricordarmi di come sei fatto dentro, finché sei umano come me. Fammi toccare, starò attenta.
– Sarò sempre umano.
Amanda si dimentica della musica, che continua a strombazzare allegra dalla pancia del coniglietto. Le orecchie si illuminano a ritmo. Di verde, giallo, blu. Lo guarda negli occhi.
– Hai paura?
No, le dice, no, come potrei. Ogni mia parte ti appartiene. E guida la sua mano sotto al lenzuolo. Lei preme, con l’unghia. Non sfila il tubicino, ci scivola accanto. Tasta il foro, praticato con un’incisione minima, sotto anestesia. Pulsa e deve fare male a Tommaso, perché si scontra con uno spasmo muscolare.
– Va’ avanti.
Le sibila. Amanda si inoltra nella ferita dilatandola di mezzo, un centimetro. Supera l’epidermide, un debole strato di grasso, trapassa fasce muscolari. Arriva a pareti viscide su cui è fin troppo facile scorrere, ma si ferma per la limitata estensione dell’indice. Lui si morde un braccio, il suo viso è sfatto di lacrime. È ancora umano, sì – pensa lei. Perché prova dolore.
Il giorno dopo esce, lei si assicura riesca a reggersi in piedi e decidono di prendere un gelato. È inverno ma non importa, vogliono provare qualcosa di insensato da ricordare, su cui ridere dandosi degli scemi. Lui non riesce a camminare lungo una linea retta, hanno dovuto medicarlo e trattenerlo qualche ora in più. I dottori l’hanno rimproverato, non ha l’età per giocherellare a quel modo con i dispositivi medici, ma senza troppo impegno: la sua è una famiglia che paga, non ha mai dato problemi e non sembrano esserci stati danni fisici né al processo di aggiornamento del sistema. Se l’è cavata con una ramanzina fiacca che l’ha fatto vergognare e qualche punto imbastito al fianco. Per dimenticare il dolore non è bastato baciarla. Neanche leccare il suo cono cookies and cream o il lobo dell’orecchio, tenendosi a lei, al suo corpo infreddolito entusiasta di riaverlo accanto.
–
Tommaso accarezza la schiena di Amanda. Il suo candore è nervoso, trasparente sotto la camicetta. Non lo guarda. Si ostina su un punto vuoto in una chiazza di sole sul prato, cerca di attirarlo nella più banale delle trappole.
– Che c’è?
Sospiro performativo, sorriso trattenuto da appunti di fastidio. Non gli risponde, lo forza a insistere, a chiedere e implorare, fino al gusto di resa che Amanda aspetta: desolazione, capo che crolla, la nuca esposta alla volta celeste. Allora stacca la guancia dal suo collo, abbandona la postura da amante desolata, allinea le spalle e si erge per farsi adulta.
– Il tuo cuore non batte. Potresti amarmi per un guasto, non essere libero di scegliere. E cosa resterebbe di vero tra noi?
– Ci siamo già passati. Sono io che decido, non le macchine.
Reagisce secco quanto la sua lingua. Si scosta, cerca aria lontano da lei, che sembra attirare il caldo insieme ai cattivi pensieri. Che lo fissa, decisa a distruggerlo. La tensione che ha cercato definisce l’inevitabile, alle sue labbra non resta che scandirlo.
– Non posso farlo, Tommaso.
Nemmeno un ragazzo morto due volte e in simbiosi con una sofisticata tecnologia che sfrutta le potenzialità dell’intelligenza artificiale rigenerando sé stessa e i tessuti organici sostiene il peso di una sentenza d’addio. Potrebbe essere il suo terzo e ultimo decesso. Anche se la sensazione di stretta cardiaca gli è inaccessibile, lo stomaco assorbe il colpo, si rattrappisce, e la nausea minaccia di riversare a terra il resto della tragedia.
– Non capirai più cosa vuol dire essere vivi, fatti di carne. Tu puoi curarti il cancro con un riavvio, noi no.
Amanda ride per inscenare disperazione. Tommaso si contrae, sbotta.
– Smettila. Non dipende da me. Non puoi farmi sentire in colpa per questo.
– Lo so. I tuoi sono stati avventati, doveva pur esserci una soluzione diversa: la medicina fa continui progressi. Ma io ho bisogno di certezze, Tommy.
Qualcosa si conficca nelle protesi aortiche e nel ventricolo destro del ragazzo. Giurerebbe di averlo sentito sobbalzare, il suo cuore. Uno scarto elettrico, violento e fatto di scintille. Una forchetta dimenticata nel microonde.
– Cosa posso fare?
Amanda infila una mano in tasca. Estrae un bisturi a scatto, rubato in ospedale, molto simile al taglierino che ha usato sul suo palmo, una delle loro prime uscite. Quella volta aveva succhiato la ferita per accertarsi che il sangue fosse come il suo. Forse vuole assaggiarlo ancora, si augura Tommaso. Amanda gli chiude le dita attorno al bisturi e conduce il pugno al petto, lato sinistro.
– Voglio vederlo.
– Sei impazzita.
– Potrei fidarmi di un cuore finto, se vedessi che è parte di te.
Una piccola pressione sul torace aumenta l’afflusso di sangue al viso. Trema: il riflesso della paura non è compromesso dalle macchine, lo conservano intatto e non intervengono sulla produzione di adrenalina. Le ciglia di Amanda sbeffeggiano l’istinto di sopravvivenza e lo guidano alla lama.
– Vedrei la tua anima. Chiunque ne morirebbe, tu no. Tu puoi farlo perché non sei come gli altri, mostrarmi il cuore che batte solo per me. Io da qui sento solo un ronzio.
Le regole, per lei soltanto, sono cambiate. Ha bisogno di fidarsi. Quante altre amano un ragazzo contaminato dalla robotica, un ibrido, complemento di funzione e sentimento? Nulla è valido senza sentimento, ma lui è pieno d’amore: basterà farlo uscire, un poco, da un forellino piccolissimo. Perché lui è il futuro, nessun altro. Amanda ha ragione. Tommaso la guarda e prega il suo nome quando la lama traccia una retta dallo sterno allo stomaco. Il cuore ha un altro sobbalzo. Fermati, stridono l’amigdala e la corteccia prefrontale, da sensori che sente elevarsi all’orecchio in segnali acustici. No, risponde: sono io il padrone, sono io che vivo e decido. Affonda. Sulla camicetta di Amanda crolla uno zampillo di sangue.
– Dimmi come stai.
Gli tiene la mano, la protegge nel suo palmo minuto, è l’appiglio per non perderlo. Le dita sono la prima parte di lui a farsi fredda. Dal torace sbottonato, tra i lembi della maglietta lacera, una ventola gira e alimenta il flusso del sangue rimasto. Hanno ancora un po’ di tempo, prima che arrivi l’ambulanza, allertata dal sistema di protezione dell’innesto. Dovranno resettarlo, questo lei lo sa – era previsto. Possibili danni cerebrali all’articolazione del linguaggio o alla memoria muscolare, anche. Si sarebbe risvegliato meno uomo, il giorno dopo. Tanto meglio, considera Amanda. Sentirà meno dolore, quando chiamerà il mio nome.
In alto: foto di Olga Lazacovici / Pexels.