Il racconto dell’incontro con l’artista a Bologna, in occasione del festival Il Cinema Ritrovato
Se fosse un colore, Nan Goldin sarebbe sicuramente l’oro.
Quel gold contenuto anche nel suo cognome, le sfumature fiammanti dei ricci scomposti, ma anche gli accessori che indossa e persino i colori che punteggiano il palco nero dell’auditorium della futuristica Fondazione Mast, dove è stata accolta da un’ovazione, lo scorso 26 giugno, nel contesto del festival Il Cinema Ritrovato della Cineteca di Bologna. «Voi italiani siete pazzi» si lascia sfuggire, e ha il sapore di un complimento tra pari, quasi un riconoscimento. L’occasione era un talk introduttivo per presentare il documentario, vincitore del Leone d’Oro 2022, All the Beauty and the Bloodshed (tradotto in italiano come Tutta la Bellezza e il Dolore) per la regia di Laura Poitras, che si è imbarcata nell’impresa di raccontare questa artista e attivista davvero instancabile e rivoluzionaria.
«Essere premiati alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha un valore superiore a qualsiasi altro riconoscimento, perché è uno dei pochi festival in cui a scegliere c’è una giuria specializzata, non condizionata, di addetti ai lavori. Ed è stata una soddisfazione anche doppia il dettaglio che si trattasse di un documentario» dice Goldin, e c’è da crederle. A fare la differenza, se vogliamo, è anche il fatto che Goldin è davanti all’obiettivo, e non dietro, soggetto e oggetto della storia raccontata. «In questo film c’è davvero tutta la mia vita, ma credo di averlo visto per intero soltanto una volta» e d’altra parte è difficile immaginare di rivivere una vita, sebbene tramite la macchina da presa. Non rimarrà a vederlo neanche nella sala bolognese, non si capisce se perché richiamata da altri impegni o intimorita dall’effetto che può fare vedersi raccontati così da vicino sul grande schermo. Un po’ si sbilancia e lo dice, a mezza bocca: «Quando ho saputo che sarebbe stato trasmesso in streaming su HBO non l’ho presa tanto bene. È una strana sensazione, non la raccomando».
Sebbene queste righe lascerebbero pensare il contrario, Nan Goldin non è comunque una «private person» come si direbbe in inglese. Ha fatto di tutta la sua traumatica esistenza un’opera d’arte, in uno storytelling di sé davvero antesignano di cose di là da venire. Tutto è iniziato con i diari che teneva da adolescente e poi ha proseguito con le foto: «Fare foto mi ha protetta, mi ha dato un motivo per esistere» dice, quasi giustificandosi. Queste foto le pubblicava non solo all’interno di cataloghi ma anche sotto forma di slideshow, performance sempre molto partecipate e, in un certo senso, interattive, visto che il destinatario e l’oggetto dei ritratti spesso e volentieri coincidevano. «Sono felice quando ho un feedback diretto da parte dei miei soggetti. Quando scattavo Polaroid alle drag queen nei locali di New York, a fine serata c’era sempre questa specie di gara in cui ognuna contava le sue foto e chi ne aveva più vinceva. Poi se non si piacevano le stracciavano senza farsi troppi scrupoli. Io non me la sono mai presa. L’ultima parola per me è sempre del soggetto ritratto. È a loro che deve piacere la foto innanzitutto». Un ritratto di sé, pubblico e privato, sempre vissuto attraverso i ritratti degli altri, dunque.
Nan Goldin potrebbe essere anche definita un’artista dell’editing, cosa che continua a fare sui vecchi slideshow, in un work in progress apparentemente infinito. Torna sulle sue opere, rimette mano alla sé di un tempo e dunque si riscrive passato e futuro. «Ho visto che le nuove generazioni continuano a rispondere sempre in modi diversi alle mie opere, anzitutto la Ballad of Sexual Dependency, e questo mi stimola a migliorarla, a modificarla per renderla sempre più fruibile» dice, ancora quasi mettendo le mani avanti, schermendosi. Al momento, però, sta lavorando a nuovi scatti per la serie Scopophilia di cui conta di fare un remake romano, dopo la prima serie prodotta al Louvre. Si tratta di immagini di grandi opere d’arte, a volte anche solo dettagli, affiancate, per «assonanza visiva», a sue foto originali. Questa continua necessità di aggiornamento Goldin la motiva con una ragione molto estetica: «Credo che solo la prima volta che vediamo qualcosa riusciamo a vederne la vera bellezza». Perciò, ciclicamente, Nan, un po’ Tantalo e un po’ Sisifo, vede qualcosa di nuovo, di bello, che la colpisce e decide di rimettere mano a un suo lavoro.
Ma non di sole immagini vive Goldin, la quale anticipa di essere al lavoro su un memoir. «Potrà sembrare banale, ma alla soglia dei 70 i temi della mortalità e della memoria (o perdita della stessa) sono inevitabili. È strano, sto vivendo un po’ come se il futuro fosse diventato il mio presente. Per indagare tutto questo sto procedendo in modo collettivo, come sempre, con una serie di interviste ai miei coetanei. A ognuno di loro chiedo cosa pensano ci sia dopo la morte».
E la morte è un tema ricorrente anche in All the Beauty and the Bloodshed. Si parte da quella di Barbara, sorella amatissima, morta suicida a diciannove anni, e si arriva alle centinaia di decessi indotti dalla dipendenza farmacologica. Il vero focus dell’opera, infatti, più che autobiografico sembra essere divulgativo: diffondere il messaggio e le attività del collettivo PAIN (Prescription Addiction Intervention Now), istituito da Goldin, insieme ad altri tossicodipendenti, amici e familiari, per combattere la dipendenza da oppioidi e le grandi aziende che su questa lucrano. Anche qui il suo impegno non può fare a meno degli altri: «Il mio scopo è far conoscere a più persone possibili gli effetti devastanti di oppioidi, per anni prescritti come caramelle, assicurandone la non dipendenza e che invece sono diventati una piaga sociale. A guadagnarci sono state una manciata aziende e le relative famiglie proprietarie, partendo dai Sackler, che per lavarsi la coscienza hanno sempre elargito ingenti donazioni a musei e gallerie d’arte che, a loro volta, hanno dedicato loro sale e intere ali. Ora stiamo chiedendo (e ottenendo) a queste istituzioni di cancellare i loro nomi e rifiutare i loro soldi».
A seguito delle proteste/performance guidate da Nan Goldin alcuni fra i principali nomi della cultura, come il Louvre, il Metropolitan Museum of Art e la Serpentine Gallery, hanno proceduto a rimuovere ogni traccia di Sackler dalle loro sale, e persino Netflix ha dedicato una miniserie alla piaga degli oppioidi e sui suoi responsabili in America, Painkiller, ma la lotta è tutt’altro che vinta. «Vogliamo che tutti sappiano e vogliamo anche salvare delle vite, per quanto possibile. C’è ancora un grosso stigma sociale sulla tossicodipendenza al giorno d’oggi e molte di queste persone vengono abbandonate a loro stesse, bollate come casi disperati e lasciate letteralmente morire da sole. Le soluzioni esistono, si chiamano terapia e assistenza, basta volerle tentare.»
All’applauso finale Goldin quasi si ritrae, usa l’arma dell’understatement, dell’ironia: «Siete un pubblico facile da entusiasmare». Ma c’è ancora tempo per congedarsi con un epigramma che è allo stesso tempo un consiglio da raccogliere e quasi un passaggio di testimone: «Tutto quello che ho fatto non l’ho fatto perché sono coraggiosa, ma perché semplicemente dovevo».