«La mediocrità non aiuta spesso la grandezza […] Ma nel rock, uno dei cui principî fondanti è che gli errori gloriosi possono sfociare in nuovi stili sorprendenti, tutto può succedere.» Così Lester Bangs stroncò i Black Sabbath al loro esordio nel 1970. Il critico gonzo di Rolling Stone parlava di rock perché la locuzione heavy metal non era ancora in uso, e alludeva a un errore nell’album perché era composto da quelle per lui erano “legnose litanie simili ai Cream, ma peggio!”. Alla faccia della critica, l’opera prima dei Sabs è diventata una pietra miliare del metal: 43 minuti di oscurità che ancora non sbiadiscono e anzi, continuano ad annerire tutto ciò che sfiorano, come le pagine di Metal Theory a cura di Claudio Kulesko e Gioele Cima (D Editore, 2023).
Ed ecco il primo ostacolo: le classificazioni. “Ilà, te stai a infilà in un ginepraio” mi ha detto un amico quando ha saputo che avrei scritto di questo libro, preoccupato come se gli avessi detto che avevo scelto il saggio del Generale Vannacci. Mi sono ritrovata a giustificarmi per questa velleità con l’«esegesi del vero metallo» promessa nel sottotitolo al testo, ossia l’interpretazione critica del fenomeno metal nella sua forma più pura. Esiste una discussione su cosa ci sia di davvero heavy nell’heavy metal, ma l’accento nel libro di Kulesko e Cima viene apposto sul sostantivo metal. Tutti i metalli sono pesanti, ma alcuni sono più pesanti degli altri: in un Paese come il nostro dove il metal è soprattutto d’importazione e quello nazionale o emigra o prolifera in una nicchia, un’opera simile, made in Italy, mi incuriosiva. Non è che il “vero metallo” ce l’abbiamo sotto ai piedi e non ce ne siamo accorti?
A occhio e croce avrei detto di no, perché recenti studi sulle determinanti della diffusione di band metal nel mondo mostrano che sono più numerose in nazioni ricche e politicamente libere, localizzate in latitudini nordiche, con una tradizione legale di diritto scandinava, e che hanno una maggiore percentuale di popolazione sotto i 25 anni e/o non affiliata ad una religione. Non è proprio proprio la descrizione dell’Italia no?
L’oggetto Metal Theory, inoltre, mi sembrava dare una risposta in termini di genere e non di nazione. Si presenta come un libro-feticcio: lettere d’acciaio su sfondo blu, spigoli gotici a caratterizzare la font, una spolverata di croci rovesciate, pentacoli e frecce di Moorcock. Ostenta solennità, ammicca al caos: è evidente che di tutto il metal prodotto dal 1970 a oggi – categorizzato in modi diversi, di recente anche grazie all’ausilio dell’AI – si riferisca soprattutto al cosiddetto black metal. È questo il “vero metallo”?
Nì. L’antologia, scritta a più di venti mani, è infatti un agglomerato eterogeneo nella forma e nei contenuti che ha l’intento di estendere la Black Metal Theory (BMT) agli altri sotto-generi del metal. Scopro, da alcune pagine web scritte in un malefico testo bianco su sfondo nero che mi costerà delle diottrie, che la BMT è una corrente di pensiero critico nata online intorno agli anni Dieci. Il suo motto è: Not black metal. Not theory. Not not black metal. Not not theory. Black metal theory. Theoretical blackening of metal. Metallic blackening of theory. Mutual blackening. Nigredo in the intoxological crucible of symposia.
A leggerla così sembra un po’ il passaggio in cui lo scrittore vincitore del Man Booker Prize e del National Book Award, Paul Beatty, in con Lo schiavista, mette insieme cose disparatissime tra loro soltanto in quanto nere, e quindi in questa lista ci finiscono anche il Godard in bianco e nero, Céline, Mizoguchi, spalla a spalla con i Wu Tang Clan e Charlie Parker. Insomma, come dice lui, «il Nero assoluto è fottersene alla grande». Un po’ un minestrone, e d’altra parte così è la vita, come cantavano i 10cc.
