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Ho visto Rumba. L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio di un supermercato di Ascanio Celestini. Per Romaeuropa Festival era andato in scena all’Auditorium Parco della Musica. Nel piazzale di un supermercato alla periferia di Roma, due uomini raccontano la storia di San Francesco: uno narra, l’altro suona e parla solo fuori campo. Ma non l’ho visto lì. Sono andata a Fucecchio per vederlo. Dopo sono uscita dal teatro Pacini di Fucecchio e mi sono seduta sulla pedana della giostrina messa in piazza, forse installata con le luminarie per l’avvicinarsi del natale, forse unica attrattiva del paesino di Fucecchio. L’ho fatto con la convinzione (di Totò-memoria che attendeva che la malafemmina da piazza Duomo a Milano da lì dovesse passare) che quella fosse l’unica uscita del cine-teatro Pacini, e Ascanio Celestini da lì dovesse uscirne.

Il pubblico, dapprima chiassoso, si era fermato al foyer, al bar fuori davanti l’ingresso, e guardandoli con preoccupazione ho pensato non importa, ho fatto 300 chilometri per vedere questo spettacolo, sono arrivata a Fucecchio perché la settimana scorsa, dopo un giorno di lavoro, dai Castelli Romani l’Auditorium mi sembrava lontanissimo, e se anche loro ci vogliono parlare, salutarlo, ringraziarlo per lo spettacolo, io ne ho più diritto. Gli dirò che ho 300 chilometri e tre ore di macchina di diritto. Sì, se anche tutte queste signore e questi signori avranno voglia di stringergli la mano e ringraziarlo, lui non se ne riavrà se ne stringe una in più: la mia. Le signore e i signori davanti l’ingresso organizzavano quando rivedersi, qualcuno fumava, qualcuno rideva, tutti si stringevano in sciarpe e cappelli e zuccotti e cappotti e io lì, seduta sulla pedana di una giostrina ripassavo cosa gli avrei detto stavolta. Stavolta, perché tempo prima lo avevo visto in metro fermata Anagnina e gli ero andata incontro: «Basta, ora vengo a salutarla!». E lui: «Infatti sono d’accordo!». Sono io, la sua amica di metro A Anagnina-termine corsa.

Aspetto, aspetto e mi preparo il discorso:

Signor Celestini…

Agli attori viene da dargli del tu, lui è Ascanio Celestini, lo sai, ti pare di conoscerlo, lo vedi cambiare, invecchiare, lo vedi alla metro A Anagnina, lui no, ma tu sì. Viene da dargli del tu, solo che non sarebbe Tu Ascanio, ma Tu Ascaniocelestini, e non funziona, quindi facciamo Signor Celestini. Sì, del lei, più serio, che non hai più vent’anni e sei una donna anche tu, anche se lui non l’ha vista cambiare e invecchiare la tua faccia, e non se la ricorda alla metro A Anagnina, ormai è quella di una Signora.

Signor Celestini: grazie.

Ho fatto tutti quei chilometri, ci sono venuta da Roma che la settimana scorsa l’Auditorium mi sembrava lontano perché ero stanchissima, e il teatro, diceva Barthes, è roba da borghesia perché non tiene conto che uno il giorno dopo va a lavorare come è andato il giorno stesso, e di giovedì fare tardi è un investimento di forze che dieci anni fa potevo farcela, ma oggi no. Quindi forse bisognerebbe rivedere Barthes e precisare che andare a teatro è una cosa da borghesia ma anche da giovani in forze che se anche fanno tardi di giovedì, il giorno dopo in prima ora entrano comunque belli freschi a scuola. Ma io no. Anche se mi piace l’autostrada, mi piacciono gli autogrill, pure che la macchina si riduca ad un formicaio di briciole, cartacce, bottiglie dell’acqua Evian altrimenti mai comprate. Dovevo vederla Ascaniocelestini, dovevo vederlo Rumba, a Fucecchio.

