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Riflettendo retrospettivamente sull’inizio dei suoi vent’anni, il Leo di Camere separate «aveva esattamente l’impressione di aver attraversato quegli anni universitari come un fantasma e questo era precisamente il risultato dello sviluppo della sua personalità. In un certo senso, come nei suoi amori di ragazzo, era riuscito a parteciparne standone fuori». In un modo non troppo diverso dal suo alter ego finzionale, quella di Tondelli è rimasta una presenza che ha continuato a infestare le tendenze letterarie di questi ultimi trent’anni pur restandone fuori, partecipando a più di un filone della produzione contemporanea e dando vita sia a ispirate variazioni – per citarne solo due, appartenenti ad autori di generazioni molto diverse, basti pensare al trafelato racconto di Vincenzo Latronico Quel sollievo, scritto per l’antologia L’età della febbre (minimum fax, 2015) o all’ammaliante Ezio Sinigaglia del dittico Fifty-Fifty (TerraRossa Edizioni, 2021 e 2022) – sia a operazioni derivative nel migliore dei casi, fautrici del mito di una candida gioventù da scovare a ogni costo, datate già ancor prima della loro effettiva pubblicazione.

Rievocare il fantasma dello Scrittore Giovane all’ennesima uscita di narrativa italiana incentrata su uno o più omosessuali infelici o promiscui (o infelici e promiscui) è un cliché sul cui crinale ci si sta evidentemente muovendo anche adesso, e in cui si è disposti a cadere a patto di assumersi solo metà della responsabilità: nel primo dei due romanzi accennati nel titolo, infatti, l’accostamento è esplicitamente spinto già da due elementi paratestuali. In Polveri sottili di Gianluca Nativo, uscito il 29 agosto per Mondadori, gli inevitabili echi malinconici tondelliani menzionati dalla sinossi fanno il paio con la facile frase in esergo, tratta dal primo movimento di Camere separate, che ci ricorda come nessuno possa tenere distanti due persone che si appartengono e che si stanno cercando.

Nel suo racconto Gente di campagna, scelto insieme ad altri da Mirella Armiero per la raccolta Napoli stanca (uscita lo scorso giugno per Solferino), Nativo ha scritto del suo ritorno a Mugnano facendo menzione di questo breve scambio di battute:

«Quando lo fai il secondo?» mi sorprende mia zia. Per un attimo temo stia parlando di figli, la guardo disorientato, come sempre quando mi rivolgono la parola. «Il libro, mo’ quando lo fai il secondo libro?»

Dopo la lettura del suo esordio una zia più maliziosa avrebbe potuto sorprenderlo chiedendogli: «Quando lo fai il primo?». Il primo che passa (Mondadori, 2021) era un libro fiacco, ascrivibile più a una falsa partenza che a una vera prima prova e caratterizzato dalla stessa timidezza e indolenza del suo protagonista, un bigio studente di medicina il cui spaesamento poteva richiamare quello del depresso dottorando di Una vita vera (Codice edizioni, 2021), esordio dello scrittore afroamericano Brandon Taylor, tradotto in italiano lo stesso anno e indubbiamente più centrato negli intenti e nella resa.

Fortunatamente per Nativo quello dello sviluppo lineare e possibilmente parabolico della carriera di un autore è un mito novecentesco di cui oggi si sente sempre meno l’esigenza, motivo grazie al quale Polveri sottili potrebbe bypassare con disinvoltura l’annosa questione della difficoltà del Secondo Libro e, lungi dal presentarsi come un romanzo della maturità artistica, prestarsi meglio (per le sue intuizioni così come per le sue ingenuità) a occupare il ruolo dell’esordio.

Eugenio e Michelangelo, protagonisti sulle cui spalle il narratore appoggia a fasi alterne il proprio punto di vista, «per i primi mesi [della loro relazione] avevano avuto la presunzione di credersi una coppia invidiabile», in grado di compensarsi alla perfezione e di seguire il copione di qualsiasi altra coppia etero.