E però. Dopo aver letto quelle righe sul web ho smesso di respirare per due minuti, proprio come Nikki Sixx in quella notte del dicembre 1987 e poi, grazie a un’altra pagina web iper-adrenalinica ho capito che la BMT “esplora tematiche filosofiche, estetiche e culturali per mezzo del black metal“. L’intento di Kulesko e Cima è quindi in linea con la BMT perché vuole “tracciare sentieri […] condensando nel gelido involucro del concetto una marea viva e ardente”. Ambizioso e astruso come un piatto di gastronomia molecolare, questo proposito giustifica il taglio filosofico dell’introduzione. Come scrive anche Metal Italia, questo approccio non è una novità nella saggistica musicale, ma il modo in cui gli autori partono dalla distinzione tra musica leggera e musica pesante di Adorno e arrivano ad abbracciare la prospettiva di Masciandaro, secondo il quale pensare il metal equivale andare alla deriva. Si tratta comunque una lettura affascinante perché il metal viene presentato come “uno degli ultimi, veri baluardi del postmodernismo filosofico”. Ok, passi il postmodernismo filosofico, ma se scrivere di metal significa radicalismo concettuale, un punto di vista estremo poteva essere funzionale a scoprire l’autenticità dell’universo metal – al di là del ginepraio che mi si prospettava.
I primi contributi all’antologia danno invece l’impressione di convergere verso un centro. Bisogna profanare questa pietra sepolcrale per accedere al cuore pulsante del libro – pardon, volevo dire alle viscere in putrefazione del suo cadavere sbudellato. Leggo frasi dal peso specifico dell’osmio, es. “la caratteristica iper-adattività geosonica del metal ha dischiuso le porte di una costante, inarrestabile proliferazione”. Oltre all’enciclopedia mi munisco di un dizionario di italiano, ma è tutto inutile, mi accorgo che “geosonico” non sta sulla Treccani… il testo in terza persona diventa in prima, la speculazione diventa narrazione e il ragionamento è sopraffatto dall’onirico (“la doppia cassa mi parla, è la mia musa: duetta con il basso, deflagrando in un amoroso vortice percussivo”). È questa, mi domando, la composizione del “vero metallo”?
Nì, perché questa è soltanto la forma nella quale Kulesko e Cima plasmano l’oggetto di studio, interpretando il metal in una theory fiction tra saggio e narrativa. Slanci immaginifici e bagliori di soggettività brillano – nel senso che esplodono – su strutture teoriche e discorsi presuntamente accademici mentre l’incedere selvaggio della batteria, il canto del vento, l’urlo del cielo e altri suoni umanizzati concorrono all’arrangiamento di un’incalzante sonic-fiction. Ci sono capitoli che parlano di singoli sotto-generi, band, artisti; ci sono narrazioni in prima persona degli autori, testimonianze, estratti. Il punto di vista cambia, il registro anche, la disarmonia è servita su un piatto d’argento. Le articolazioni del metal – black, doom, death, thrash, alternative, nu e le altre – sono fratture duttili della stessa materia, lottizzazioni immaginifiche di uno spazio liminale dai confini rigidamente definiti dai fan. Quartieri ghetto o fortini, stanzette o bolle, nicchie o scenicchie che ben si prestano a discorsi sociologici e antropologici e che qui appaiono in controluce, filtrate dall’identità del narratore di turno.
La sensazione che ne ho tratto è che si scava ma non si trafuga. Al contrario, temi quali la politicizzazione, il maschilismo, l’alienazione, l’escapismo, l’agonia esistenziale, vengono sotterrati a caso nel grande campo (minato?) del metal, che non è santo bensì sacralizzato. Mi permetto di scrivere “a caso” perché gli autori usano queste parole, rivolgendosi addirittura al lettore per segnalare eventuali parti mancanti, invitandolo a entrare.
Ma Metal Theory non è un libro per tutti e non tutti vorrebbero averci a che fare. Realizzo che, nonostante le aspettative che mi ha suscitato il titolo, non mi offre un’esposizione sistematica basata su principî generali comunque postulati o dedotti (definizione Treccani di “teoria”), ma riproduce l’immaginario di un certo tipo di metallaro. Peccato che sono già a tre quarti della lettura, tra le leggende del castello/studio di registrazione di Clearwell, le suggestioni voodoo à la Jimi Hendrix e una lista di brani classici che usano il tritono. Anche detto Diabolus in Musica, il tritono è un intervallo musicale che distanzia una nota dall’altra di tre toni e produce una dissonanza considerata associata al maligno: per questo motivo è stato abbandonato secoli fa, fino alla sua malefica ricomparsa nelle canzoni dei Black Sabbath. Mi crogiolo così, tra brani di Wagner e di Michael Jackson, a fissare dubbiosa la quarta di copertina. Sono loro il “vero metallo”?
No, no e poi no Ilà!
E allora quale?
