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Quando si può dire di aver imparato una lingua?

Negli ultimi anni ho sempre avuto il timore di perdere la lingua – la lingua italiana, per intenderci. Questa mia paura presuppone, ovviamente, che abbia qualcosa da perdere, che la mia padronanza abbia raggiunto un livello tale per essere considerata una perdita significativa, semmai avvenisse. Semmai questa vostra lingua mi sfuggisse, svanisse nell’oblio.

Qualcuno chiederà giustamente il perché di questa paura, di questo timore. E io direi semplicemente: perché ho sempre saputo che un giorno me ne sarei andato, che avrei lasciato il paese, e di conseguenza non avrei avuto più un modo concreto, attivo, per mantenerla questa lingua, per tenermela stretta. Adesso che sto pensando alla partenza, mi tocca fare un bilancio.

Paradossalmente, questa paura si è fatta viva non all’inizio dell’apprendimento, ma dopo aver raggiunto un livello che si potrebbe chiamare accettabile. Per accettabile intendo la capacità di farsi capire e capire gli altri nella maggioranza dei contesti quotidiani, ed essere capace di elaborare discorsi più complessi in alcuni campi. Ma ovviamente l’accettabile non mi soddisfaceva e più il tempo passava più vivevo con l’ansia di migliorare, di accumulare parole, espressioni, modi di dire, termini dialettali e quant’altro, quasi fossero un capitale. Sì, il mio è stato una specie di capitalismo linguistico (frase orrenda) in cui l’accumulo – la crescita continua – era un fine a sé stante. Come ogni buon capitalista, l’importante non era tanto cosa imparavo, ma quanto. E per giustificarmi mi appoggiavo sugli stessi termini di cui il pensiero piccolo borghese si avvalla rispetto ai soldi: non è accumulo, pensavo, ma un risparmio per un futuro potenzialmente incerto, in cui il benessere potrebbe venire a mancare. Mi immaginavo una cassaforte di parole, tempi verbali, aggettivi (dannati aggettivi, le sfumature dei quali non ricordo mai) come una riserva d’emergenza. Andasse tutto a rotoli, pensavo, avrei comunque la lingua. Mi potrei sempre appoggiare su di lei, sul mio capitale, e questo darebbe un senso a tutto. È evidente però, che questa mentalità non è molto produttiva (e qui chiudo la metafora economica).

Uno dei tanti problemi che presenta l’apprendimento di una lingua straniera è che il traguardo si sposta sempre, come lo saprà chiunque abbia trascorso un periodo significativo all’estero. È un traguardo sfuggente, inafferrabile, di cui uno non si accontenta mai. È il pesce (o forse l’anguilla) che scivola via dalle mani del pescatore, e sparisce nel fiume.

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Scarabeo. Roma.

Certo mi direte, è normale: come il buon detto ci insegna, «non si finisce mai di imparare». Ma il fatto è che alcuni sì, finiscono di imparare e non se ne fanno un problema. Quanto disprezzavo, nei miei primi anni di permanenza romana, gli altri inglesi o anglofoni che mi capitava di conoscere, che vivevano in Italia da un decennio e ancora a malapena sapevano ordinare la pizza o chiedere un’informazione, per non parlare di una conversazione più ampia, un dibattito sulla politica attuale, lo stato del mondo.

Questo spregio, questo snobismo linguistico mi ha inseguito per anni e ripensandoci me ne vergogno. In primis perché lo snobismo è troppo facile (credo lo sappiamo più o meno tutti) qualunque ne sia il bersaglio; ma soprattutto perché quando più tardi mi è capitato di rivedere queste persone o altre persone simili, ho avvertito una grandissima tranquillità rispetto alla loro condizione che non gli avevo mai concesso in precedenza. Anzi, sicuramente mi rifiutavo di vederla.

