Chi conosce le migliori spiagge salentine, quelle più appartate, quelle ancora oggi incontaminate dall’orgia del turismo di massa, non può avere dubbi: Torre Languorina, il luogo attorno a cui ruotano le amare vicende di Uomini e cani, primo romanzo di Omar Di Monopoli di recente ripubblicazione Adelphi, altri non è che Torre Colimena, frazione di Manduria, Taranto. Una lunga distesa di sabbia e scogli selvaggi, protetta da una striscia di dune che la separa da una salina argentata, una riserva protetta dove un odore pungente di zolfo sovrasta quello del mare e dove, in primavera, ancora si affaccia qualche sparuto fenicottero, rosa come certi tramonti strazianti a cui capita ancora di assistere qui.
Quando Omar Di Monopoli mi ha dato appuntamento proprio lì, “al bar del paesello di Torre Columena” (l’antico nome del luogo), lo ammetto, ho provato un brivido. È per queste strade isolate e polverose che l’eremita Pietro Lu Sorgi, “una specie di demone irsuto e collerico”, si aggira sanguigno insieme ai suoi due pitbull tenuti alla fame e allo stato brado, ed è qui che sconquasserà ulteriormente le vite dei suoi concittadini, abitanti già stremati di una terra agra e dimenticata da tutti, forse persino da Dio.
E poi c’è da fidarsi di Omar Di Monopoli? Lo conosco solo per i suoi romanzi e appunto per questi non c’è da stare tranquilli. È l’autore di un violentissimo ciclo noir ambientato nella sua personale Yoknapatawpha: una “Puglia immaginaria” (mica poi tanto) che va dal Salento più marginale e cupo, quello tarantino di Uomini e cani e brindisino de La legge di Fonzi, al profondo entroterra leccese de Nella perfida terra di Dio, fino al misterioso, occulto, Gargano del caporalato, raccontato in Ferro e fuoco. A fare da compendio di questo personalissimo immaginario sono, in parte, i racconti di Aspettati l’inferno e soprattutto sarà il suo prossimo romanzo che uscirà presumibilmente dopo Natale, e “in qualche maniera puntella questo universo”. Di Monopoli è un autore per cui si sono sprecate le definizioni – southern gotic italiano, western pugliese, verismo immaginifico, neorealismo splatter – proprio perché ha realizzato un’epica propria, feroce, senza precedenti almeno da queste parti. Suggestione nella suggestione è poi dover attraversare necessariamente Avetrana per raggiungere lo scrittore sul luogo prestabilito. “Ho scritto Uomini e cani tre anni prima dei fatti di Avetrana”, dirà più tardi, “avevo subodorato qualcosa”.
“Questo è un luogo fantastico” mi dice appena scendo dall’auto, mostrandomi il set in cui ha deciso di farsi intervistare. Sì perché sembra proprio di stare dentro un film di Sergio Corbucci, la cappa nuvolosa del cielo, le casette basse di legno, le strade deserte, una brutta statua di Gesù Cristo isolata sulla riva del mare e un piccolo bar in penombra con una vecchia porta cigolante come quelle dei saloon. Seduti vicino a noi solo due uomini, a parlottare animatamente, con facce dure e segnate e occhi che Di Monopoli definirebbe “due schegge di vetro”. “Forse dobbiamo spostarci” propone lui dopo avermi offerto un caffè bruciacchiato, “i due redneck qui accanto non la smetteranno presto con questo gnau gnau”. Ci spostiamo, deglutisco e mi viene facile scegliere la prima domanda da porgli, tra le tante che mi ero preparato.
È vero che Sergio Leone veniva da queste parti a selezionare le facce delle comparse per i suoi film?
Sì, è vero. È vero al punto che ne Il buono, il brutto e il cattivo, in una delle scene in cui libera Tuco, il Biondo spara al cappello di uno sceriffo che è esattamente di Manduria, il mio paese. Abbiamo questi tratti un po’ peones che evidentemente si sposavano bene con quella poetica, quella degli spaghetti western.