Il primo, abituato a sentirsi sempre «il più responsabile di casa» e per questo portato a seguire «il cursus honorum del bravo maturando del liceo classico», coronato prima dal superamento del test di Medicina e il desiderio di una specializzazione all’estero dopo, avanza risoluto a ogni snodo della propria vita tentando di ignorare la latente consapevolezza di essere una «persona noiosa» o «solo un ricco pieno di pretese»; laddove il secondo, di formazione, attitudine e aspirazioni canonicamente umanistiche, si trascina nei suoi progetti con la flemma di «un animale domestico, abituato a poltrire per ore» e con «un’idea di lavoro tanto precaria quanto romantica», trasformando in un’ipotesi via via più fondata il principale timore che il compagno nutre nei suoi confronti, secondo cui «quell’aria svagata, il suo temperamento stralunato, erano amabili in un’altra vita, un’altra città, da cui doveva liberarsi, perché non esistevano più».

Educati sentimentalmente in un decennio e in un contesto sociale in cui l’omosessualità da apocalittica si sta facendo sempre più integrata, seppur a condizione di piegarsi alle affidabili consuetudini piccolo-borghesi – «la discrezione era sempre stata la forma della loro vita digitale» –, ciò con cui i due neolaureati si ritrovano a fare i conti, anziché l’ormai canonica scoperta del sé, il conseguente coming out in famiglia o le eventuali reazioni intolleranti (momenti che lo scrittore napoletano aveva già tentato di immortalare ne Il primo che passa), è piuttosto l’inedito «imperativo morale che li voleva sì protagonisti di una storia d’amore ma, allo stesso tempo, realizzati, autonomi, adulti. Nessuno dei due era davvero disposto al sacrificio».

Che quella che si appresta a sfogliare sia una storia di mancato sacrificio piuttosto che una d’amore è qualcosa che al lettore è lasciato intuire già subito, nella prima delle cinque parti del romanzo, dal tiepido entusiasmo con cui Michelangelo viene accolto dal suo significant other quando sceglie di raggiungerlo a Londra. Le migliori pagine del libro sono probabilmente proprio quelle poche in cui a prendere atto di questa incomunicabilità di fondo – così lampante a chi legge, al punto da far sì che la frase in esergo suoni più come una minaccia che una speranza – sono i personaggi stessi:

«Mentre guidava verso il buio della periferia Eugenio pensava a quanto fosse precaria la vocazione di Michelangelo. Di quanta sconsideratezza c’era bisogno per investire il proprio tempo per una cosa che non esiste. Attraversare tutta la città, spendere le proprie risorse per ascoltare un’insegnante modesta, rompersi la testa su un testo che ancora non c’era. Mentre le possibili amiche di sua mamma erano lì riunite per smaltire la noia del troppo benessere, cosa si aspettava di guadagnare Michelangelo? Era questo che avrebbe voluto chiedergli. La bizzarria dello stare tutti insieme in una sala per scrivere era inaccettabile. Quasi lo spaventava».

Fin troppo preoccupato di demistificare le retoriche del facile successo all’estero e al tempo stesso di non assecondare quello che il suo stesso narratore definisce «l’infinito lamento del meridionale che assum[e] ormai codici precisi, da genere letterario», recitato come una nenia da coloro secondo i quali «giù al Sud crediamo a qualsiasi sciocchezza, e se qualcuno dice che in Inghilterra si vive bene tutti vanno in Inghilterra senza nemmeno essere mai usciti, che ne so, da Pomigliano d’Arco», Nativo finisce con l’impelagarsi in una narrazione poco a fuoco, segnata da una tangibile mancanza di progettualità e incapace di smarcarsi da quell’andamento inerziale che già contraddistingueva la sua precedente opera. Il risultato è un libro ovattato, sorprendentemente povero di mondo esterno e interiore, come quando in aereo ti si tappano le orecchie per un rapido cambio di pressione. La stessa zia di prima, con sicumera partenopea, avrebbe facile assist nell’evidenziare come anche questo secondo romanzo non sembra mai decollare.

