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Già nel suo romanzo d’esordio, Lo Scuru (scelto e pubblicato da Vanni Santoni nel 2014 nella fucina di talenti di Tunué), Orazio Labbate aveva mostrato personalità e audacia. Una Sicilia lugubre, plumbea, mortifera, prendeva forma in una lingua impastata di dialetto e originalissima. Una creazione letteraria che sembrava provenire da un universo parallelo a quello di Camilleri e del suo Montalbanese ormai mainstream. Le metafore vi si arrampicavano, faticose, passo dopo passo, ostinate ed estenuate, come morsi di ferocia alla ricerca del senso. E alla fine erano più importanti, queste apparenze di tenebra, della verità. Ridotte all’apparenza di fantasmi, le immagini avevano più consistenza dei fatti, saturavano di fumi densi gli interstizi, facevano corpo: simulacri in caleidoscopi nerastri di fuliggine. Rami appassiti, ferri dilavati, pure i personaggi erano feticci di divinità dagli appetiti smodati, insaziabili di bile e pronte a scaracchi di miseria. La lettura era un cimento, una sfida che non aveva per premio l’illuminazione abbagliante ma il brivido e il tremore dell’abisso spalancato.

Allora si era parlato di Faulkner e O’Connor, si era tirato in ballo il Southern Gothic, tanto che, di fronte al teschio sbriciolato che campeggia sulla copertina di Stelle ossee (un titolo molto labbatiano), ci si aspetterebbe di avere per le mani un Libro siciliano dei morti. Non è così.
La raccolta, edita da LiberAria, conta diciassette racconti, molti dei quali già apparsi in riviste (Nuovi Argomenti, Nazione indiana, Il primo amore, Vicolo Cannery, Fuori Asse, Achab): Labbate ha abbandonato il siciliano, rinunciando a un notevole potenziale, ma mantiene tuttavia l’atmosfera e la cadenza allucinata dell’esordio. Anche qui, musicale, stridente, sbilanciata, forse meno febbrile che in passato, la sua prosa è un ricamo spiegazzato, la sua misura è la dismisura.

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Vi sono ancora Butera, Gela, Corsico, vi è pure l’America, ma sono continenti di invenzione o di citazione, costruiti piuttosto di suggestioni che di descrizioni: sono luoghi traslati in un immaginario propriamente gotico, paesaggi lunari e cimiteriali, periferie desolate infestate da sinistre presenze (che sono naturali, o naturalmente soprannaturali). La lettura richiede una continua interrogazione del senso, da scovare nelle minuzie e forse, più spesso, da ipotizzare. A volte la dizione è illuminante e piana («Io ho quarant’anni ma so di averne diciotto. So rannicchiarmi. So frantumarmi per incurvarmi nella carne. Nel buio ne avrò sempre diciotto, di anni») come in Buio sotto il letto; a volte è un gioco di piani che si intersecano, tra reale e immaginario, un accumulo di prospettive a cui manca un punto di fuga unico. Perché l’aderenza al reale è meramente pretestuosa, perché il succo della vicenda (e dello stile di Labbate) non è nella scansione dei fatti ma è nell’incessante scorrere delle visioni, nell’incendiarsi degli oggetti e degli esseri umani, nessuno innocente.

Ecco, la colpa è il filo rosso della raccolta: un sentimento incombente, indeterminato e irredimibile a cui non sfuggono uomini e animali. Poiché è una diretta emanazione del divino, questa condizione provoca con la stessa viscerale passione l’invocazione e la bestemmia. In Dentro una bara, il becchino (fratello, figlio e nipote di becchini) Rufus Wright si fa seppellire da vivo, ansioso di vedere nelle proprie pupille, riflesse da uno specchio, se il suo destino ultraterreno sia infernale o paradisiaco. Il suo è un Dio dai contorni sfumati: nella stessa pagina, nella chiusa della sua vicenda terrena (terrea, terrestre) sono evocati (invano, e dunque bestemmiati) un Dio senza ulteriore connotazione, un Dio dispensatore di inferno e paradiso, il Cristo abbandonato tra le braccia di Maria. È alla fine un Dio senza religione; anche i preti, non avendo nulla da amministrare, hanno perso ogni ieraticità, anche per loro il legame che congiunge alla divinità è reciso, sono peccatori, si liberano del collare e dell’abito, abbracciano a loro volta una paurosa disperazione. Alle coscienze turbate non resta che riplasmare come involucri vuoti i riti, le cerimonie, in una personalissima e cupa necrologia della notte.

Resta il tentativo del fuoco come strumento di catarsi (Case incendiate, Il divano), una catarsi inaccessibile. Con l’elisione della redenzione, non resta invece scampo, non si dà più salvezza neanche nei roghi. Bello e funereo è anche l’amore: in Luce accesa, un’angoscia montante precede una quotidiana scena d’amore, ma è come il cammino del condannato a morte verso il patibolo, e non ci sono spiragli d’ironia grottesca. Questo è anche il racconto il cui l’autore prova un’altra voce, più composta, avveduta, ma il risultato è meno travolgente, le metafore insieme più trasparenti e meno efficaci.

Anche il tempo ha subito uno strappo: non è cornice e non è sequenza, è gorgo d’apnea, compresenza di compressione e dilatazione. «Mi viene da piangere. Piango da mesi ormai», dice l’io del racconto Il cimitero e il coniglio. La sospensione dell’incredulità impone di prestare fiducia a queste parole e alla loro precisione cronologica, ma la sensazione, tutt’altro che sotterranea, è che in questo come negli altri protagonisti la maschera di dolore sia una seconda natura, sia increata e perciò ingiustificabile, impossibile da collegare a una causa prima che non sia metafisica. «La disconosco, la morte, per vanità e per vita radiosa» si legge poco avanti, ma di questa vitalità e luce di speranza non si vede traccia, non ce n’è un raggio.

Irradiato da una luce di tragedia e gravato da un’ombra di colpa, il bestiario gotico di Labbate è assai popolato: i corvi, i cani ululanti, i gufi, le lapidi, i sepolcri, i cimiteri, i becchini, i preti, i fantasmi, i morti che ritornano, i presagi, gli incubi. Un’oscura materia, carica di suggestioni, che non è ancora mito. Cosa le manca? Una cosmogonia, una teogonia, un big bang, una storia.

La Madonna verde fa eccezione: più disteso degli altri, si dispiega in più momenti; il protagonista è più di una mente colta nell’atto di riflettere sulla propria misera condizione; accadono eventi reali, per quanto trasfigurati dalla scrittura («Dio era metallifero e Dio era una scala americana»); l’evocazione di Little Italy ha un potente sapore di inedito, con poche stonature. Ultimo episodio del libro, sembra l’indirizzo verso una direzione di crescita: comporre in equilibrio la dirompenza immaginifica della prosa e la struttura della narrazione.

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