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Vi fu un momento liturgico, laico e ancora visibile su Netflix, in cui Grillo, uroboro 2.0, mangiò se stesso; nessuna ciclicità da intestarsi, nessun eterno ritorno. Solo un grido di liberazione. Il suo spettacolo si chiamava Grillo Vs Grillo, fu trasmesso in streaming per la prima volta poco più di due anni fa, e per molti rappresentò la manifestazione plastica di questo fenomeno post-moderno, nevrotico e schiacciasassi, chiamato grillismo: una lenta processione eucaristica. «Voglio che ti alzi» – dice il comico a uno spettatore durante lo show, invitandolo a mangiare una caramella grillina – «Sei pronto a ricevere me? Questa è la trasposizione: tu sei me, e io finalmente sono libero.»

A fine 2016, con il governo Gentiloni ai nastri di partenza, il leader morale del Movimento continuava nella sua operazione di depoliticizzazione, a pieno regime ormai da anni. Il linguaggio si faceva ancora più mordace, nero, caustico, di quanto avesse mai tentato nella sua lunga carriera. Il tentativo era quello di privarsi del discorso politico, ravvivare la figura comica e aggregante, tornare quindi a fare ironia esistenziale su malinconia, depressione, tristezza. Tentativo, va detto, completamente non riuscito.

All’oggi Grillo non cammina più durante la notte nei sobborghi liguri, come faceva a suo dire anni fa, prendendo appunti e parlando con le prostitute, Henry Miller di San Fruttuoso alla ricerca del buio e della noia. Di acqua pubblica ne è passata sotto i ponti. Oggi il comico elogia Salvini, se la prende con i Cesaroni, fa le dirette video su Facebook parlando di finanza predatoria, interviene sulla criptovaluta pro immigrato, propone redditi semi-universali. Dello zeitgeist grillino, ora governativo, possiamo vedere gli ultimi rigurgiti, tra un complottismo che ha abbandonato i suoi urlanti splendori per divenire sussurro – eccezion fatta per i finti atterraggi sulla Luna, ora ministeriali e responsabili – e un reddito di cittadinanza fruibile previo percorso di recupero, quasi di riabilitazione. Si è passati al lato pratico, è l’ora del fare.

Che si faccia, allora, la democrazia diretta, plebiscitaria, iniziando da un paio di punti: in primis l’emersione di una classe politica figlia della Link Campus University, fucina di esperti in intelligence, dove nuovi spiriti centristi e anime conservatrici assortite modellano questo notabilato ben composto e tirato a lucido, pronto a divenir potere e relazioni purché si cammini attraverso i verdeggianti nascondigli dell’università suddetta, sita presso Casale San Pio V, romanissimo edificio papale che offre ai poco meno di tremila studenti, citando dal sito ufficiale, «gradinate, ninfei, fontane e peschiere». S’intenda qui un’architettura post-ideologica, a misura di cittadino.

Un saluto a tutti i bocconiani che ci guardano da casa, verrebbe da dire, a memoria, già sepolta, di passati insulti contro tecnici e professori nostrani. Lì in cima, quindi, la scalata al potere di un ambiente internazionalmente riconosciuto e rispettato, salvo qualche latitante, come quel Joseph Mifsud che ha insegnato per anni alla suddetta Campus University, per poi darsi alla macchia una volta finito nello scandalo Russiagate. Indagato, il nostro, per una cosuccia che se indossassimo le lenti del giustizialismo prêt-à-porter, sarebbe da nulla: fornire materiale compromettente su Hillary Clinton a nientemeno che George Papadopoulos, ex consigliere di Donald Trump.

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E a livello locale, dicevamo, la salita sul carro di tutta la galassia piccolo borghese del Sud Italia, tra avvocati, commercialisti, medici, professori universitari. La gente non è prevista nel nuovo organigramma. Spazio a questa schiera di professionisti pre-politici, forti di onestà e purezza, l’etica al comando, gestrice della cosa pubblica facendo altresì politica. Quest’ultima, lapidata e disprezzata, è la prima vittima del processo a cinque stelle, minacciata di morte, strumentalizzata per il suo stesso annullamento. E non è il sempiterno odio fascista per il conflitto sociale e il compromesso, leggasi parlamentarismo; è proprio la rincorsa al nulla, la pulsione annichilente del burocrate, del fare senza visione, del progetto qualunque.

Più decisa, invece, la posizione grillina rispetto alle sfide internazionali. Qui sembra che la stella polare sia il metodo Casalino, volgarmente detto «la strattonata», il portar via, lo smarcarsi con irruenza; promotore di questo nuovo corso di avvicinamento alle consuetudini diplomatiche il premier non-premier Giuseppe Conte, a secco di foglietti e post-it, uno che va a braccio, questo lo dico, questo non lo dico, guida poco suprema di un governo che in poco meno di un mese non solo ha lasciato al largo una nave carica di migranti in stato di sopravvivenza, ma che ha inoltre invitato il presidente francese a sciacquarsi la bocca, presumendo, stando ai toni, di farlo nel classico bagno senza bidet; in aggiunta, se non bastasse, questo governo si è allineato al Gruppo di Visegrád, strategia antitetica alle intenzioni dichiarate, visto che difficilmente paesi come Ungheria e Bulgaria la pensano allo stesso modo dell’Italia riguardo la ripartizione obbligatoria dei richiedenti asilo.

