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Nel 934 Ki no Tsurayuki, un poeta della ristretta cerchia imperiale giapponese, viene nominato governatore della remota provincia di Tosa; si trova costretto pertanto a abbandonare la capitale e affrontare un viaggio di cinquantacinque giorni per raggiungere la sua nuova casa. L’anno seguente scrive il diario di questo viaggio, Tosa Nikki, che diventerà il precursore di un nuovo genere letterario in Giappone: la diaristica, il nikki, che fonde mirabilmente i fatti personali dell’autore con l’osservazione dei luoghi attraversati prima di arrivare a destinazione.

Più di mille anni dopo, nello stesso solco letterario sembra muovere i suoi passi Maximiliano Matayoshi, scrittore argentino di origine giapponese, con il suo Gaijin (Funambolo, 2019, traduzione di Ilia Pessoa), il cui protagonista, Kitaro, è un ragazzino giapponese che nel 1950 parte con la nave Ruys da Okinawa per arrivare in Argentina e tentare la fortuna. Il racconto di Kitaro non è una mera cronaca di eventi, ma abbraccia la sua esperienza, le relazioni, l’impatto con l’altro, con un nuovo paese e una lingua ancora sconosciuta.

Le isole di Okinawa, nell’Oceano Pacifico, hanno visto sul proprio territorio una delle più sanguinose battaglie della Seconda guerra mondiale, nella quale perì più di un quarto della popolazione civile, concludendosi con la vittoria degli Alleati nella loro ultima spedizione militare in Giappone; appena un mese dopo, sarebbero calate su Hiroshima e Nagasaki le due bombe nucleari ponendo fine al conflitto. Okinawa in ginocchio, alla fame e con la speranza di sopravvivenza quasi spazzata via è il teatro in cui prende il via Gaijin: è da questa fame che scappa Kitaro, lasciando indietro un padre morto sotto i bombardamenti, la madre e la sorella minore Yumie: «Mi chiese se ero ancora convinto di andare in Argentina. Conoscevo alcuni ragazzi che se ne erano andati e altri che dicevano che era come l’America, persino meglio: gli argentini non uccidono i giapponesi».

La prima parte del romanzo è ambientata sulla Ruys: si vedono, nella storia raccontata dalla voce del protagonista, i corridoi stretti e bui del terzo ponte della nave, dove dormono i passeggeri di terza classe; l’attaccamento agli oggetti della vita che hanno concluso in patria e insieme l’aspettativa e la paura per quello che li attende in Argentina; la meraviglia e a volte il timore nello scoprire posti e volti nuovi durante le soste sulla rotta atlantica. Per Kitaro, così come per molti dei suoi compagni di viaggio, è il primo contatto con stranieri non belligeranti: i gaijin del titolo appunto, a partire dai membri dell’equipaggio. Gaijin in giapponese è una contrazione della parola gaikokujin, ossia «persona di un paese straniero»; nel perdere l’infisso «koku», però, il cui ideogramma significa «paese», la parola acquisisce una valenza negativa, e diventa sinonimo sprezzante di «non giapponese». Lungo tutta la permanenza sulla nave, i gaijin sono gli altri, gli olandesi, i cinesi, che parlano lingue diverse con cui è difficile comunicare; con cui forse non c’è neppure nulla di interessante da dirsi. Kitaro stringe amicizia con Kei, atteso a Bueons Aires da uno zio titolare di una lavanderia, con Kiyoshi, che viaggia con la nonna, con Akiko, che poi arriverà fino a Bariloche. Giunto in Argentina, è proprio questo piccolo grumo di comunità giapponese appena sbarcata a diventare forestiero. I passeggeri della Ruys verranno posti in quarantena, e una volta ammessi a entrare nel paese si scopriranno stranieri, saranno i migranti scherniti, i cina che fanno lavori umili. Kitaro finirà a fare le consegne per la lavanderia dello zio di Kei, con un unico obiettivo: mettere da parte abbastanza soldi per tornare in Giappone dalla mamma e da Yumie.