Perché io di San Francesco da qualche tempo so un sacco di cose. Che si chiamasse Giovanni per esempio, e non Francesco, lo sapevo. L’ho scoperto quasi a quarant’anni, così come ho scoperto di non aver dato un secondo di attenzione a tutti gli anni di catechismo fino alla cresima. E alla Porziuncola sono stata. Due volte. La prima volta ci sono stata che era estate, luglio, avevo preso una camera a Santa Maria degli Angeli e Assisi mi si parava davanti come fosse in posa. Alla Basilica l’ho trovata, incastonata dentro, come un cuore, il cuore della maestosa Santa Maria degli Angeli: la Porziuncola. A proposito di Santa Maria degli Angeli: sapevo anche che nel 1769 c’erano due frati Francescani che avevano trovato una landa desolata in America, California, e avevano fondato una piccola comunità e l’avevano chiamata Nuestra Senora la Reina de los Ángeles sobre El Río Porciúncula e adesso quella piccola comunità è semplicemente Los Angeles.

La Porziuncola: tre inginocchiatoi uso singola sui due lati, e un frate o un prete o una suora o un disperato pregante per ogni inginocchiatoio. E quella volta è entrato un pretino nella Porziuncola, quando c’ero anche io, un giovane pretino, calvo, pienotto, rosa, che entrato si è inginocchiato anche senza inginocchiatoio e poi è scivolato lungo sul pavimento, disteso, che più in basso di così non poteva, faccia a terra e mani sulla testa in una supplica fortissima e silenziosa. L’ho invidiato, mi sarebbe piaciuto crederci anche io in quel modo, sperare anche io così tanto, pregare anche io fortissimo, ma solo più tardi, già ad Assisi, dopo, alla Basilica, superiore e inferiore e poi finalmente alla tomba di Francesco, solo lì, dove la disperazione e la preghiera e la speranza erano ancora più grandi e dirompenti, solo allora, credente o non credente, anche io mi sono messa a piangere. Perché quella cosa lì, ad ogni modo, riguardava le persone e l’aveva creata una persona, che si chiamava Giovanni e tutti lo chiamavano Francesco, perché suo padre era fissato con la Francia, come ha detto anche lei durante lo spettacolo, ma io lo sapevo già. E poi Signor Celestini, la seconda volta ci ho portato mia figlia, volevo che lo vedesse anche lei, che si emozionasse anche lei a questa cosa delle persone davanti alla tomba di un santo ok, ma non uno qualunque, proprio quello, proprio alla tomba di San Francesco. Le ho indicato quella colonna di pietra e le ho detto: «Lì c’è il resto del corpo di una persona che se sappiamo cosa vuol dire essere una brava persona, un essere umano giusto, ce lo ha insegnato lui». E Mia, mia figlia, ha guardato le persone, i preti, le suore, i frati, i disperati che piangevano e pregavano, ha guardato la colonna di pietra e mi ha creduto, perché ancora crede a tutto quello che le dice la mamma. E ho voluto dirglielo e farglielo vedere perché se anche alla spiritualità ho rinunciato da anni, alle persone ci credo ancora, spero ancora, mi dispero ancora, e vorrei ci credesse anche lei.

E allora, Signor Celestini: grazie.

Perché sono stata anche a Greccio, sa? Dove San Francesco realizzò il primo presepe, quello di cui parla lei nello spettacolo. San Francesco, mentre aspettava che il Papa gli accettasse la Regola, si trovò in questo paesino povero, poverissimo dove i lupi erano così lupi che mangiavano le persone, e che gli ricordava Betlemme. Lui abitava in una grotta di Greccio e il castellano lo pregava di scegliere una dimora più giusta per uno che puzzava di santità. Ma San Francesco invece gli chiese di trovare un’altra grotta, metterci dentro un bue e un asinello, solo il bue e l’asinello, e così vederlo il salvatore nascere, immaginarlo, mettercelo noi il bambinello, tra il fiato e gli sbuffi di quelle due bestie. San Francesco, tornasse adesso, ci chiederebbe di vederlo nascere il salvatore, immaginarlo, mettercelo noi il bambinello tra i bidoni dell’immondizia di un piazzale di un supermercato, ha detto nel suo spettacolo.

