Individuando nella letteratura un’affinità indissolubile con il male non è difficile considerare la scrittura alla stregua di un esorcismo. Non soltanto per la consueta apparizione di spiriti e spiritelli, gatti parlanti, trattative mefistofeliche e spettri shakespeariani. Se non è oggetto di ragionamento, o di filosofia morale, il male ha bisogno di venire evocato, necessita di incarnarsi in demoni e spettri, di rendersi manifesto secondo metafora e allegoria per correre in soccorso a difficoltà di rappresentazione, indicato e bollato dalla spontaneità della narrazione. Si chiamano a raccolta i propri demoni e le colpe del passato riesumandoli in antichi peccatori. Si permette ai morti di parlare svelandone i moniti; si raccontano spettri, per scacciarli via.
L’esorcismo, o la scongiura (l’etimo è del tutto equivalente), ha infatti questo di particolare: è esso stesso a rendere possibile l’apparizione del male. Ma ciò significa, evidentemente, che ai nostri occhi il male è tale non prima, ma solo dopo che l’esorcismo venga compiuto. La comparsa del male avviene grazie alla scongiura che, proprio laddove intendeva allontanare il demone, permette invece il suo annuncio; lo mostra per scacciarlo e lo scaccia per renderlo manifesto. Con l’esorcismo si entra così in un circolo vizioso, sul terreno dell’ipocrisia. Si imbocca la via di un paradosso fantasmatico, a partire da cui viene lecito chiedersi, in realtà, se il maligno non sia stato evocato unicamente dal gesto esorcizzante. Se non sia proprio il «toccare ferro» ad attirare la sventura che pure s’intendeva evitare. Se il campionato di calcio, per entrare in un double bind più comune, non lo si possa conquistare senza recitare quella formula magica buona solo ad attirare il peggio, «scudetto», o se tutti quegli scongiuri non vadano scongiurati anche loro in qualche maniera.
Come la letteratura, infatti, il male si rivela necessario (e necessariamente deve rivelarsi), dipende dalla stessa libertà di trasgredire; una libertà ingenua, per cui non appena la trasgressione è nominata si è già attirati a sé, per riconoscerli come tali, i propri incubi. Lo spettro e la paura sono fenomeni che si manifestano in contemporanea – come il traffico e i vigili – rinviandosi l’un l’altro per l’ordine di causa. Entrambi all’unisono appaiono, compaiono, si fanno palesi.
Non è un caso, pertanto, che nel suo Fantasma – titolo scaturito da una lettura editoriale della raccolta, secondo un’idea del Saggiatore – David Peace finisca per toccare le corde più sensibili del proprio percorso narrativo, le note fondamentali dei suoi migliori contrappunti sintattici. È in gioco, in effetti, qualcosa di connesso con il suo stesso fare letteratura, di cui l’autore affronta tutti i rischi non lasciandosi intimidire dal tremore e riuscendo a sventare, a soffiare via di netto, il pericolo numero uno per uno scrittore (di racconti): narrare di uno scrittore (di racconti).
Protagonista è Ryunosuke Akutagawa, celebre autore, tra i tanti, dei geniali Nel Bosco e Rashomon da cui è tratto l’omonimo capolavoro (sbalorditivamente del 1950) di Akira Kurosawa. La sua traversata lungo i quattro racconti brevi di cui è composta la raccolta segue il tracciato abissale della sua peregrina discesa agli inferi. Una discesa la cui descrizione favolistica, nel primo racconto mutuato e mutato dai Karamazov, non va letta come semplice metafora, come parabola, quanto presa, in verità, alla lettera.
Con le dovute riflessioni, il meccanismo narrativo è semplice: è Ryunosuke stesso a scoprirsi fantasma. Appare a se stesso, scopre di non essere o meglio di rimanere a metà, inconsistente in mezzo a due mondi entrambi immersi nell’apparenza – lo statuto dell’apparire, del phainomai, da cui derivano tanto fantasia quanto fantasma, appartiene tanto all’illusione quanto alla realtà. Dall’alto del paradiso Cristo e Buddha, anche loro poli di un mondo ormai diviso e inconciliabile (sebbene caro alla biografia di Peace), irretito fra oriente e occidente, tentano nelle prime pagine di richiamarlo dal proprio delirio infernale gettandogli in salvazione un filo di ragno. Questa volta non saranno i peccatori a farlo ricadere in basso, come fu in Dostoevskij, ma i suoi stessi peccati, ineliminabili; quel senso di colpa senza cui, per Bataille, non si dà alcuna letteratura.