Matayoshi scrive lasciando il controllo del racconto interamente a Kitaro: tutta la vicenda è narrata attraverso il suo punto di vista, ogni partenza, ogni incontro, perfino ogni dialogo si basa sull’esperienza diretta del protagonista o dei suoi ricordi. Il suo umore diventa perciò parte integrante del resoconto letterario, le sue emozioni le nostre mentre procediamo nella lettura e nel viaggio da un continente all’altro. Tre mesi per arrivare in Argentina, quattordici anni per decidere di tornare davvero in Giappone: il viaggio non è soltanto fisico da Okinawa a Buenos Aires ma è metafora anche dello scorrere del tempo e della crescita di Kitaro, dai primi approcci impacciati con la lingua spagnola alla vita costruita passo dopo passo nel luogo che così difficilmente è diventato «casa», alle relazioni, ai sentimenti che cambiano.

Maximiliano Matayoshi, nippo-argentino nisei o «di seconda generazione», tenta di ripercorrere la storia del padre Tetsuji, e di tanti giapponesi come lui che lasciando Okinawa, giapponese dal 1870 ma occupata e controllata nel dopoguerra dagli Stati Uniti fino al 1972, hanno cercato una vita migliore all’estero: «Scrivere Gaijin è stato il modo che ho trovato per parlare con mio padre. A quel tempo quasi non ci parlavamo, non ci capivamo. Con la stesura del romanzo ho colto l’occasione per fargli molte delle domande che non gli avevo mai fatto. Anche se credo di non essere riuscito a fare le più importanti», ha rivelato in un’intervista quest’anno.

Gaijin è il suo primo romanzo, col quale ha vinto nel 2002, a ventitré anni, il premio Primera Novela UNAM-Alfagura. La sua opera è il modo in cui l’identità degli immigrati viene definita non attraverso il biculturalismo convenzionale, ma grazie alla mescolanza di due diversi contesti culturali, Giappone e Argentina. Il testo di Matayoshi rimette in discussione la nozione post-coloniale classica di diaspora che viene determinata esclusivamente attraverso l’antitesi, sia essa tra colonizzatore e colonizzato, occidente e oriente, centro e periferia o sé e altro. Quello che lo scrittore riesce a fare qui è mostrare come la generazione emergente di scrittori argentini fornisca una narrativa alternativa alla comprensione della diaspora giapponese in America Latina, da un lato, e al significato dell’identità nazionale nell’odierna Argentina, dall’altro. Il lavoro che trova Kitaro al suo arrivo a Buenos Aires in lavanderia, è l’espediente per raccontare una parte reale della comunità giapponese in Argentina a partire dagli anni Venti del Novecento: il buon lavoro fatto con le tintorerías, infatti, sarà la chiave con cui i giapponesi immigrati riusciranno a farsi parte della comunità. Kitaro e la sua esperienza come immigrato giapponese narrata in prima persona, prima da ragazzino sulla nave e fino all’età adulta, danno la testimonianza di episodi di assimilazione, integrazione, amicizia.

Alla fine della storia, lo troviamo determinato a tornare in Argentina per amore, e per un suo nuovo senso di appartenenza. Nel romanzo, gli elementi giapponesi si svelano grazie alla resistenza con cui il ragazzo mantiene l’attaccamento alle proprie radici, continuando a considerare il giapponese come «la mia lingua» e il Giappone come «il mio paese». Non a caso, i tentativi amorosi con due ragazze argentine, Nenina e Lara, falliscono, mentre la soddisfazione sentimentale arriverà tra Kitaro e Julieta, figlia del signor Arakaki, con una condivisione culturale e linguistica in bilico fra i due paesi ma proprio per questo funzionale. In questo caso Matayoshi rinforza lo stereotipo di una comunità giapponese chiusa agli altri e per questo respinta. Gli episodi di razzismo descritti nel romanzo sono spesso frutto di una rimodulazione di eventi accaduti realmente, anche allo stesso scrittore, come quando Kitaro viene apostrofato a Mendoza come chino e chin chu lin. Né Kitaro né Matayoshi riescono a sfuggire alla realtà dell’alterità razziale segnata dalla loro eredità giapponese; «Tredici anni prima mi ero imbarcato per attraversare l’oceano in attesa del momento di poter tornare a casa. Per poterlo fare avevo iniziato a lavorare in una lavanderia, imparato una lingua e scoperto che esistono terre da cui non si può nemmeno immaginare il mare; le avevo attraversate, quelle terre, e ora ero tornato indietro pronto ad attraversare l’oceano una seconda volta».

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