Alla fine della lettura lo scopro; o meglio, scopro di non poterlo scoprire perché l’heavy metal non è solo un genere musicale, ma un modo di guardare alla vita: “pensare diventa, dunque, pensare con l’heavy metal“. Per conoscere il “vero metallo” devi essere un metallaro autentico, altrimenti una conoscenza completa ti sarà negata; allo stesso tempo, una teorizzazione scissa dalla pratica metal è impossibile per un fan.
Vagando per le vie di Torino pochi giorni fa sono capitata per caso davanti alla vetrina di un negozio di dischi specializzato in black metal. Giuro, non era nei miei piani, ma la coincidenza era talmente spiazzante che sono entrata. “Tu ascolti black metal?” mi ha chiesto il gestore. “A volte è capitato” ho risposto, ammettendo che mi stavo approcciando al fenomeno dopo aver letto un libro. Mannaggia a me e quando parlo, l’ho indispettito con la scelta dei miei vocaboli. “Non è un fenomeno, è uno stile di vita.” Quella risposta era sia un respingimento che una conferma di quanto avevo letto. Dunque, mi pareva il caso di chiarirmi le idee: a cosa pensiamo quando pensiamo con l’heavy metal? Sfogliando l’antologia, rigorosamente al contrario, ho cercato qualche indicazione.
Pensare con il metal significa prima di tutto pensare con la decadenza, uno stato di non-vita e di non-morte, un processo lento che si contrappone all’annichilimento immediato. Secondo alcuni studiosi la decadenza nel pensiero metal risiede nella distorsione dei suoni, la qualità lo-fi della musica, l’applicazione del Do-It-Yourself (per esempio nel progetto di autoregistrazione Inner Circle dei Mayhem); la decadenza è nei testi, che esplorano l’immaginario fantasy e prediligono il decadimento rurale a quello urbano; è declinata infine nel tentativo di sconvolgere l’ascoltatore provocando o rievocando un trauma. Se la resilienza è una proprietà tipica dei metalli, il metal ha la caratteristica di non recuperare l’equilibrio iniziale, anzi, enfatizza le fratture e la loro persistenza.
Pensare con il metal significa quindi pensare con pessimismo e disincanto: la società capitalista decade a causa della mercificazione del desiderio e della retorica del godimento. Il mai-na-gioia tuttavia non sfocia nello stacce: c’è una possibilità di evasione, ed è nel pensiero rizomatico di Deleuze e Guattari che propone di seguire “linee di fuga” verso nuove vie, possibilmente al di fuori dell’apparato di controllo capitalista. Il suggerimento è di alienarsi dalla realtà e intraprendere percorsi estremi, senza luce. In questo discorso si inserisce un ulteriore elemento sonoro, il drone, che affonda le sue radici nel Big Bang e ancora oggi continua a ripetersi. La musica drone – caratterizzata da toni bassi, note singole tenute per lunghissimi intervalli – viene suonata ad altissimo volume, a qualche decibel sotto la soglia del dolore. La quasi totalità del pubblico a un concerto drone infila i tappi nelle orecchie perché l’acustica ha importanza in relazione alla generazione di percezioni fisiche. Le vibrazioni ti fanno sentire la musica addosso, sulla pelle. Assistere a una performance drone per me somiglia a un atto di resa e non di resistenza: niente pogo, niente headbanging. Ognuno è nel suo moshpit interiore, lo spazio psichedelico in cui sperimentare la catarsi e da dove, probabilmente, intraprendere salvifiche vie di fuga deleuziane – o perdersi in un fallace dentro-di-te guzzantiano…
Tuttavia, nella realtà il tentativo escapista sembra essersi chiuso in un normativismo fatto di “white, straight, male metalhead“. Per decenni il maschio alfa dominante, anaffettivo ed eterosessuale, è stato protagonista di questa musica; si veda per esempio la lunga tradizione di maschilismo, per esempio i riferimenti (discutibili) ad Alessandro Magno nella musica metal greca quale simbolo di mascolinità, unità, eroismo, nazionalismo. Metal Theory propone un bel capitolo sul maschio beta nelle canzoni dei Korn, raccontato a partire dagli atti di bullismo subiti in giovane età da Jonathan Davis. Tra alfa e beta, però, qual è “vero metallo”?
