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Comincio daccapo.
Ciao Ma’.”

Il riavvolgimento di un nastro, un graduale retrocedere. Brevemente risplendiamo sulla terra (La nave di Teseo, marzo 2020, traduzione di Claudia Durastanti) è una lunga lettera che Little Dog, la voce di questo intenso romanzo d’esordio, scrive a sua madre e a se stesso: cos’è d’altronde una madre, se non un punto d’inizio, e come si può cominciare daccapo, rinascere, senza una madre.

In una prosa in cui i nodi principali della poesia di Ocean Vuong (la sua prima raccolta di poesie, Cielo notturno con fori d’uscita, è uscita in Italia nel 2017 per La nave di Teseo) si allentano e il vissuto privato funge da radice alla narrazione, a Little Dog è affidata la ricostruzione della storia di una famiglia vietnamita immigrata negli Stati Uniti negli anni Novanta. In principio, una successione di ricordi e il narrato che si riduce a una raccolta di istantanee: Little Dog ha otto anni e nell’unica stanza da letto dell’appartamento di Hartford fissa sua nonna Lan che dorme sul pavimento di legno con le braccia incrociate, mentre Rose, sua madre, smalta unghie di rosso per tirare a campare.

A essere ricomposta è la storia di una famiglia smangiucchiata, «simile a un paesaggio artico e silenzioso, quieto solo dopo una notte di fuoco d’artiglieria», su cui il trauma della guerra si è inspessito: in nonna Lan con l’acuirsi di una forma di schizofrenia e canti funebri intonati ai compleanni, in Rose in incubi e in una sindrome da stress post-traumatico, muta come le percosse sul figlio.

Una lingua d’approdo

La guerra che ha raso al suolo il passato contemporaneamente ha svuotato la lingua, l’ha ridotta a un borboglio di suoni, distrutto la sintassi («Lei dolore. Lei piange»). Quel che rimane è la landa deserta dell’incomunicabilità, un idioma ibrido che annovera le parole figlie di tutti i conflitti, sopravvissuto, mostro. 

Da ragazzina […] hai visto l’edificio della tua scuola collassare dopo un raid americano al napalm. Avevi cinque anni, non hai mai rimesso piede in una scuola. La nostra lingua materna allora non è affatto una lingua, è un’orfana. Il nostro vietnamita è una capsula del tempo per i posteri, un segno che indica dove è finita la tua istruzione, ridotta in cenere. Ma’, parlare nella nostra lingua madre significa parlare in vietnamita solo in parte, e parlare tutto in guerra.”

Né il vietnamita, né l’inglese. La lingua di Little Dog è una nave alla deriva tra due sponde equidistanti. In mancanza della protezione di una lingua madre, il ragionamento attorno alla lingua, spina dorsale di questa storia, solleva la questione su identità e integrazione in un’America che puntualmente biasima l’io narrante per la sua estraneità.

Lo sforzo che Little Dog compie per colmare il gap identitario si risolve in un passo in avanti nella lingua e uno indietro dalla madre, che dell’inglese conosce appena una manciata di termini: per Rose il figlio è unica chiave d’accesso a un codice altrimenti impenetrabile, a frasi che resterebbero nell’aria come linee sporche, suoni deformi.

La storia sfrutta, dunque, una lingua d’approdo tanto per le parole quanto per i gesti: laddove le prime scarseggiano, la mano si inventa linguaggio. La vergogna come bava appiccicosa dopo che Rose e Lan fanno roteare gli indici sui fondoschiena per mimare al macellaio la coda di un bue, rimanendo incomprese, non è che il volto singolare di una violenza più sottile, che rende animali. Spesso Vuong consapevolmente confonde il pianto umano col guaito, e il vasto corollario animale (tra cui le farfalle, le scimmie, i bufali) che popola il paesaggio interiore del romanzo si configura come metafora del dolore. Little Dog, invece, che scrive a sua madre «con la voce di una specie sotto minaccia di estinzione», per il solo fatto di scrivere è automaticamente già salvo dalla condanna allo stato bestiale: l’elemento discriminante è la parola stessa, ciò per cui le nostre vite non sono più «storie di animali.»

