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Esistono due modi di pensare New York. Il primo è il più tradizionale, sono innumerevoli le storie ambientate in questa metropoli, cui possono equipararsi soltanto Londra e Tokyo per un motivo antropologicamente persuasivo: sono città in cui tutto si amalgama e confonde a partire da un’identità cittadina permeabile, culle di molteplici espressioni di umanità, ricettive di tendenze, capitali di tre poli globali. Questo tipo di New York è la città del possibile e dell’immediato e, chi ha avuto la fortuna di trascorrerci del tempo, sa che è proprio così; a New York c’è praticamente tutto e a qualsiasi ora della giornata (ci sarà un motivo per cui non dorme mai).

C’è poi un’altra New York, quella di Hanya Yanagihara ed è la New York della sofferenza e della bellezza in senso assoluto. Una vita come tante ha ottenuto un più che discreto riconoscimento internazionale e, a distanza di tempo dalla sua lettura, ci si potrebbe anche chiedere il perché. Se da un lato è evidente la qualità del romanzo, dall’altro c’è decisamente qualcosa che non torna. Yanagihara gioca con la bipolarità del bene e del male, del bello e del brutto, del giusto e dello sbagliato, sa come stuzzicare l’ontologia bipartita dell’essere umano.

Il libro (un tomo di 1104 pagine in pregiata carta Fabriano, edito da Sellerio) presenta questa dicotomia già dalla copertina: vi troverete stampata una foto raffigurante la smorfia di un bel ragazzo dai capelli lunghi, colta, a quanto sembra, in un attimo di forte dolore o tristezza, l’interpretazione è ambivalente. Yanagihara fa molto soffrire a prescindere dal suo grado di distillazione della bellezza, che pure esiste in modo particolarissimo.

Incipit: due ragazzi cercano casa in piena Manhattan, centro catalizzatore mondiale per eccellenza. Manhattan, sì, ma una strada poco conosciuta, la Lispenard Street, ignota alla maggior parte dei newyorchesi, a detta degli stessi protagonisti. Si chiamano Willem e Jude cui, poco dopo, si uniranno nella trama JB e Malcolm. Il primo è un attore, il secondo un avvocato, il terzo un artista e il quarto un architetto, un bilanciamento che parrebbe prevalere sulla linea artistico-creativo-filosofica, fino a quando non si scopre che qualsiasi altra categoria sociale è di fatto esclusa dalla scena. Certo, lungi da una narrazione inclusiva e politicamente corretta a tutti i costi: l’autrice ha deciso di escludere categorie, per così dire, medie o basse, scelta legittima, ma l’ha fatto con un senso della selettività che, lungo tutta la narrazione, appare non poco snob. È come se Yanagihara si fosse costretta ad essere impeccabile nella descrizione di personaggi esternamente e socialmente invidiabili e qui sta il primo punto: se si parla di perfezione, qui intesa perlopiù in senso sociale e lavorativo, è necessario che lo si faccia con una ragione. Art for art’s sake, diceva Wilde: l’arte in ragione dell’arte stessa. Va bene, il wildismo aforistico a buon prezzo ci ha abituato alla cantilena già da tempo, solo che i quattro newyorchesi sembrano perfetti anche quando stanno male, ma proprio male.

Jude St Francis è l’enigma del libro che verrà svelato goccia a goccia solo da un certo punto della trama. Jude è un cristo fatto e compiuto: soffre per le colpe degli altri, soprattutto fisicamente, e soffre dal principio, allo sviluppo, alla fine. La cristologia di Jude è commovente, patetica, ma poco credibile. Ecco la polarizzazione di cui sopra: Jude è ineccepibile, celato, guardingo ma non invidioso; modellabile in base alle aspettative altrui, è altro da sé a causa dei vari traumi subiti dall’infanzia alla prima adolescenza, è il crogiolo di tutti i peccati possibili di un’umanità meschina. Non sceglie, accetta, non si ribella, reprime: è uno spettatore degli altri e di se stesso senza mai essere se stesso, perché è il primo a non sapere chi sia; è un ragazzo plasmato dalla volontà degli altri (affidatari, amici, estranei, fidanzati), è il simbolo del dolore, a quanto pare, universale: ha un male costante alle gambe da un incidente avuto quando era bambino, occorso diverso tempo dopo essere scappato dall’orfanotrofio in cui si trovava, è un autolesionista seriale e recidivo, non ha coscienza del male che si procura e procura agli amici. Non convince la sua testarda prova di resistenza ai mali perpetui del mondo: poteva funzionare con Giobbe, magari, ma non con un ricco avvocato di successo della New York del XXI secolo. C’è qualcosa di fintamente conturbante negli atteggiamenti di Jude, però qualcos’altro convince e qui si rischia con piacevolezza di toccare il dostoevskiano. Jude ha la capacità di scegliere liberalmente il male al di là di un sentire comune: nelle cause in tribunale è il massimo dell’eloquenza, come se avesse un bottone di spegnimento della morale che, nelle sue parole, diventa accessoria, malleabile, opinabile.