In un’intervista di Gianni De Martino, apparsa sul Mattino a ridosso dell’uscita di quello che sarebbe rimasto il suo ultimo romanzo, Tondelli si era ritrovato a dar ragione ad Aldo Tagliaferri quando quest’ultimo aveva «detto giustamente che il mio è un libro sul narcisismo. Non a caso inizia con un rispecchiamento del protagonista, uno scrittore, nell’oblò di un aereo. Deve essere un momento meraviglioso guardarsi per la prima volta allo specchio e riconoscere la propria bellezza. Ma che triste momento quando, qualche anno dopo, lo stesso si guarda di nuovo in uno specchio e vede che la propria bellezza è scomparsa».

Durante le decine di voli che prenderanno tra Napoli e Londra e Milano, Eugenio e Michelangelo, a differenza di Leo, non si rispecchieranno mai abbastanza né negli oblò delle loro cabine separate né tantomeno l’uno nell’altro, così come lasciato presagire dai due ragazzi di spalle dipinti da Daniel Bennett Schwartz sulla splendida copertina. La carenza principale che potrebbe essere imputata al testo di Nativo (e che fa cadere Polveri sottili ben lontano dall’albero di un’eventuale genealogia tondelliana) è proprio il suo non essere narcisista abbastanza, evidentemente non nella scelta del soggetto della storia quanto nelle ambizioni sul modo in cui questa può essere raccontata.

«Una volta, sugli scogli di Marechiaro, dopo avergli letto un capitolo di un romanzo di Ortese di cui non ricordava più il nome – c’era di mezzo una bambina che aveva visioni in una città che non era Napoli ma che le somigliava molto –, gli disse che in quella conca, in mezzo al mare, lui sarebbe potuto vivere per sempre. Voleva essere come la Madonnina che svettava sullo scoglio di fronte all’isola di Nisida, piccola ma irremovibile. Nulla doveva cambiare».

Esattamente come la Madonnina di fronte Nisida, Nativo fa dell’irremovibilità la sua cifra stilistica, quasi volendo fare tesoro dei pensieri che assillano uno dei suoi due protagonisti – «Il rischio è uguale al prodotto della probabilità per il danno, si ripeteva mentre evitava di essere investito da un motorino. Per portare il rischio a zero bisognava stare fermi, in un contesto protetto, schiena dritta e lavorare senza lamentarsi» – riuscendo a portare il più possibile vicino allo zero, per la seconda volta, sia il rischio di firmare un brutto romanzo che quello di scriverne uno riuscito.

Un libro inaspettatamente (e per certi versi inconsapevolmente) tondelliano è invece uscito un giorno dopo quello di Nativo, ed è Autoritratto newyorkese di Maurizio Fiorino, pubblicato il 30 agosto per edizioni e/o.

In una lettera a Castor Seibel, riferendosi sempre a Camere separate, Tondelli lo definiva «il romanzo sottaciuto agli altri tre», contenente «quello che sono, quello che non ho mai avuto la forza di raccontare. Per dirla con le sue [di Seibel] parole: è il mio lato d’ombra». Anche quello di Fiorino è il romanzo sottaciuto ai suoi precedenti, il lato d’ombra restato finora coperto dalla grazia esuberante e scanzonata di Ora che sono Nato (2019) e dalla pesanteur (a volte sguaiata) di Macello (2021). A una quindicina di anni di distanza da quando anche lui girava per le aule del Dams di Bologna – corso di studi, a differenza dello scrittore di Correggio, abbandonato senza conseguire il titolo per trasferirsi nella New York ricostruita dalle pagine dell’Autoritratto –, Fiorino sceglie di raccontare uno spaccato della propria vita con la destrezza di uno scrittore che sa di aver finalmente trovato la distanza giusta da una materia narrativa così personale, senza cedere alla tentazione di monumentalizzare la propria esperienza né tantomeno il tempo e il luogo in cui questa si è svolta.