Nelle tue storie il paesaggio è onnipresente. Certe volte pare addirittura che sia il protagonista del racconto, intervenendo in alcuni momenti chiave, altre volte invece appare come uno sfondo immutabile e indifferente alle vicende umane. Quanto il luogo in cui vivi, questo luogo, condiziona le storie che racconti?
Direi tantissimo. C’è una serie di istanze di cui tener conto. La prima è la volontà di fare una letteratura in chiave epica, attenendomi a una scuola che un po’ più americana, quella di utilizzare la natura come contraltare degli accadimenti umani, quindi la natura è una sorta di coro che sta lì sullo sfondo e serve anche a minimizzare l’orrore delle storie che racconto. È come se fossimo formicole all’interno di un organismo ben più grande che non a caso risulta indifferente. Descrivo questa natura sempre in chiave fulgida, meravigliosa, nonostante i miei personaggi finiscano spesso per abusarne, quasi a dire che c’è una bellezza che sopravvive le nequizie di cui si sporcano gli umani protagonisti delle mie storie. Poi sicuramente il fatto che io abbia deliberatamente scelto di vivere la marginalità, la provincia, mi rende familiare questo continuo confrontarmi con gli spazi, con atteggiamenti di inciviltà verso la natura che costellano questa parte di meridione nello specifico, ma che credo sia una connotazione umana e che forse ci dovrebbe indurre a una qualche forma di riflessione. Ma, ribadisco, il fatto di non vivere in spazi metropolitani è un elemento centrale. La natura, la campagna, il ritmo delle messi, il colore del sole che nella Puglia ha una sua specificità, sono sicuramente componenti essenziali, proprie, di tutta l’intelaiatura della mia produzione.
Racconti una Puglia violenta e selvaggia, preda della povertà, della corruzione, della malavita organizzata, lontana dall’attuale immaginario comune che la vede patria del turismo, del buon cibo, dei grandi festival musicali. Sono scenari e vicende che siamo abituati a collocare nello scorso secolo, negli anni Ottanta o prima. Quanta Puglia è invece ancora oggi come la racconti?
Tanta. Vivo in una parte della Puglia che è un po’ più in là rispetto a quella gettonatissima del turismo e del successo gastronomico e anche culturale e cinematografico, una zona non ancora particolarmente sondata dai media, e in questa zona di Puglia ancora si respira forte quella commissione di arretratezza e anche di superstizione, di ignoranza, che al tempo stesso è però una forza di questa zona di sud, perché la rende invitta, la rende indomita. Poi mi duole precisare che, per esempio, il paese in cui vivo, Manduria, è commissariato per mafia, e non si può non registrare il fatto che lacerti di Sacra Corona Unita, una mafia sconfitta sulla carta, razzolano ancora per queste lande e sono anche per certi versi più pericolosi di quando questa società cercava di organizzarsi, poiché sono clan veramente piccoli che agiscono considerando i paesi, a volte i quartieri, come dei veri e propri feudi. Poi, per carità, siamo nel 2019 e le cose si contaminano, ora a fianco alle maciare (le fattucchiere, n.d.r.) ci sta il wi-fi, c’è l’innovazione tecnologica. Però quella Puglia atavica qui non è scomparsa, assolutamente.
Quindi nei tuoi libri ti ispiri anche a fatti di cronaca?
Sì, di continuo. Nello specifico se andiamo in Nella perfida terra di Dio c’è la guerra tra i clan dei Modeo che ha insanguinato parte del tarantino negli anni ’90 ed è assolutamente veritiera, così come il personaggio del Messicano, oppure episodi riguardanti l’abusivismo; di fatto stiamo parlando nel luogo che ha ispirato Torre Languorina, che è il teatro di Uomini e cani, di quella sorta di romanzo che ha dato la stura poi a una serie di storie dello stesso ciclo. Quindi sì, sono solito ispirarmi a episodi reali e anche a personaggi reali. Naturalmente però, facendo lo scrittore di genere, utilizzo la cronaca a mio piacimento, manipolo di continuo, manipolo i nomi, manipolo i caratteri per farne delle storie che possano essere fruibili nella maniera che mi è più consona. Altrimenti farei giornalismo, farei sociologismo. Io resto uno scrittore di fiction.
