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Rapite con l’inganno o con la forza, tenute prigioniere, ridotte a schiave sessuali e poi dimenticate: così durante la seconda guerra mondiale migliaia di donne, ragazze e spesso bambine, sono state vittime della brutalità dell’esercito imperiale giapponese. È la storia delle comfort women, le donne ridotte in schiavitù dai giapponesi nei territori occupati durante la guerra: un nome dolce e rassicurante volto a mascherare le atrocità commesse. Un uso irresponsabile del vocabolario perpetuato fino ad oggi che diverse sopravvissute rifiutano: non c’è mai stato alcun tipo di conforto o sollievo nelle violenze che sono state costrette a subire.

Il numero delle vittime è ancora oggi oggetto di dibattito, si calcola siano state circa 200mila, ma alcuni storici cinesi sostengono siano state molte di più dato che solo 10% delle prigioniere dei giapponesi è sopravvissuto – come stimato dal tribunale globale delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani delle donne – e molte hanno taciuto per decenni le violenze subite. Si è però a conoscenza dell’esistenza di comfort station in Cina, Corea, Filippine, Thailandia, Singapore, Indonesia e in altri territori occupati. Uno studio del governo olandese ha dimostrato che trecento donne furono prelevate con la forza dalle Indie Orientali Olandesi e fatte schiave dalle milizie giapponesi.

La posizione tutt’oggi ambigua del governo e la riluttanza delle autorità giapponesi nel riconoscere i crimini commessi, e offrire adeguati indennizzi alle ormai poche sopravvissute, è al centro dei problemi diplomatici tra Corea, paese che più di tutti soffre e rivendica l’impunità di questi crimini, e Giappone: nel 2007 il primo ministro Shinzo Abe aveva minimizzato pubblicamente il coinvolgimento delle autorità giapponesi nella questione e recentemente la Corte costituzionale coreana ha respinto come non rispettoso dei diritti umani l’accordo politico che era stato raggiunto nel 2015. Oltretutto nel 2013, all’interno di una serie di riforme volte alla “ripresa educativa” del Giappone, il governo guidato da Abe ha approvato una revisione dei libri scolastici volta a ridurre le   responsabilità storiche del Giappone, soprattutto per quanto riguarda i crimini di guerra commessi.

È nello stigma della violenza, nel silenzio delle ingiustizie inascoltate e nel tentativo di farle cadere nell’oblio che l’autrice singaporiana Jing-Jing Lee affonda le radici del suo primo romanzo Storia della nostra scomparsa, pubblicato in Italia a gennaio da Fazi Editore: tre fili narrativi e due linee temporali diverse per segnare i contorni di un pezzo di storia ancora troppo sconosciuto, fatto di identità negate, crimini rimasti impuniti, corpi e diritti violati.

È il 1942, Singapore è stata da poco occupata dai giapponesi e Wang Di ha soltanto sedici anni quando viene portata via con la forza dal suo villaggio per essere condotta in una comfort station, dove viene ridotta a schiava sessuale dei militari giapponesi. Sessant’anni più tardi la vita del tredicenne Kevin si incrocia con quella di Wang Di ormai anziana, nella ricerca di una sconvolgente verità dopo la confessione di sua nonna in punto di morte. L’autrice attinge dalle vicende autobiografiche della sua famiglia per raccontare la seconda guerra mondiale da una prospettiva diversa da quella cui siamo abituati. Sia perché sui nostri libri di storia del liceo nei capitoli sulla seconda guerra mondiale la zona del Pacifico è spesso sorvolata o trattata superficialmente, sia per i punti di vista scelti: il racconto in prima persona della prigionia della sedicenne Wang Di, si alterna, nel presente, con quello del percorso di crescita di Kevin e dell’anziana vedova Wang Di.

È con gli occhi di una ragazza di sedici anni che il lettore percepisce l’avanzata dall’esercito giapponese, la sconfitta degli inglesi e l’occupazione dell’isola. Nata in una famiglia povera, senza istruzione e prospettive, inizialmente per lei la presenza dell’esercito occupante si traduce nel cambio della moneta, della bandiera e del fuso orario: cose di poca importanza che di fatto non alterano il corso regolare della sua vita. Fino al giorno del suo rapimento. Con l’arrivo alla casa bianca e nera, il bordello dell’esercito giapponese, ha inizio la lunga prigionia e la lenta scomparsa di Wang Di e delle sue compagne, che si renderanno conto molto presto quanto sia alto il prezzo per la sopravvivenza.

Mi spuntarono dei lividi, che all’inizio sembravano delle punture di insetto e poi si gonfiarono fino a diventare delle pustole, che non andavano più via. Tre mesi. Le ossa del bacino ormai sorgevano come spuntoni di roccia. Mezzo anno. Il mio corpo segnava il tempo e, quando lo guardavo, mi sembrava una strana forma di vita. Questa non sono io, pensavo. Lo stesso accadeva alle altre ragazze, che ormai avevano la pelle avvizzita e senza più colore, come un’ombra pallida, e si erano ridotte a poco più di un mucchietto d’ossa, tagli e ferite mal sanate.
Ecco, pensavo, ecco come svaniremo tutte.