Da quella scoperta – essere fantasma, cioè apparire fantasma a se stesso – Ryunosuke affronta la spirale dell’ade, dando vita a quella che Peace chiama, facendola sua, «letteratura del fallimento». E come potrebbe essere altrimenti? È la letteratura in sé, abbiamo detto, a costituirsi come fallimento: il fallimento della letteratura è infatti pur sempre e soprattutto letteratura. Il male rappresentato è tale, si rende manifesto, proprio nel momento in cui viene allontanato; per venire espiato deve essere evocato, e viceversa, nella narrazione. Ma Ryunosuke, proprio in quanto scrittore, è chiamato ad affrontare un problema addirittura doppio. Non è solo vittima di apparizioni spettrali avvolgenti, non soltanto è costretto ad abitare quella casa degli orrori che fu Tokyo in preda al disastroso terremoto del ’27 (l’inizio di tutto?). Spettrale è tutto intorno a lui, è vero, ma soprattutto lui stesso. Vittima ironica di quell’esorcismo che è la scrittura, sua ragione di vita.
Il vagabondaggio del fantasma è quindi ricerca di sé, conato identitario e lamento irrisolto. Lo spettro non equivale allo spirito: non gli è concesso recarsi da sé in sogno, ha bisogno di venire evocato. Approssimandosi alla fine, il vero Ryunosuke scrive e riscrive come in preda a una febbre grafomane, per chiamarsi; racconta il mondo per trovare se stesso. Le formule ricorrenti e ritmiche che Peace inserisce in una prosa apparentemente in terza persona non parlano soltanto, come ha sostenuto l’autore, di mnemonica e antiche tecniche derivate della tradizione orale, piuttosto esprimono la continua ricerca di un sé – il soggetto «Ryunosuke» ripetuto verbalmente fino allo sfinimento – improntate a suscitare con destrezza l’effetto opposto: l’estraniamento, lo spaesamento, la vivisezione dell’azione del protagonista in atti atomici, come a cercarne gli organi inabissati in una pasta di ectoplasma. I segmenti sintattici tipici dell’autore sono come rivisti alla luce di un montaggio caro al cinema horror giapponese. Lo scrittore si cerca e fallisce, vede solo un fantasma, vede il suo doppio; ma un fantasma non può evocarsi da solo, è una sconfitta annunciata.
In questo senso l’intuizione di Peace, sia contenutistica sia stilistica, è puntuale: la reiterazione si costituisce come pura cifra letteraria. Solo ripercorrendo la narrazione, raccontando e raccontando ancora, ci si può porre nel fallimento e quindi oltre il fallimento. I racconti hanno bisogno di trasmissione, i fantasmi-scrittori di venire rievocati da altri oratori, di essere riportati alla memoria. Peace salva (perdona, registra), o meglio tenta di salvare Ryunosuke («una presenza costante […] è sempre difficile dire perché un autore ti piace, fondamentalmente è un mistero e se tento di spiegarmelo il mistero si dissolve»), aspettando a sua volta la propria salvazione o il proprio tentativo di salvazione. La letteratura è condivisione del male anche in senso storico, tradizione in cui s’interrogano i morti per riesumarne le colpe ancora inespiate.
Da qui, il percorso dell’autore non pare subire alcuna soluzione di continuità. L’onirico di Fantasma non è che un’altra delle alterazioni tipiche di Peace: ubriachezza, illusione, emicrania; tutte volte a raccontare una fenditura al cuore dell’immaginazione. L’eredità e l’attesa del futuro, di cui viene gridato il bisogno, la necessità di una presa di posizione a partire dal presente, va letto secondo lo statuto ermeneutico della spettralità. Ed è davvero così assurdo? Basta cercare dalla cronaca, dai fatti, dalla «realtà» stessa; basta ripercorrere la cantilena delirante del Red Riding Quartet. Basta aprire il Manifesto del Partito Comunista, con Derrida e lo stesso Ryunosuke, a pagina uno: «Uno spettro si aggira per l’Europa…». Perdonare e ripagare le colpe, d’altronde, non è compito dei protagonisti, quanto più degli eredi, della storia, ammonita dal vecchio Amleto.
Non rimane dunque che rievocare l’irrisolto, quei morti ancora irretiti nella materialità, che appaiano o meno sotto le sembianze degli spettri di Hokusai: il genio pirandelliano di Ryunosuke si spegne all’età di trentacinque anni ingerendo una dose letale di Veronal. Un gesto che non risolve, che non trasforma il fantasma in spirito, ma anzi sancisce l’irresolutezza e si dà pace con essa. Un sacrificio necessario, evidentemente, affinché ancora una volta avvenisse l’esorcismo
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