E la Russia? Perché nessuno pensa alla Russia? Ci si riflette, in effetti, sull’educazione putiniana.

Formalmente contro le sanzioni che colpiscono Mosca, Conte ha parlato questa settimana di società civile russa e delle sue piccole e medie imprese da salvaguardare, dimentico che le sanzioni vanno a colpire in larga parte il comparto aerospaziale, quello dell’esercito e dell’energia, saldamente in mano agli oligarchi.

E l’export italiano? Perché nessuno pensa all’export italiano? Forse perché è un settore in buona salute: Daniele Raineri, esperto di cose russe e mediorientali, in un articolo del Foglio scrive che «tra il gennaio 2017 e il gennaio 2018 c’è stato un aumento di esportazioni italiane verso la Russia del 18,1 per cento e tra il gennaio 2016 e il gennaio 2017 c’era stato un aumento ancora più grande, del 25,5 per cento. Perché si parla di miliardi persi ogni anno? Come fanno notare molti osservatori, le perdite dell’export italiano coincidono con la svalutazione del rublo, che a sua volta coincide con la perdita di valore del greggio, che in questi anni è sceso ed è rimasto sotto quota 50 dollari a barile».

Tuttavia la festa è destinata a continuare, vista la scelta di Conte di rinnovare comunque l’impegno italiano nell’attuazione degli Accordi di Minsk. D’altronde la confusione è tanta, la stabilizzazione centrista dei cinque stelle deve fare i conti con la nuova egemonia culturale di cui si è fatta portatrice negli ultimi anni, insieme alla Lega e parte della sinistra radicale. Di questi giorni l’incontro a Milano – se c’è un libro da presentare, anche se dalle pagine oscurantiste e revansciste, la città buona dove farlo è quella progressista 
–, tra Diego Fusaro e il filosofo Alexander Dugin, il necessario Rasputin del ventunesimo secolo, filosofo specialista di quella dottrina ottocentesca, l’eurasiatismo, rispolverata in grande stile da leghisti, post-fascisti riuniti, stalinisti disorientati. Il nostro Diego, belloccio cyborg marxista dalle scarse nozioni, è il portavoce ufficioso di questa lotta senza quartiere al mondialismo occidentale, contro l’atlantismo filoamericano, tutta tesa al recupero delle vecchie e sane tradizioni nazional-bolsceviche, nel contesto di un nuovo spazio geopolitico da valorizzare: quello che unisce, nelle parole di Putin di otto anni fa, «Lisbona a Vladivostok». Insomma, un grande mercato unico che non impedisca a Giulietto Chiesa di darsi alla coltivazione di castagne sui Monti Cimini e di rivenderle in un mercato rionale di Astana.

La tesi centrale dell’eurasiatismo, in sintesi, combinando elementi spengleriani e shmittiani, allungando il tutto con un filo d’olio evoliano, vede l’Europa come blocco continentale distaccato dallo zio a stelle e strisce, padrona del suo destino e totalmente autonoma sul piano territoriale, così da rivolgersi, sempre in piena autonomia, al cugino russo e alla sua gang centroasiatica.

Il grande gioco, per dirla alla Peter Hopkirk. Peccato però questa rivisitazione in chiave reazionaria e illiberale, questa utopia antidemocratica e restaurazionista che toglie un po’ di sapore a tal banchetto geopolitico. La letteratura del declino occidentale prende nuovo vigore tramite le parole del Dugin, che in un’intervista sul sito Linkiesta afferma: «L’ideologia liberale dominante si fonda sull’assimilazione dell’uomo con il cittadino. È, in altre parole, l’effetto dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Secondo questa visione, ogni essere umano gode di particolari diritti universali. Questa posizione ideologica ha come conseguenza che gli Stati siano obbligati a trattare tutti, anche gli stranieri e gli immigrati, come se fossero loro cittadini. Ma questa è solo l’applicazione pratica di un’ideologia più ampia, che invece vuole distruggere e assimilare le tradizioni, le culture e le storie dei popoli». Parole dolci e concilianti, da rossobruno all’arrembaggio, che porterebbero un progressista a imitare le gesta di Erofeev, salire su un treno russo e buttare giù un poema ferroviario in preda all’alcol, tanto di tempo ce n’è, questa volta la fermata a Petuškì non è prevista, si arriva quasi fino a Pechino.

Per il wi-fi a bordo rivolgersi alla Chiesa ortodossa, in ottimi rapporti con Putin e speranza eurasiatica per eccellenza, quella di un revival religioso in grande stile, di ritorno ai papi e ai patriarchi, e di legnate agli scolari indisciplinati, aconfessionali brutti e decadenti. Una connessione veloce permetterebbe infine di rivedere Grillo Vs Grillo, magari verso il finale, quando il comico annuncia la sua futura trascendenza, epilogo di uno show-man che ora si eleva ad altro stato, e che poi, poco dopo, in un gesto di turbo-narcisismo patologico e spinto dal pubblico adepto, si manda a fare in culo.

A noi resta un movimento orgogliosamente liquido e disorientato, privo di cultura politica, nonché convinto che la pecora sia degna sostituta di un tosaerba o che Neil Armstrong nel luglio ’69 stesse facendo zapping sul divano. A noi, resta, infine, un partito di governo costretto a rincorrere la destra nazionalista su qualsiasi tema, offrendosi un giorno come rassicurante contraltare, l’indomani come identica forza fracassona e finto rivoluzionaria.

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