Io dimoravo in un b&b per pellegrini, perché ci sono arrivata a piedi, a Greccio da Rieti. Volevo dimostrare a me stessa che potevo fare un cammino da sola, senza nessuno, che sarei stata in grado. Ho pianto ad ogni passo, perché non era vero, non ce la potevo fare, ma ci sono arrivata lo stesso a Greccio e sono entrata nel negozio di souvenir e c’era profumo di rose e una suora mi ha detto «prego?», e io ero troppo stanca e mi facevano male i piedi e non la volevo fare quella cosa del cammino da sola e lei era una suora, poteva (doveva?!) consolarmi e sono scoppiata a piangere ancora, di stanchezza e desolazione, e lei è scappata via e non mi ha consolata. Ed era sabato e neanche c’era la messa, che almeno avrei potuto cantare e invece manco quella. Non c’erano i lupi e non c’era neanche il presepe, che era maggio e non era il momento, e per la mattina seguente avevo già comprato un biglietto per il treno che mi riportasse a Rieti comodamente seduta in una romantica lettorina, ma mentre mi avviavo per la stazione sono ripassata dal santuario e senza pensarci troppo ho ricominciato a camminare verso Stroncone, verso il convento fondato da San Francesco, e ho ricominciato a piangere.

Dovevo camminare ancora, non volevo, ma dovevo. In cammino, alle lacrime, si è aggiunta l’avvisaglia della tendinite che poi avrei avuto per giorni e mi sono distratta, guardando il mio piede e cercando di capire come posizionarlo per non sentire il dolore, aggiustare il passo. Aperto in prima posizione della danza classica, ritorto all’interno con la gamba storta, claudicando, indugiando più sul sinistro che sul destro: cercavo l’appoggio, guardavo il piede e non la strada, e ho perso l’imbocco per il sentiero. Ero sulla strada per Stroncone, sì, ma sulla strada asfaltata, quella per le auto che seguono la montagna risalendola a forza di tornanti, cinque chilometri in più di salite e tornanti rispetto ad un sentiero che quella montagna la attraversava dabbasso. Il mio piede, da ballerina o storto o claudicante non mi consentiva di tornare indietro, non accettava l’ordine, e poi indietro dove? Dove lo avevo perso il sentiero? Dovevo andare avanti. E continuavo a camminare, costeggiavo il guardrail e sapevo che laggiù, alla fine di quella cava scoscesa quasi a strapiombo, fitta di alberi, c’era il mio sentiero. Poi quel guardrail l’ho scavalcato.

Al di là del guado, diciamo, ho riflettuto su come non morire e ho teorizzato che l’unico modo per non cadere era stare a terra. Cadere di mio insomma, essere già caduta. La teoria era facile: sto a terra, mano-mano, piede-piede, culo, cinque appoggi e scendo come un ragnetto, di albero fitto in albero fitto. Per mezz’ora mi sono trascinata zampettando e ad un certo punto una grossa pietra è scivolata via; la rappresentazione plastica di quanto avrei potuto rotolare e per quanto tempo, prima di sbattere male contro un tronco. Come Jack e Rose sulla prua del Titanic che vedono l’uomo schiantarsi in volo sulla ringhiera del ponte, e si stringono di più. E così anche io mi stringo ad un ramo che però si spezza e mi arriva in testa. Ne trovo un altro, e un altro ancora e continuo a scendere: mano-mano, piede-piede, culo. Se fosse tornato a piovere la terra sarebbe diventata fango e la cava scoscesa sarebbe diventata uno scivolo di un acquapark, ma non tornava a piovere, lo minacciava ma non lo faceva. E giù giù, per mezz’ora almeno: non ho mai pianto. Al termine della discesa, viva e integra, mi sono cambiata i calzoni perché avevano un buco tale da lasciarmi completamente nudo il fondoschiena, ho tolto la terra dalle scarpe, dai calzini, dalle mutande, e dopo finalmente l’ho scorto, in lontananza: il brecciolino bianco, una bandierina gialla e celeste dipinta su un palo della luce, ho camminato ancora qualche passo storto e l’ho trovato, il mio sentiero.