È l’anacronistico avvocato del diavolo che diventa il contrario del suo opposto cristologico. Il fascino della sua asetticità è lo stare a un livello di non-umanità che, secondo Dostoevskij, è l’utilitarismo di Raskòl’nikov; la differenza è che Jude, dal suo canto, è, sì, un nichilista, ma accetta senza mettere in discussione il suo status quo, Raskòl’nikov, invece, cercava di cambiare il mondo a vantaggio di una legge superiore, superomistica, perché voleva sentirsi (come) Napoleone. Jude St Francis accetta il bene e il male in una solitudine corroborata al massimo, asfittica, che si può solo immaginare di perforare ricevendo minime rivelazioni di un passato, anche qui, perfido in senso assoluto. Si pensi a tutte le sfortune possibili e immaginabili: Jude le avrà sicuramente vissute. Ecco il bandolo della matassa: Jude soffre per soffrire e senza una reale volontà di guarigione. Pain for pain’s sake e pare davvero poco credibile che il suo perenne autolesionismo – si procura giornalmente tagli su tutto il corpo tramite lamette – non arrivi mai a un punto di svolta, che faccia dell’ossessione il perno dell’intero libro. L’ossessione del controllo e del controllo del dolore fisico a oltranza.

Di contro, abbiamo l’amico Willem, il primo che abbia voluto bene a Jude al di là della sua malattia fisica. Willem è un attore che si afferma presto sulla scena internazionale; anche lui ha un passato complicato (un fratello disabile con un ritardo mentale), ma sembra esserne uscito illeso; non è chiaro perché ognuno dei personaggi principali goda di questo successo senza fallimenti professionali, lo stesso che interessa anche JB e Malcolm, ma tant’è. Le loro carriere sono semplicemente impeccabili e l’autrice non si sforza di farle apparire, in qualche modo, fallaci, precarie, magari più ‘umane’. Certo, affrontano le iniziali difficoltà del trasferimento e dell’inserimento nel mondo degli adulti, ma gli standard lavorativi vengono mantenuti secondo le aspettative più rosee. Willem presta enorme attenzione alla salute fisica di Jude, così come gli altri componenti di questo esteso nucleo familiare o pseudo tale. Jude è il protetto, è il custode del segreto di un dolore assoluto, è il connettivo delle preoccupazioni di tutti gli amici, l’origine delle stesse, dal momento che Jude non comunica realmente con nessuno, nemmeno con Willem, nonostante provi per lui un bene peculiare e fuori norma.

Nel libro c’è una polarizzazione dei sentimenti e dei personaggi che rappresentano tipi con poche, pochissime sfaccettature; ogni personaggio è quasi un dogma e, se vivono un’evoluzione, questa appare tardiva e viene rivelata con dilungamenti che fanno venir voglia di scagliare il libro al muro, eppure non lo fai, perché c’è qualcosa che ti incolla alle pagine, qualcosa che suscita piacere al di là dell’apparente perfezione dei personaggi.

Yanagihara si approccia a tematiche varie con una firma personalissima; nel libro convergono pedofilia, sfruttamento sessuale, violenza fisica e verbale, aspirazione al successo vissuta con indolente distacco, a formare tante piccole trame parallele che, dall’onniscienza diegetica, passano ex abrupto a lunghi monologhi-confessioni. Personalismo narrativo, soprattutto intorno alla sessualità di certi personaggi, come JB.

JB (acronimo per Jean-Baptiste) è uno sprezzante artista omosessuale della Grande Mela, disinibito e invadente. Tra i quattro è il più credibile nelle relazioni private e personali. JB sa di essere diverso e se ne compiace, sia nell’arte che nell’attivissima vita sessuale che conduce. Nonostante il suo spesso strato di disprezzo verso il prossimo, dato dalla consapevolezza di essere un artista di grande talento, esprime comunque sentimenti che ce lo fanno sentire più vicino rispetto agli altri tre; c’è Jude da un lato, fermo nel suo stato di unto del Signore che ha sofferto attraverso gli altri e per gli altri, e c’è JB dall’altro, l’uomo vero, peccatore consapevole e recidivo, ma redento dagli errori (come un certo consumo di droga), non per desiderio di raggiungere uno stato di virtù, quanto per la voglia di ritornare sulla scena sociale e artistica più risoluto di prima: JB è veritiero perché incarna un certo cinismo contemporaneo, a differenza della dabbenaggine di Jude che appare volentieri buonista e sciocca.

Malcolm, invece, è il borghese benestante, abituato a mettere in sordina i propri sentimenti; di certo è il personaggio più quieto e che fa solo qualche comparsa, rispetto alle complesse personalità dei tre amici, sia nella debolezza che nella vanità che li caratterizzano. In queste piccole vite – come suggerisce il titolo originale – di borghesi, Malcolm è un osservatore più che un attore, un po’ come Harold, il padre adottivo di Jude, di cui leggiamo i lunghi monologhi che intermezzano la narrazione, dando un’ulteriore sospensione del tempo; l’autrice segna lo scorrere delle pagine confondendo il senso cronologico del lettore, che rimane sospeso a causa della mancanza di riferimenti temporali precisi che non siano un più generico passato e presente. Le vite dei personaggi fluiscono velocemente attraverso forti evoluzioni emotive, scandite da una New York che si muove con loro lungo stagioni senza nome.