Da un punto di vista sociale, inoltre, il metal si alimenta della tensione generata dalle strutture di potere, suona la violenza espressa o repressa che esse generano. Pensare con il metal ha a lungo significato pensare politicamente “di destra“, soprattutto in termini nazionalisti e autoritari. Tuttavia, in Brasile il metal è emerso come un genere post-dittatoriale, grazie a gruppi quali i Sepultura; i “Black Sabbath asiatici” sono i taiwanesi Chtonic, che con la loro musica denunciano l’oppressione del governo cinese sull’isola; gli israeliani Orphaned Land e i palestinesi Khalis hanno fatto addirittura un tour insieme per promuovere la coesistenza pacifica in Medio Oriente. E allora, ditemi, qual è il “vero metallo”?
Arrivati a questo punto, la mia unica certezza rimane che il metal è anticapitalista. Emblematica è per me la storia di Tony Iommi, che ha perso mezzo dito medio e mezzo anulare a causa di un incidente sul lavoro in una fabbrica di metallo e invece di smettere di suonare ha modificato la sua chitarra, si è fuso una protesi di plastica alla mano e ha ispirato un nuovo genere musicale. Ha perso due falangi e ha alzato un enorme dito medio contro il capitalismo che gliele aveva mozzate. I Black Sabbath e tutto il metal gli sono andati dietro, hanno urlato un “NO” al mondo capitalista ancora prima che lo facesse il punk. Tuttavia, è grazie ai media commerciali, soprattutto a MTV negli anni ’80, se il metallo pesante ha conosciuto una diffusione planetaria. Lo stesso meccanismo ha depotenziato alcune frange del metal, come il glam, facendo leva sui loro eccessi – emblematico è il documentario “The Decline of Western Civilization Part II: The Metal Years”, diretto da Penelope Spheeris – e ha deviato la pesantezza del suono, per esempio domandando più power ballads. Inserite come secondi singoli negli album dopo il pezzo forte, questo tipo di canzoni intense ed empatiche facevano vendere di più, ma spesso erano odiate e rinnegate dagli stessi artisti. Dunque, il “vero metallo”, sopravvissuto nel tempo, è ancora post-capitalista?
L’antologia non mi dà risposte a queste domande quindi no, le mie aspettative non sono state attese; però ho scoperto altro. Metal Theory è un testo ibrido, apprezzabile per la forma sperimentale, la capacità di ricreare un caos coerente con il genere di cui tratta, la varietà di informazioni che il lettore ne trae, l’esplorazione immaginifica della bolla mentale di un fan tra musica, libri, videogiochi, film, ossessioni. Mi domando quanto questo fan sia rappresentativo dell’universo che indaga. Si arriva al metal da diverse parti: la storia è passata per l’hard rock, c’è chi ci arriva tramite la musica elettronica, o l’hardcore. È la musica che ascoltava tuo fratello o che passava su MTV. Essere fan – anche ipotizzando che i fan siano tutti uguali – è un’esperienza utile non tanto per teorizzare cos’è vero metal e cosa no quanto per capire cosa si può imparare “dal metal“. A mezzo secolo dall’uscita di Sabbath Bloody Sabbath credo si sappia molto “del metal”, così tanto che un’unica teoria pare impossibile. Ma se accetto di entrare, il bagaglio di verità alle quali accedo come agiscono su di me? E perché?
Non concordo con gli autori quando sostengono che “una conoscenza e una interpretazione del black metal sottintendono un tipo di conoscenza iniziatica che difficilmente può sposarsi con un habitus accademico” (una citazione di Bourdieu) perché la passione può convivere con la ricerca, ma un certo distacco emotivo rende credibili le analisi. Questo vale per un giornalista gonzo quanto per uno scienziato: la passione si dimostra nell’impegno che si profonde nel proprio lavoro, non nell’ostentazione di un credo che al fruitore della ricerca nemmeno interessa. Mi viene in mente un’antologia che ho letto sulla cultura punk che parte con le medesime intenzioni di speculare i legami tra il genere musicale e l’etica, l’ecologia, il femminismo e la spiritualità, ma mantiene il punto di vista del narratore/saggista. Che la curatrice sia un’appassionata o meno del genere non si dice, e da lettore non voglio sapere se “lei pensa” con il punk, ma “come si pensa” con il punk.
È possibile sapere senza necessariamente dover essere? Questa domanda, che va ben oltre al legame fra conoscenza ed esperienza, è il moshpit in cui pogano il “cogito ergo sum” contro il “sum ergo cogito”. Questa domanda apre un dibattito molto più ampio di quello sul metal, e secondo me rappresenta il valore aggiunto della lettura di Metal Theory – e il vero ginepraio che essa nasconde.
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