Tornando a Fucecchio: è fatta da un piccolo corso, una piazza con una giostrina e il teatro, ed era praticamente tutto lì e avevo finito di girarla, ma sono arrivata ad una chiesa e sono entrata e c’era la messa, stavano già dopo la predica e Signor Celestini, lo confesso: far finta di andare a messa mi piace molto. L’ho fatto per la prima volta non molto tempo fa, ero appena stata alla Fenice a Venezia, e dopo che Cumpari Turiddu era stato ammazzato avevo ancora voglia di teatro e pure voglia di cantare e, soprattutto, non volevo stare sola. Mi sono detta che San Marco non valeva come chiesa, che non ha una flock, un gregge preciso, una comunità, che il mondo ci passa da Venezia e forse qualcuno vuole andarci a messa nella Basilica di San Marco, che dentro pare fatta di sabbia come i castelli che si fanno sulla battigia, quindi non sarebbe stata una vera intrusione, non sarebbe stato così irriguardoso. E sono corsa dalla Fenice a Piazza San Marco e sono entrata e mi sono messa seduta. Durante la messa tutto quello che ho potuto ricordare l’ho ricordato: l’Ave Maria, il Padre Nostro, il Credo no, non lo sapevo trent’anni fa e non lo so adesso, tranne che credo nella chiesa-una-santa-cattolica-apostolica ma perché ha un ritmo indimenticabile. E anche perché forse davvero è una cosa in cui credo, o che almeno capisco un po’. Nel senso che la chiesa fatta dalle persone che vogliono cantare e non vogliono stare soli, quella la capisco. Non so se si possa tradurre in una-santa-cattolica-apostolica, però ci sono le persone che si stringono e io quello lo capisco, a quello credo.

Poi quando tutti si sono inginocchiati ho pensato che anche io potevo farlo, che nessuno si sarebbe accorto che non era vero e allora in ginocchio anch’io, supplicante, mentre mi guardavo attorno e cercavo di capire se ero credibile. E ho cantato, uh se ho cantato – Alleluia! Osanna! C’erano delle persone due file di banchi dietro di me, ero parata davanti a loro e per loro sono stata devota. Avevo un bell’abito di cotone, bianco a righine nere, i capelli raccolti, delle perline alle orecchie; ho la presunzione di essere stata bella da guardare, vestita di tutto punto per nostro – loro – Signore, fervente e con tutte le parole giuste mormorate degnamente sulle labbra. Poi il prete s’inginocchia davanti alla pisside dove c’è il corpo di Cristo, poi il sangue di Cristo, compie gesti eterni sull’altare fino a girargli intorno e andare per elargire il corpo di Cristo anche a tutti noi. Io ci vado – ho pensato. E dovevo, perché ero stata così degnamente sussurrante e pia che le persone due file di banchi dietro di me cosa avrebbero pensato?! Si sarebbero accorti! E non lo facevo dalla cresima e volevo proprio farlo, portarla fino in fondo, esserci senza sconti, e mi sono messa in fila, mani giunte, incamminata verso il Corpo. Solo che per me era solo un’ostia. Non era giusto; un conto era recitare per quelle persone due file di banchi dietro di me, un conto era trovarmi faccia a faccia con un prete e dirglielo negli occhi – Amen. Era una bugia, quella era una cosa brutta. E con costernazione sono tornata indietro, andando controcorrente al fiume lento di fedeli in coda, vergognandomi di aver mentito e di essermi fatta scoprire.

Così ieri pomeriggio non volevo più stare in camera, ma al suo spettacolo mancavano ore e ho attraversato la via di Fucecchio seguendo le luminarie che mi indicassero la strada principale. Sono arrivata alla prima chiesa; la volta lignea della navata non è restaurata e sembra il volto di una persona con tantissimi anni e troppe rughe. Si intravede ancora al suo centro il dipinto su legno della Madonna che splende con in braccio il bambinello che benedice. Ma era tardi, l’eucaristia era già stata somministrata, sono arrivata solo alla pace, e l’ho scambiata con le vecchine davanti a me. Ho preso la benedizione, detto Amen e sono uscita tra i canti stonati di altre vecchine del coro e sono andata a ritirare il biglietto al teatro. Ma erano ancora le 18 e suonava una campana dall’altra parte della strada di Fucecchio. Come richiamata dall’adhān del muezzin, mi sono avviata verso l’altra chiesa. Volevo sentirla la parola di oggi quale fosse, alla prima chiesa ero arrivata tardissimo, volevo sapere quale fosse la lettera di Paolo, che mi piace sempre perché sempre rimprovera. Ed era la lettera ai Corinzi e li rimproverava, nel dubbio li rimproverava sempre, che i Corinzi facevano un sacco di casino; ed era la parola di Marco, che pare sia tra quelli attendibili tra gli evangelisti, che diceva «Vegliate! Non sapete quando torna il padrone», una cosa così. E il prete aveva fatto una bella predica che diceva che il tempo dell’avvento è il tempo di desiderare di essere migliori, di smetterla di dormire e che dormiamo solo perché quando si dorme non si sente dolore – però attenti, sveglia, che non sapete quando torna il padrone.