Nel libro c’è una varietà di tipi che spesso non riescono a dialogare se non attraverso un conflitto, che suona come un pretesto perché i personaggi, in qualche modo, comunichino, soprattutto se si tratta di Jude, che, sia con Andy, l’amico medico, che con Willem che coi genitori adottivi, arriva sempre allo scontro e, di seguito, a una risoluzione temporanea dei problemi.

Ma torniamo a Willem, il salvatore (di Jude). Willem possiede uno spiccato senso dell’altruismo che riversa in toto sull’amico e non riserva a nessun altro. È un’anima sincera che non lesina nessuno sforzo, fisico o empatico, per alleggerire i dolori di Jude, nei confronti del quale matura un affetto più che amicale. I due si ritrovano a vivere un amore diviso tra il letto, viaggi per il mondo e soggiorni in una casa fuori New York, la loro diventa un’endiadi simbiotica nella quale, ad ogni modo, Jude si trova per la prima volta costretto ad agire, perché, deprivato di un’identità stabile, non vuole deludere le aspettative dell’amico amante; Jude non sceglie di stare con Willem perché omosessuale, lo fa, dice, perché è sempre stato abituato da bambino ad avere rapporti con altri uomini. Jude ama Willem al di là degli schemi relazionali stereotipati, la sua neutralità, nella vita e nelle relazioni, lo rende permeabile a una sessualità immersiva, acritica, che si colora di un respiro autentico, donato a Willem. Da qualche parte nel Simposio di Platone è scritto che l’amore tra due persone dello stesso sesso è il più autentico perché disinteressato alla procreazione. Jude fa un salto in più. Ama perché disinteressato all’amore e, in fondo al suo inguaribile strato di adulto ferito da un’infanzia atroce che torna di continuo a galla; l’annichilimento di Jude lo conduce a uno stato vitale simile a quello del dottor Manhattan di Watchmen. Ci troviamo quasi a un livello di interpretazione delle idee estraneo ai mortali; Jude esiste solo in quanto ente plasmabile secondo aspettative estranee ai suoi sentimenti, che mette sempre in secondo piano perché privo di un vero e proprio ego o, forse, di un sé.

D’altro canto, Willem si concede aprioristicamente all’amico rinato nella forma di un amante atteso da una vita. A un certo punto del libro, l’agente di Willem gli chiede se sia gay, ma Willem risponde di non saperlo. L’agente, dunque, ribatte col fatto palese che sta frequentando un uomo, ma Willem, candido, risponde che non è così, lui sta frequentando Jude. Yanagihara mette in moto un espediente di amore al di là della sessualità e del genere, così dibattuto oggi. Esiste davvero una forma plasmabile di identità sessuale che oltrepassi lo stereotipo sociale? Esiste un amore neutro che, appunto, non sia né l’uno né l’altro, ma che possa essere scelto a piacere dalla persona? Siamo probabilmente a un punto della narrativa che può davvero proporre al grande pubblico immagini fuori dalle classificazioni standard cui l’umanità si è abituata da secoli. Ma poi, quelle che si leggono sono davvero vite come tante? Sembrerebbe di no.

Perché questo titolo? Una vita come tante, a ben vedere, non racconta per niente di vite comuni, sono vite abbastanza fuori norma da essere passabili di eccezionalità, soprattutto nella sfortuna di certi eventi. Sembra logico pensare che le vite, per quanto uniche nella loro privatezza, si somiglino un po’ tutte, in questo amalgama complesso di contemporaneità che l’autrice dipinge con efficacia, attraverso stilemi tipici che ricorrono nella vita di ognuno, ma con un tratto inusuale fino ad ora. Il tempo e i soldi, per esempio. L’infanzia torna a scuotere l’animo fin nel presente, soprattutto in Jude, incapace di parlare degli orrori subiti, mentre il denaro è affermazione ottenuta tramite ambizione, e vale un po’ per tutti i personaggi. La famiglia, inoltre, è un grande palcoscenico di sperimentalismi che Yanagihara ritrae con dettagli di piacevolissima assurdità; i genitori adottivi di Jude accolgono in casa un ragazzo più che maggiorenne di cui non conoscono nulla, eppure l’affetto è (ri)scoperto secondo modelli rari su cui nessuno, magari, si era mai soffermato. Di contro, i personaggi sono letti nella loro menzogna, come JB, artista maledetto dal proprio narcisismo, vittima di se stesso, sbagliato, superbo, umanissimo. Ma su tutti spiccano Jude e Willem, che si offrono al lettore in completa nudità, come se invitassero chi li legge a entrare nella loro stanza in Lispenard Street, che impareranno a riconoscere per strada anche solo con l’immaginazione.

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