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Quando apre la porta, zia Vittoria sembra una nuova Lila. Alta, secca, i capelli nerissimi, «di una bellezza così insopportabile che considerarla brutta diventava una necessità»; il dialetto aggressivo, puntellato di termini indimenticabili come scancellare, persino un ex fidanzato di nome Enzo. Somiglia a Lila ma non ne è all’altezza. Non è altrettanto ipnotica, non abbastanza cattiva – la sua cattiveria è più rozza, più urlata, più ingenua – e niente ha, soprattutto, di geniale.

La vita bugiarda degli adulti, il nuovo romanzo di Elena Ferrante (edizioni e/o, novembre 2019) trae la sua forza proprio dal non essere all’altezza dei quattro romanzi precedenti. È come se dicesse Credevi che avessi scritto abbastanza, finito le idee, messo un punto. Che fosse tutto bell’e risolto. Invece no, tutto è ancora ingarbugliato: i personaggi sempre quelli, e le sofferenze, e il degrado. Il degrado, sì, perché ti piace questa Napoli alta e bassa, ricchi e poveri, questo rione fiabesco e verissimo; e infatti piace pure in America, dove c’immaginano così, un po’ mafiosi ma di buon cuore, pronti a esprimere i sentimenti con una violenza atavica che sa di giustizia. E quanta libertà c’è nel degrado, nel mettere in dubbio educazione, prestigio e convenzioni, quanta liberazione nella spazzatura in strada e nel parlare di cose private e banali – sesso, corpi, insicurezze – nel nome di un qualcosa di alto come la letteratura. Ma siccome c’è già riuscita, l’autrice senza volto, a creare un’epica umana e attualissima, tutta pulsioni e cronaca e niente dèi, allora le è lecito farlo di nuovo, per riprendere ciò che era rimasto in sospeso, o anche solo per provocazione.

Così, in questa storia che fa un po’ acqua, con personaggi familiari ma appena abbozzati, la seguiamo comunque volentieri: in funicolare, su fino al Vomero e all’Arenella, a San Giacomo dei Capri, dove abita l’adolescente Giovanna, protagonista e io narrante del libro. A distanza di un numero imprecisato di anni, Giannina – così ribattezzata da zia Vittoria – racconta il passaggio dall’infanzia all’età adulta; qualche dettaglio le sfugge ma non le diverse tappe, prima fra tutte il crollo della fiducia nei confronti dei genitori, del padre buono e studioso e fedifrago, la perdita di stima per la madre, una parvenza di primo amore. Si racconta dai tredici anni ai sedici, è la Napoli degli anni Novanta e ci lasciamo portare a spasso come turisti alla Floridiana, a via Toledo, a piazza del Plebiscito con tanto di sosta davanti al Gambrinus che quasi finiamo in una foto-ricordo: è un po’ troppo, stavolta, la città nei libri si fa realmente protagonista quando rimane una quinta, un profilo riconoscibile ma non meticolosamente tracciato. Dagli agi vista mare di Posillipo alla macchia grigia del Centro Direzionale e oltre, al Pascone, il quartiere ex palude dove affondano le loro radici Giovanna, i suoi ma anche Roberto, il bel giovane colto e carismatico, emigrato a Milano, che si teme possa diventare meschino come Nino Sarratore da un momento all’altro. Anche in questa storia chi esce dal rione ha un bagliore che gli altri – chi è sempre stato fuori, come i colleghi universitari di Roberto – sembrano non avere. Il rione è un luogo senza possibilità di salvezza da cui al contempo si attinge la forza: in questo romanzo, però, c’è più umiltà che violenza. Il figlio prepotente dell’avvocato è una macchietta, la rabbia ignorante di alcuni momenti minaccia di spaccare tutto e invece scema nell’imbarazzo.

Se Elena voleva a tutti i costi uscire dal rione, salvo poi ripiombarci, se Lila si ostinava a rimanerci, ora Giovanna in un certo senso vi fa ritorno. Compie un viaggio all’indietro, per conoscere Vittoria, l’odiata sorella del padre «scancellata» dalle foto di famiglia; appiccica un dialetto incerto sull’italiano dei libri, va male a scuola, si avvicina ai maschi con disgusto. Si imbruttisce di proposito, ed è difficile capire, sommando ciò che lei dice di sé a ciò che le viene detto, se sia in effetti bella o meno: sarà la bellezza disarmonica dell’adolescenza. Tutto questo per ribellione, ricerca di sé, ma soprattutto perché, come farà anche la sua amica Ida, non vuole essere «degna» di un mondo adulto che lei rifiuta, e dunque l’unica via è rendersi «indegna». Ecco la catabasi nel viaggio dell’eroe, la necessità di scendere per poi risalire che è il cuore pulsante di ogni racconto di formazione. O di «sformazione»: farci a pezzi e analizzarli uno a uno, per poi rimontarli nella maniera che più sentiamo nostra.