Il primo aspetto che fa di Autoritratto newyorkese un libro degno di attenzione sta infatti precisamente nel modo in cui in esso viene declinata la componente autofinzionale. A un’altezza in cui, almeno nella scena italiana, la questione per gli autori e le autrici sembra non essere più quella di decidere se cimentarsi nella scrittura del sé, ma semmai quando e soprattutto come farlo – in un momento in cui è finalmente sempre più evidente come l’autofiction e la nonfiction letteraria, lungi dall’essere generi monolitici, abbiano dentro di sé almeno tanti generi quanto quelli della fiction più tradizionale – Fiorino gioca con le aspettative del suo lettore, seducendolo con le premesse di un facile disvelamento ombelicale per poi farlo finire in quello che è un romanzo a tutti gli effetti.

A dispetto di tratti potenzialmente ambigui quali il titolo, il vissuto biografico comune ad autore e protagonista (senza nome), la voce narrante in prima persona, basta infatti iniziare a leggere l’Autoritratto per cogliere un tono e un andamento eminentemente romanzeschi, così come una temperatura stilistica ben lontana dalle dolenti sponde memorialistiche – laddove nel libro di Nativo il cambio di nomi, la divisione strutturale in parti e un narratore esterno, seppur vicino, ai personaggi sono tutti elementi che si rivelano insufficienti a scorzare il pudore che frena quasi ogni momento della narrazione.

Quella tra Lou e il protagonista, entrambi in procinto di riemergere dall’onda lunga della propria adolescenza, è una relazione marcata dalla veemenza e dall’ingenuità che appartengono solo alle prime storie a cavallo dei vent’anni – «Se avessi potuto definire, in poche parole e in quel preciso istante, il mio rapporto con Lou, avrei detto che entrambi sapevamo di essere sbagliati senza sapere in cosa» –, esemplificate dalla tenera confusione con cui i due ragazzi tracciano i margini di esclusività del proprio rapporto sorprendendosi delle continue e rispettive violazioni di tali confini: «Una parte di me era consapevole che Lou avrebbe ripreso a fare marchette, prima o poi. Non glielo avevo ancora confessato; ma era capitato anche a me, di prostituirmi, anni prima». Nella sua monografia Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli (Mimesis edizioni, 2020), la studiosa e scrittrice Olga Campofreda ha spiegato come nelle sue prime due opere Tondelli «dipinge un sistema all’interno del quale i personaggi affermano attraverso il sesso la propria posizione di outsider […], il sesso non è una scoperta ma un’affermazione di quelle diversità che vivono ai margini di una società fondata intorno al nucleo della famiglia come istituzione primaria».

In New York City, 1979 (la cui traduzione italiana è uscita in digitale per i Quanti Einaudi) Kathy Acker scriveva, per bocca della sua Janey, di quanto «il sesso è diventato un’esca bella grossa. Il desiderio sessuale è un fenomeno naturalmente fluttuante. E il prodotto sesso apre a un mercato in espansione illimitata». Autoritratto newyorkese condivide, con la Janey di questo breve affresco metropolitano come quella di Sangue e viscere al liceo (LiberAria, 2022), oltre alle rocambolesche avventure e alla vividezza nel raffigurare quei bassifondi in cui scegli di vivere, soprattutto la capacità di fluttuare tra dramma e ironia con l’agilità di un acrobata, e la lucida consapevolezza del fatto che in uno scambio come quello della prostituzione possono intervenire in parti uguali necessità e desiderio.

Nel libro di Nativo, d’altra parte, la sbrigatività con cui i due protagonisti consumano i propri rapporti è seconda solo a quella del narratore che – a eccezione dei radi incontri occasionali trovati all’esterno della coppia, sbozzati con qualche rapida pennellata macchiettistica – preferisce ogni volta tagliar corto lesinando su qualsivoglia accenno lascivo:

«Di notte Eugenio dormiva con un pigiama di lino azzurro, tutto spiegazzato, che si confondeva con le lenzuola e metteva in risalto i suoi occhi. Quando lo spogliava, Michelangelo stava ben attento a non gettarlo a terra. Dopo, quando si rivestivano, era la prima cosa che ripiegava».