A proposito di Uomini e cani: qui il titolo sembra un riassunto essenziale di ciò che avviene nel romanzo, cioè quasi ad affermare che in questa terra ci sono uomini e ci sono cani e nient’altro.
Sì, mi piace molto questa chiave di lettura perché è esattamente quello che volevo sembrasse. A un certo punto pare quasi che non sia facile identificare chi siano i cani e chi siano gli uomini. Quello era il primo romanzo di un ciclo. Il nuovo romanzo che ho appena terminato, e che uscirà presumibilmente dopo Natale, in qualche maniera puntella questo universo. Qui ritornano alcuni luoghi geografici e anche alcuni personaggi di Uomini e cani, anni dopo le vicende di quel romanzo.
Puoi dirci di più sul tuo nuovo libro?
È una sorta di ponte, o meglio è l’ennesimo tassello di questo universo, questa volta anche con dei personaggi che ritornano, dei paesini che ritornano. È una storia che scolpisce e chiarisce meglio le dinamiche di questa mia Puglia immaginaria.
Anche nei racconti di Aspettati l’inferno tornano alcuni luoghi e alcuni personaggi dei romanzi.
È vero, quello è stato il primo tentativo di riunire questo universo. Adesso nel nuovo romanzo è un tentativo proprio spudorato perché ci sono riferimenti a quasi tutti gli altri romanzi, persino a La legge di Fonzi che presto dovremmo ripubblicare. Ma dicevamo di “uomini e cani” come dicotomia: non c’è dubbio che i personaggi hanno un che di ferino, di bellicoso, di animale, mi piaceva che a un certo punto venisse fuori che, esattamente come i cani di loro possesso, questi personaggi finissero per reagire come fanno i cani quando sono in un angolo, cioè azzannano chiunque, anche chi cerca di dargli da mangiare. È una sorta di riflessione su quanto, quando non si hanno gli strumenti necessari a decodificare la realtà nella giusta maniera, si finisca per farsi del male e per far del male. I miei sono personaggi che finiscono per farsi del male di continuo, le mie sono fondamentalmente tragedie di sconfitti.
I tuoi personaggi sono tutti perduti?
Per loro non c’è salvezza. La salvezza la trova chi legge, paradossalmente. È una cosa che vado ripetendo da anni, perché sono sulla piazza da anni, ma devo dire che soprattutto durante le presentazioni in Puglia, o meglio nel Sud, mi capita di vedere reazioni che sono sempre contrastanti. C’è chi s’inalbera, chi non si riconosce, chi invece viene ad abbracciarmi perché ho rappresentato perfettamente la sua realtà. E in questa vivacità di reazioni io ci trovo sempre una grande voglia di vivere che mi rincuora. Poi devo essere sincero, va anche detto che c’entra molto la sensibilità di chi legge. Chi ad esempio, in alcuni accadimenti che io lascio in sospeso, vi trova un barlume di speranza è perché probabilmente in sé coltiva una certa visione della vita. È importante questo rapporto di complicità non passiva tra lettore e scrittore. Io non fornisco semplicemente delle storie, io ti impongo di prendere anche una posizione. Tu non leggi semplicemente una storia d’intrattenimento – lo è anche, sia chiaro – però l’idea è che tu debba formulare un giudizio su quello che accade.
Allo stesso tempo nei tuoi romanzi sembrano non esserci innocenti. In Ferro e fuoco addirittura una donna rapita sembra percepire di avere una qualche responsabilità della vita terribile del suo rapitore.