Sformarsi, deformarsi, che è un po’ smarginarsi: torna (nella mente del lettore, perché nel romanzo non è esplicitato) il concetto di «smarginatura», fondamentale nella poetica della Ferrante: i margini non sono solo confini geografici o sociali, ma anche le linee incerte che racchiudono cose, persone e le loro identità, tenendole insieme in un’illusione di senso. Ma basta un attimo – uno scossone – perché queste linee crollino come pareti, e allora tutto, appunto, si smargina, si sfuma, non si sa più cosa è familiare e cosa fa paura, non si distingue il vero dal falso.

La menzogna è il leitmotiv della Vita bugiarda: Giovanna cresce non solo quando si accorge che gli adulti attorno a lei sono falsi, ma soprattutto quando lei stessa impara a mentire, scoprendo che la bugia è a volte perversa, altre necessaria. La realtà è «niente niente niente di cui si possa dire definitivamente: è così», come risuona la voce di Lila, per questo ogni «è così» è quasi sempre una bugia. Giovanna mente con gusto, anche a sé stessa, per trovare un senso. Diventare qualcosa o qualcuno, o semplicemente diventare grande, è già tradire, negare una parte di sé per metterne in risalto un’altra. Spannare il vetro soltanto in alcuni punti: opacità è un vocabolo ricorrente del lessico ferrantiano, è una mancanza di limpidezza che assume però i connotati del brutto. «L’amore è opaco come i vetri delle finestre dei cessi» dice zia Vittoria.

Opachi sono i volti non belli: «Bastava guardare anche solo per un attimo chi aveva il privilegio di una bella faccia fine e si scopriva che nascondeva inferni non diversi da quelli espressi da facce brutte e grezze. Lo splendore di un viso, arricchito tra l’altro dalla gentilezza, covava e prometteva dolore ancor più di un volto opaco».

Le facce contano in questo romanzo: il primo momento di rottura è quello in cui Giovanna sente il padre dire alla moglie, con disprezzo, che la ragazzina sta «facendo la faccia di Vittoria». Una somiglianza che non si capisce in cosa consista; Giovanna sente di somigliare alla zia, lo teme e lo desidera insieme, ma agli occhi degli altri la somiglianza non c’è. Le facce si fanno, si indossano, come le smorfie e le maschere, o le bugie.

Così i nomi: i protagonisti della Ferrante hanno sempre dei diminutivi, e non è un caso se il soprannome del rione è quello che si attacca di più, sigillo di una qualche autenticità. Lenù. Giannina. Che a sua volta decide a un certo punto di chiamare i genitori per nome – Andrea, Nella – per sottolineare una distanza, un’alterità. E se l’autrice sceglie per sé un nome che non è quello vero lo fa per nascondersi, forse, e per non smarginarsi. Per tenere insieme una potenza espressiva che da un lato basterebbe a renderla riconoscibile ma, dall’altro, è potente proprio in quanto condivisa, capace di dar voce a ogni vissuto, e rischierebbe quindi di rompersi e spandersi in mille identità diverse. La protagonista stessa invoca l’autrice, all’apertura del libro: «Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione».

Giovanna, certo, è niente, ma a lei come a chiunque altro la scrittura può dare una storia: come Elena che, fissando Lila sulla pagina, la sottrae alla volontà di sparire. E il filo, giusto o no, si trova sempre, come le scuse o le colpe, per non smarrirsi. Nell’Amica geniale a fare da filo sono due bambole; nella Vita bugiarda un braccialetto, che le donne del romanzo desiderano e di cui continuamente si disfano, portatore di bellezza e malasorte.

Gli oggetti hanno più storia delle persone, hanno confini netti. Ma non hanno coscienza: è questo l’elemento di novità della Vita bugiarda, il rendersi conto che il filo, senza un ago, serve a poco. Le riuscite incursioni della tetralogia nel femminismo e nel mondo operaio lasciano qui il posto a riflessioni goffe sui Vangeli, montate a tavolino per introdurre un nuovo termine destinato a entrare per sempre nel vocabolario dell’autrice: compunzione. Un termine così colorito e altisonante da sembrare dialettale; «vivo dolore e pentimento» recita il dizionario, ma anche: «atteggiamento umile, afflitto, talora ostentato e non senza ipocrisia». Roberto, nei suoi studi, si occupa della compunzione: «[…] ne parlò come di un ago che doveva far passare il filo attraverso i brani sparsi della nostra esistenza. Le diede il significato di una vigilanza estrema su sé stessi, era il coltello con cui ferire la coscienza per evitare che prendesse sonno». L’ennesimo artificio, insomma, forse quello definitivo, per tenere tutto cucito insieme.

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