La risposta a dove è un nome proprio

In un continuo cucire e sdrucire, la scrittura ridisegna il perimetro di una ferita da cui la vita fuoriesce, ora con l’impeto di un fiume, ora goccia a goccia. Vi confluiscono le droghe, il desiderio, l’omosessualità, l’accettazione e le regole del mondo, l’incontro di Little Dog con Trevor, figlio della «nocchiuta rabbia americana». Trevor che si scopre, Trevor con cui si scopre, Trevor che «Ti prego dimmi che non lo sono, ha detto, non sono un frocio. Lo sono?».

Nel racconto delle scene di vita privata e famigliare, il passato non è «mai un paesaggio stabile e dormiente, ma qualcosa che viene ri-visto», e attribuisce alla narrazione il valore di una ricostruzione, disintegrare per approdare: «Sto facendo me e te a pezzi, di nuovo, così forse posso portarci da un’altra parte.»

La scrittura che riassembla i racconti frammentati della nonna, quell’alfabeto mutilo da cui prende avvio per Little Dog l’esplorazione del sé, ristabilisce ora il senso di un passato negato – talvolta richiesto indietro dalla voce di Lan, che si fa strappare i capelli bianchi dal nipote in cambio di una storia – e ne perdona i traumi.

“Dove sono, Little Dog?” Sei Rose. Sei Lan. Sei Trevor. Come se un nome potesse essere più di una cosa sola.”

La risposta a una domanda che chiede dove è un nome proprio, il luogo geografico amplificazione di uno più intimo: in una narrazione in cui l’accuratezza verbale rende possibile orientarsi in uno spazio interiore, abitare grandi sentimenti, esplicare dolori muti, la geografia cessa di essere scienza.

L’escamotage epistolare di Brevemente risplendiamo sulla terra, lettera che Rose non sarà mai in grado di leggere, allora, è un bellissimo pretesto, il tu interlocutorio non è altro che un io, e la voce di Little Dog l’ipocentro di tutte le altre.

Tra linguaggio e cromatismi

Infine il colore: il caleidoscopio di tinte che si avvicendano nelle pagine e che sembra costituire una danza spontanea risponde a una logica precisa, eppure sempre al di sotto della soglia di percezione, in un espediente creativo di grande finezza.

A casa di Trevor, nel corridoio che conduce in camera sua è appeso un dipinto raffigurante una scodella di pesche rosa. È un dipinto scadente, di quelli prodotti in serie con pennellate stampate e una vaga pretesa di verosimiglianza: sostanzialmente un falso. Nel dipinto che questo libro costituisce, invece, le pennellate ristabiliscono con compiutezza il senso della nebulosa bluastra della giovinezza di Little Dog. I ricordi tendono a configurarsi come fotografia, tutta bagno di colore: alle tinte dominanti del blu e del viola, e in misura minore del rosso, progressivamente si aggiungono altre sfumature.

Quella volta a quarantasei anni in cui hai sentito il desiderio improvviso di metterti a colorare.
“Andiamo da Walmart” hai detto una mattina. “Mi servono dei libri da colorare”. Per mesi, hai riempito lo spazio circoscritto tra le tue braccia con tutte le sfumature che non sapevi pronunciare. Magenta, vermiglione, zafferano, argento, castagna e cannella.”

Il blu copioso delle prime pagine sbiadisce nell’azzurro, nell’indaco, nel malva e ancora nel verde, colori nuovi come virgole nuove del linguaggio – la cicatrice a forma di virgola come un gancio viola sul collo di Trevor. Ogni sfumatura corrisponde perciò a una nuova parola, ogni cromia a un sentimento: l’esplorazione nel colore è esplorazione nel linguaggio.

Osservo la vita di Lan che inizia a ritirarsi da sé stessa. Viola, ha detto Mai, ma i piedi di Lan non mi sembrano di quel colore. Sono neri, un marrone bruciato in cima alle dita […]. Ma è la parola viola, quella sfumatura intensa e lussusosa che sempre reca con sé, a inondarmi. Ecco cosa vedo mentre guardo il sangue che viene meno dai piedi neri di Lan, il verde circondato da cumuli di violetto nella mia mente, e mi rendo conto che quella parola mi sta trascinando dentro un ricordo.”

Sfociando in una scrittura tutta avviluppata da una sensibilità sinestetica che fonde parola e suggestione cromatica (calma violetta, sensazione viola profondo, retrogusto luminoso), e in un lirismo che frattura i periodi come enjambement inattesi, l’attenzione spasmodica per il colore è allora attenzione per la luce – «perché il colore senza la luce non è niente» – e, senza la luce, nessuna storia esisterebbe.

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