L’orrore della prigionia è raccontato dall’autrice con estremo rispetto. Nonostante non si lasci mai andare nella descrizione esplicita e disturbante delle violenze subite dalle ragazze, la scrittura è viva e potente. È proprio questa la parte del romanzo a cui ci si affeziona di più, che sconvolge e coinvolge maggiormente: il tormento per l’inevitabile destino delle prigioniere genera un senso di sconforto e di impotenza tali che è impossibile non immedesimarsi. L’orrore e la violenza sono resi dall’autrice dai dettagli della quotidianità, della routine cui molto lentamente le ragazze si abituano, rendendo agli occhi del lettore tutto ancora più sconvolgente. La brutalità e la lucidità della sopravvivenza, il limite verso cui l’essere umano tende pur di resistere sono inseriti con abilità nella narrazione, senza scadere in facili pietismi.

Sentivo il tintinnio delle monete mentre si frugavano in tasca in cerca di spiccioli, per poi consegnarli a Mrs Sato in cambio delle marchette – dei quadratini di carta rosa – che poi gettavano a terra appena entravano nella mia stanza. Io le raccoglievo tutte e a fine giornata le consegnavo a Mrs Sato. Un giorno, durante la prima settimana, ero rimasta al centro della stanza a pensare all’unica parata con le stelle filanti che avevo visto da bambina, a quel caos di colori. Poi m’ero inginocchiata e avevo raccolto tutti i fogliettini rosa, contandone quarantadue.

La disumanizzazione, la perdita del proprio corpo che diventa un oggetto a disposizione dei soldati, l’identificazione con un nuovo nome giapponese, l’eterno senso di vergogna e umiliazione. La scomparsa di cui parla Jing-Jing Lee non è soltanto fisica, non riguarda il solo rapimento e il deterioramento fisico, ma si sviluppa su più livelli. Wang Di – nome che non a caso significa “speranza di un fratello” – in quanto figlia femmina ha messo fin da subito la sua esistenza al servizio della famiglia, riponendo nel matrimonio l’unica speranza per cambiare vita e poi, come schiava sessuale, ribattezzata Fujiko, non ha mai avuto libertà di scelta, un’identità che le appartenesse, il suo posto nel mondo. Anche a guerra conclusa, una volta rientrata al suo Kampong, Wang Di non trova ciò che sperava: nessuno della sua famiglia è disposto a fare i conti con il male che ha subito e i vicini, le persone che l’avevano vista crescere, la rifiutano. Perché lo stigma, l’orrore di essere stata alla mercé dei soldati diventa una colpa imperdonabile. E di nuovo il matrimonio diventa l’unica via di uscita, con un uomo che non conosce la sua storia, il suo corpo consumato, con cui essere un’altra donna ancora.

Chiedendomi cosa fosse quel vuoto che sentivo nello stomaco, anche se ormai ero piena. Come una specie di nostalgia. Poi capii di cosa. Era la mia casa che avevo perso. L’idea che ne avevo. Il mio posto lì dentro.

Su questo piano Kevin e Wang Di si incontrano. Neanche lui ha ben chiaro quale sarà il suo posto nel mondo, è ancora troppo piccolo per sapere chi è o chi potrà essere. Bullizzato a scuola e con problemi di salute che lo portano quasi alla cecità, Kevin diventa custode di un terribile segreto sulla sua famiglia. E come la sua co-protagonista femminile – senza però arrivare a toccare i margini dell’esistenza – si trova ad affrontare situazioni più grandi di lui con i pochi strumenti che ha a disposizione. Ci prova, si ingegna, va oltre i suoi limiti con l’ingenuità di un bambino e la fermezza di chi conosce la sofferenza, offrendo al lettore un nuovo punto di vita sulla Storia. Come si fa a perdere qualcosa che non hai mai trovato? A chiederselo è Kevin, ma la sensazione di vuoto e smarrimento è la stessa di Wang Di nel non riuscire a liberarsi dal peso della verità, nonostante gli anni trascorsi, nonostante i tentativi del marito di aiutarla. Il passato che cerca disperatamente di tenere nascosto le rimane attaccato addosso in abitudini acquisite nella casa bianca e nera – come conservare qualsiasi tipo di oggetto nell’eventualità possa rivelarsi utile – che si fanno più intense nei momenti di difficoltà.

L’autrice riesce a mantenere coerenza tra tutti e tre i fili narrativi, e anche se a tratti il racconto risulta prevedibile, non perde mai di forza. La potenza del romanzo sta proprio nell’offrire un punto di vista privato sulla Storia, nel farsi testimonianza di un fatto storico taciuto troppo a lungo. E non solo. Il lavoro di Jing-Jing Lee acquisisce, forse non intenzionalmente, anche un valore sociale e politico: raccontando la storia di una, tratta dalle vicende biografiche della sua stessa famiglia, ha di fatto ridato voce a tutte le migliaia di vittime rimaste inascoltate. Perché raccontare una realtà, anche attraverso un romanzo, per fare in modo che venga ricordata, che se ne continui a parlare, che entri nella memoria collettiva, è l’unico modo per non farla scomparire.

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