Non lo so come la prendono le persone tra i banchi a cui mi accosto ogni volta, perché mi piace stare con loro e guardarli mentre guardano Dio. Mi fanno compagnia, calore, sono rassicuranti e rassicurati in quel rito quotidiano, si sentono protetti e io mi riparo dietro il loro scudo. E posso farlo anche io, se solo mi faccio invisibile, prenderne parte anche io, anche se non posso credere in un dio, ma posso credere alle persone, alla comunità, alla chiesa una-santa-cattolica-apostolica. E pure in un viaggio in Albania, richiamata dal muezzin, sono andata alle ṣalāt in moschea, nella parte della moschea destinata alle donne. Mi sono coperta con un velo il capo e ho guardato la loro preghiera. A Berat, un uomo ha aperto un po’ di più la finestrella che dà verso l’interno della moschea destinata agli uomini, consentendomi di guardare meglio. E li vedevo correre, arrivare anche in ritardo e mettersi in fila, uno spalla all’altro, e inginocchiarsi e mettere le mani attorno alla testa, dietro le orecchie e inchinarsi (né più né meno del prete alla Porziuncola). Il rito primitivo della paura che io ho e che loro sanno come guarire, che curano guardando nello stesso punto, allo stesso cielo e allo stesso libro, cantando la medesima canzone, le stesse parole di una preghiera. 

Anche per questo vengo a teatro, Signor Celestini: grazie. Grazie perché io per San Francesco ho un debole, va bene, capito, ma anche perché sogno i morti in mare, e ho paura quando si invocano gli ergastoli e le forche e le pene esemplari. Ho paura quando mi fanno paura gli zingari, ho paura di me. San Francesco non aveva paura dei lebbrosi, e se fosse vissuto adesso avrebbe abbracciato anche i lebbrosi del nostro tempo, gli scacciati del nostro tempo. Lui che ci ha insegnato come si fa ad essere una brava persona e un essere umano giusto, e noi che non abbiamo imparato niente. E infatti abbiamo paura. E se vengo a tutti i suoi spettacoli, Signor Celestini, sembra di potermi proteggere anche sotto il suo scudo. Perché lei sceglie San Francesco che sceglie i lebbrosi e anche lei li sceglie i lebbrosi, gli scacciati: zingari, immigrati, carcerati, analfabeti,  prostitute, operatori call center, morti invisibili, scemi di guerra. Io non so se sarò mai capace di farlo davvero, non so se sarò mai abbastanza di sinistra o francescana o un buon essere umano.

Piango la mia disperazione e a volte baro: vado di sghimbescio in chiesa o nelle moschee o a teatro.

Signor Celestini: grazie, però adesso vado via. Le signore e i signori hanno lasciato il foyer, il bar ha finito di pulire i braccetti della macchina del caffè, hanno spento le sigarette, si sono salutati e sono andati a casa al caldo. Ho il sedere ghiacciato seduta qui. Anche la ragazza del botteghino si è stretta nel cappotto ed è andata via. La luce della scala però è ancora accesa, qualcuno è ancora dentro, sicuramente lei è ancora lì. Però vado via perché quello che le volevo dire forse non è poi così indispensabile, magari la fermo al prossimo spettacolo, magari avrò qualcosa di meglio, sarò qualcosa di migliore. Chissà quanti chilometri farò la prossima volta. Credo di avercelo messo il bambinello, l’ho immaginato e visto il salvatore, nel parcheggio del supermercato di Rumba, tra i bidoni dell’immondizia. Se poi ci fosse stata una giostrina spenta, in quel piazzale, mi sarei seduta sulla sua pedana e lo avrei fatto da lì.


Foto: in alto Joshua Hoehne / Unsplash; all’interno del testo © Giulia Lecce.


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