«Uno dei tuoi feticismi?» gli chiese Eugenio quando notò la sua inspiegabile premura per il pigiama.

«No, mi piace, non voglio che si rovini» Ci teneva che fosse in ordine, l’idea che potesse contaminarsi con la polvere che aleggiava nella stanza, con i batuffoli che rotolavano sotto il letto gli sembrava il presagio di una sciagura.

Leggendo Polveri sottili si ha la sensazione che il tratto più stringente che accomuna Nativo con Michelangelo, al di là dei probabili dati biografici, sia precisamente questo timore di contaminazione: ogni frase va ripiegata al suo posto per evitare che possa spiegazzarsi. In Autoritratto newyorkese la lercia stanza in cui si sveglia il protagonista nella prima pagina è invece indice di una sciagura che è già avvenuta, una rovina nella quale bisogna inevitabilmente cercare di abitare (nuovamente Kathy Acker: «Voglio sempre più disastri a New York City perché voglio disperatamente vedere la cosa nuova che accadrà quest’anno»): Fiorino non ha riserve nel mettere a nudo tanto se stesso quanto chi legge e i suoi giovani personaggi, mostrando che al di là dei vestiti e della pelle vi sono sempre ulteriori strati da cui spogliarsi.

«Si è già detto quanto il mondo di Altri libertini e di Pao Pao sia sostanzialmente un mondo senza adulti: quando appaiono essi non sono eroi, i modelli a cui aspirare […]. Gli adulti tondelliani sono gli integrati, sono i ‘normali’ intesi come coloro che vivono e agiscono aderendo a determinate norme sociali che passano per quelle della famiglia, dell’istruzione, delle istituzioni in generale», sottolinea sempre Campofreda, registrando opportunamente la vicinanza tra questa sensibilità e le posizioni antisociali del teorico queer Lee Edelman, secondo cui la tradizionale idea di futuro progressiva e lineare, lungi dall’essere naturale e priva di implicazioni politiche, sarebbe di fatto generata da una matrice eterosessuale e nasconderebbe in sé la minacciosa prospettiva di un’infinta riproduzione del medesimo (secondo una logica che egli stesso definisce futurismo riproduttivo). Fulvio Panzieri aveva già osservato come nel leggere l’esordio di Tondelli si entrasse a contatto con «un immediato che non sembra avere né passato né futuro»: anche nell’ultimo romanzo di Fiorino la sessualità segue cadenze e temporalità oblique, in un ritmo sincopato attraverso il quale i personaggi riescono a intravedere un’idea di futuro solo offrendo ad altri il proprio corpo e i propri anni.

«All’epoca, ai miei occhi prostituirmi era uno svago in cui io ero l’unico a guadagnarci qualcosa. Ci avrei messo anni a capire che se da un lato offrivo la giovinezza al miglior benefattore, dall’altro, come in un intreccio di lacci dal quale è difficile sbrogliarsi, s’infilava nel mio cervello un’idea malsana e legata indissolubilmente al declino umano. Una sorta di scambio: ti do un pezzetto della mia giovinezza e tu, oltre che ai soldi, mi mostri che adulto potrei diventare».

Il merito di un libro come Autoritratto newyorkese non è solo quello di suggerirci, in controtendenza rispetto al comune sentire, che forse la vena tondelliana ancora più piena da cui attingere è nella sfrontatezza dei primi testi rispetto alla reverenza dell’ormai canonizzato ultimo, ma sta soprattutto nel dimostrare che l’unico scambio fruttuoso che chi scrive oggi può sperare di intrattenere con lo Scrittore Eternamente Giovane e il suo lascito non è così diverso da quello appena descritto: dargli un pezzetto della propria giovinezza per ricevere in cambio un’immagine dell’adulto che Pier Vittorio Tondelli non ha mai avuto occasione di diventare.

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