Innanzitutto questa è un’impronta fervidamente noir. Il noir in qualche maniera prevede che non ci sia scampo per nessuno, a meno di non ricorrere a dei tropi abbastanza stantii, la vamp, la donna da salvare, etc. In linea di massima il noir prevede che siano tutti perduti, quindi io abbraccio totalmente quella visione. Credo faccia parte anche di una certa mia visione esistenziale perché sono un po’ emo. È pur vero che c’è una gradazione differente di dolore e di orrore che propiniamo agli altri e a noi stessi e per cui a un certo punto c’è anche una gradazione differente di innocenza e colpevolezza. Mi piace pensare che questo renda terribilmente, incredibilmente umani i miei personaggi, proprio perché io non credo esistano gli animi puri, lindi. L’uomo è capace di momenti di incredibile nobiltà, di momenti di incredibile gentilezza e donazione di sé e poi anche di veri e propri orrori. Per cui cerco di disegnare personaggi così, che sono simili a quelli che mi circondano, che sono simili anche… – questa forse è una confessione psicanalitica – anche a quello che sento dentro di me. Ognuno di noi ha anche delle pulsioni irricevibili, irraccontabili, che però esistono.
La tua è una narrazione dichiaratamente cinematografica, alcuni romanzi sono al limite della sceneggiatura.
Questo viene dal fatto che ho avuto una formazione fumettistica e cinematografica. Nel senso che ho scoperto scrivendo fumetti, quando ero un disegnatore all’università, l’amore per la parola. Sono uno scrittore per prosecuzione di un altro amore che era quello visuale. Quindi resto uno scrittore visuale, molto legato alla descrizione delle cose, un procedimento eminentemente visivo, cinematografico, per cui io non faccio la descrizione dello stato d’animo di un personaggio ma descrivo quello che sta succedendo intorno a lui e quello che lui fa; un mio personaggio scopa, bestemmia, spara, scappa, piange, fa delle cose, e le sceneggiature fanno questo. È un procedimento che attiene parecchio alla visualizzazione delle scene più che alla visualizzazione della psiche dei personaggi. Tanto di cappello a chi ci riesce ma è una scuola cui non appartengo.
Le tue storie sono inoltre raccontate con un linguaggio alto, scegli vocaboli ormai inutilizzati, addirittura danteschi, uniti però al dialetto o alle storpiature volgari dell’italiano. Quanto lavoro preparatorio fai sul linguaggio?
Molto, tanto lavoro di ricerca. Primo perché credo che uno scrittore debba trovare una propria voce e quindi, quando ho messo a punto questa qui, l’ho sentita vera, ho sentito che mi apparteneva. È un lavoro che faccio sul dialetto, sul vernacolo, sulla commistione di registri, sull’alto e il basso. C’è un tentativo di dare anche un afflato epico, e questo implica un certo costrutto anche stilistico; e poi sì, vado in giro con il taccuino mentale sempre aperto. Trattando di ultimi, quindi spesso di gente con una cultura terra terra, non posso farli parlare in chiave aulica, però il narratore onnisciente ha spesso una voce oggettivamente quasi biblica. Questa commistione ha finito per diventare la caratteristica che meglio mi contraddistingue. Sia chiaro che questo non è niente di nuovo, perché tutti gli scrittori a cui faccio riferimento, sia oltreoceano che in Italia, l’hanno già sperimentata lungamente.
Io, da un po’ di anni, declino questi ingredienti tipici del noir in salsa pugliese. Credo di essere stato uno dei primi a farlo e ora c’è una schiera folta di scrittori – penso a Andrea Donaera, Orazio Labbate, Giuseppe Merico – che in qualche maniera mi hanno guardato e sono loro grato. Sono stato una sorta di apripista, per esempio nell’uso del dialetto innestato a un italiano aulico, costruito nella maniera in cui io lo uso, cioè barocco, espressionista, che non teme di ricorrere a neologismi, di mescolare l’alto e il basso. Anche prendendomi un po’ di critiche. Soprattutto ai miei esordi una parte di critica fu particolarmente entusiasta di questa lingua, un’altra parte no, e continua credo a darmi addosso, perché qualche volta questa lingua sa di artefatto. Ma la letteratura è assolutamente finzione, è assolutamente un costrutto. Io mi ci diverto e credo che uno scrittore debba poter fornire al lettore uno sguardo nuovo e lo sguardo nuovo lo fornisci anche attraverso una serie di costrutti sintattici, perché no, anche bizantini. Della scrittura di Faulkner dicevano che era “un gongorismo del Sud”, ma Gongòra era particolarmente riconosciuto per questo genere di linguaggio.
