Skip to main content

«Lingua nera» è una scatola di latta, di quelle rotonde e blu dove credi troverai i biscotti e invece le apri e trovi rocchetti di filo e bottoni. Nastri colorati e aghi che bucano i polpastrelli: ecco cosa sono i diciassette racconti che compongono la raccolta d’esordio della giovane americana Rita Bullwinkel, uscita in Italia a maggio per Black Coffee nella traduzione di Leonardo Taiuti.

Sono racconti tra loro diversissimi; in lunghezza, innanzitutto, con quelli lunghi che superano le venti pagine e i racconti lampo da due paginette: poco più che istantanee, verrebbe da dire, non fai in tempo a entrare nella storia che sono già finiti, ma poi sono loro a entrarti dentro e chi se li scorda, maledetti aghi appuntiti. La varietà è anche nella voce: è raro per una stessa penna scivolare con naturalezza in personaggi così diversi, uomo e donna, donna adulta e bambina, esseri umani e non, ma Rita Bullwinkel ci riesce. Le riescono la terza persona e la prima – l’io ma anche il noi fatto di due io di «Phylum», la storia d’amore più convenzionale mai raccontata nel modo meno convenzionale, ovvero con un alternarsi di prime persone che si parlano senza dialogare. E poi nessuna persona: ci sono racconti che suonano come dati di fatto, in cui la voce narrante non sta con nessun personaggio. Non sta di certo con gli adolescenti di «Impasto fritto», immortalati nell’eternità fugace del negozio di ciambelle; né con Karl, il serpente che faceva la pera e a cui piaceva esserlo, «proprio come a certi umani piace non solo fare il proprio lavoro, ma essere il proprio lavoro». C’è un distacco quasi scientifico, in questi casi, e al contempo affettuoso, come di chi è giudice ma anche creatore. Bullwinkel va oltre il tradizionale compito, già delicatissimo, dello scrittore, che è quello di raccontare. Non racconta, quindi, ma crea: situazioni e immagini assurde venutele da chissà dove; ce le proietta in faccia con incipit lapidari («Le persone continuavano a morire e mi veniva chiesto di dormire nei loro letti», è la frase che apre «Bruciato») e poi le spiega, le dispiega, le ricama con i rocchetti di filo delle parole, la sua lingua insolita ma mai artefatta. Come la lingua del racconto scelto come titolo italiano della raccolta, una lingua che sanguina per gli incontri di boxe e che si annerisce per essere stata messa, senza alcun motivo apparente, nella presa elettrica, ma che sempre si rigenera. «Quant’è facile rovinare le cose, ricordo di aver pensato. Ricordo di aver pensato, Perché l’ho fatto pur sapendo che sarebbe finita male?»

Un racconto dopo l’altro – si leggono anche a saltare – vediamo cose assurde che prima non c’erano e che ora si mischiano a tutto il resto, col risultato che tutto il resto alla fine ci pare assurdo, incluso il nostro corpo. Come molti hanno notato, il denominatore comune di questi racconti strani e diversi è proprio il corpo. Quello che, sempre secondo la protagonista di «Lingua nera» puoi rovinare fino a un certo punto; quello che, secondo le ragazzine di «Le braccia sopra la testa» è ben visibile e non richiede domande, anche se loro di domande sui corpi, sul come e perché del loro fondersi e sdoppiarsi, se ne fanno tantissime. Quel corpo che, secondo la medium di «Clamore», il racconto che chiude quasi programmaticamente la raccolta, è utile solo temporaneamente, qualcosa di cui ci si può sbarazzare dopo l’uso e magari lo si potesse far prima, «proprio come ci si pente di aver comprato un vestito che non ci rende giustizia». Sembra essere questa la conclusione, che il corpo è qualcosa che abbiamo e non avremo più, un contenitore, uno strumento per raggiungere determinati obiettivi: lo dichiara l’autrice stessa in alcune interviste, riferendosi al suo passato da pallanuotista, che ora sente lontanissimo. Perché è irrazionale praticare uno sport così brutale, farsi male. E farsi belli, non lo è forse altrettanto?

«C’è stato un periodo in cui per vivere mi fingevo un oggetto d’arredamento», dice la protagonista di «Arredamento», uno dei racconti più crudi. Ma fingersi qualcosa è anche un po’ diventarlo, come il serpente che si finge pera, o il ragazzo-sorreggiseno che passa la vita con le mani a coppa fino a renderle fuori uso; ed è vero anche il contrario: la donna traumatizzata di «Arpa», spaccata e forse decisa a cambiar vita, immagina infatti per sé un corpo diverso. Si sbaglia, la medium, il corpo non puoi riportarlo indietro al negozio, ci sbagliamo tutti quando lo pensiamo come qualcosa di accessorio e assurdo: ed è questo che fa «Lingua nera», ridefinisce l’assurdo. Come una parola ripetuta troppe volte perde di significato, così a furia di evocarlo il corpo finisce per essere, più che qualcosa che abbiamo, tutto ciò che siamo. Come sono banali i corpi, eppure complessi; e un po’ schifosi: è strano, leggendo, fermarsi a pensare alla propria carne, al sangue nelle vene, a quant’è grottesco mangiare. L’atto del mangiare torna ossessivamente in quasi tutti i racconti, tra pietanze squisite che seducono vedove, ciambelle fritte, uomini che si mangerebbero una donna più che andarci a letto, navate di chiese che gorgogliano come stomaci, paura e voglia di essere mangiati, e non è casuale quest’ossessione. Come il corpo, anche il mangiare appare prima accessorio, poi assurdo, infine essenziale – e non solo a tenere in vita questa macchina che abbiamo o siamo, ma a definirci. Non sono affamati i bambini quando mettono in bocca gli oggetti: lo fanno per conoscerli, conoscersi, delineare un confine tra ciò che sono e ciò che non sono. Per affermarsi nel mondo, quindi, in quanto corpi. A un certo punto c’è un racconto di una normalità disarmante: «Che cosa sarei se non fossi ciò che sono» è la storia di una donna che perde il marito e inizia a interrogarsi su cos’erano lei e il marito insieme, cos’era lei da sola prima di lui, cosa le è rimasto. «Volevo avere una parte di lui che non avesse nessun altro», dice, e anche: «Preferivo pensare a noi come a due corpi». I personaggi mangiano per entrare in contatto, protendersi verso qualcosa o qualcuno e farlo proprio, e si fanno mangiare, si deformano, per sentirsi più piccoli, meno ridicoli, meno soli.

19 Comments

Leave a Reply