Spesso, appunto, i detrattori di Faulkner usano l’aggettivo barocco in senso dispregiativo.
Sì, ma ci tengo che tu lo rimarchi: se consideri la pagina scritta come una sorta di partitura musicale, a un certo punto non ha più nemmeno significato che chi legge conosca tutte le parole. Io ricorro per esempio a un italiano ormai desueto, parole inusitate…
Alcune come “grifagno”, “lumare” sono andato a cercarle.
Ecco. Io utilizzo tantissimo il vocabolario e mi fa piacere che poi il lettore lo compulsi. Però, al tempo stesso, se si abbandona al piacere semplicemente fonetico, la pagina diventa una vera e propria galoppata ipnotica all’interno della lingua, che è poi esattamente quello che capita a me quando mi immergo nelle pagine degli scrittori di riferimento, Faulkner, Flannery O’Connor, ma anche gli italiani, una pagina di D’Arrigo o una pagina di Bufalino sono assolutamente pura poesia, qualche volta anche incomprensibile, perché richiede un impegno non da poco. Ma questa è arte, questa è letteratura. Dove sta scritto che la musica dodecafonica deve essere comprensibile? Però è musica, cazzo.
A proposito di Faulkner, in tre diverse occasioni hai citato tre suoi diversi libri come “irrinunciabili”: Santuario, Luce d’agosto e Sartoris, che era anche il nome di un tuo vecchio blog. Se tra questi dovessi sceglierne uno?
Avevo indicato Santuario perché comunque è l’esperimento di Faulkner, classico esempio di un premio Nobel – anche se all’epoca ancora non lo era – che si cimenta con un genere, un giallaccio in questo caso. Che poi è una cosa che fanno di continuo i grandi: Vonnegut con la fantascienza, Ellroy con il noir, Cormac McCarthy con il western. I grandi scrittori non hanno certo paura delle definizioni, delle etichette. Sartoris per il semplice fatto che è l’iniziatore della Contea di Yoknapatawpha e quindi è veramente lo spartiacque di tanta letteratura novecentesca. E poi Luce d’agosto perché è un romanzo che contiene tutto, contiene il dolore, la passione, il sensazionalismo, il problema della razza, il fuoco, la poesia. Se dovessi rinunciare a due di questi tre libri, sicuramente Luce d’agosto è quello che porterei con me.
Ti chiedono sempre i tuoi riferimenti del passato, e sono questi che hai citato, ma invece i contemporanei? O addirittura la generazione successiva alla tua?
Ho pubblicato, qualche giorno fa, su Tuttolibri una recensione di Andrea Donaera, che è uno scrittore trapiantato a Bologna ma di Maglie, ed è molto bravo, è uno di quegli scrittori a cui bisogna guardare, che viene dalla poesia, che ha una voce sua nuova. Poi il mio amico Orazio Labbate, che pubblica per Tunuè, ed è sicuramente una bellissima penna. Ma farei un torto a tutti quelli che dimentico. In questo momento l’Italia ha un sacco di formidabili narratori, mi viene una schiera di nomi, Marco Rossari, Luca Ricci per i racconti, c’è un sacco di gente brava. Credo che la letteratura italiana in questo momento sia molto viva.
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↔ foto © Giuseppe Putignano, Settembre 2019.
photo editing: Alessandro Ciccarelli.
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