Quel che è stato per un tempo disprezzo si convertì presto in invidia. Queste persone non si fanno problemi se dicono lei invece di lui, se non sanno usare il congiuntivo o se non riconoscono un’espressione. Oppure se, in mancanza di equivalenti italiani, sono costrette a buttare in mezzo alla frase un paio di parole inglesi (a parte che ci date sempre l’impressione che fa figo l’inglese). Non si fanno problemi e negli anni le ho invidiate e stimate sempre di più. Può sembrare paternalistico, ma non è mia intenzione. Non si tratta di celebrare una padronanza più ristretta ma a modo suo umile della lingua, perché tanto, non ce la faranno ad andare oltre; sono bravini eh ma è giusto che si adeguino a questo livello, il fatto che lo riconoscano gli fa onore ecc. No. Non è così. Più di ogni altra cosa quest’atteggiamento più rilassato indicava, almeno per me, un rapporto sano con la lingua. Un rapporto che non si basava sull’accumulo sfrenato, l’ansia che di punto in bianco tutto sarebbe sparito e improvvisamente uno avrebbe dovuto ripartire da zero, dopo un tale investimento (Aò ma quanto fa soffri er capitalismo?). Per gli anglofoni di cui parlo, la lingua è uno strumento che ha la sua funzione, è necessaria, ma non prevale su altri elementi della quotidianità. Alla fine della giornata la lasciano stare e la mettono nel cassetto. Non stanno lì a rimuginare sul fatto che al mercato hanno chiesto due cetrìoli anziché due cetriòli, o che forse sarebbe stato meglio dire due etti di pasta fresca e non duecento grammi, come indicazione di una maggiore fluidità.

Ognuno ha il rapporto con la lingua che ha; ed il mio con l’italiano non è mai stato sano in quel senso. Non ho mai potuto lasciarlo stare. Anzi a volte l’ho vissuto come una specie di corpo a corpo nel fango: esilarante ma brutale; intimo a modo suo, ma anche laborioso, sofferto. Chi mi conosce potrebbe attribuire tutto questo alla mia permalosità – e sono effettivamente, mio malgrado, una persona fin troppo permalosa – ma avevo l’impressione che ogni errore (ogni colpo) indeboliva la mia salute linguistica. Forse, pensavo pieno di autocommiserazione, non ero in grado di capirla questa lingua, questa cultura che amavo così tanto (anche lì, un po’ mio malgrado) come l’hanno amata una quantità enorme di miei connazionali, da almeno il ‘700 in poi.

Mentre cerco di ripercorrere i primi tempi a Roma quando ancora parlavo poco, mi rendo conto che ho rimosso una gran parte di quell’esperienza iniziale. Mi chiedo se questo corpo a corpo non provenga dal contesto in cui mi è capitato di imparare la lingua. Per quanto possa sembrare contraddittorio per una persona cresciuta prevalentemente nella formalità del sistema educativo inglese, non ho mai fatto né un corso di italiano né lezioni private. L’unico corso che ho fatto fu nel primo 2009, ben tre o quattro anni prima che mi venisse in mente l’idea di venire a Roma, e ancor prima di conoscere la persona che mi ci avrebbe portato. Si svolgeva, questo corso, presso la International House di Londra e comportava una lezione serale di due ore a settimana, per dieci settimane, in cui si imparava lo stretto necessario per cavarsela in Italia – infatti, si chiamava proprio Survival Italian, l’italiano per sopravvivere (vale a dire, l’italiano della speranza…). Diciamo che mi ha permesso di ordinare la pizza.

Ma oltre a quello se mi viene chiesto come ho imparato la lingua, mi è sempre piaciuto rispondere: sullautobus a Roma. Questo riassunto (un po’ buffo e più che un po’ compiaciuto lo riconosco) contiene sia una parte di verità che una parte di finzione.

Quando sono arrivato a Roma non vi conoscevo molte persone ovviamente (non ne conosco tante tuttora, a dire il vero) e quindi i mezzi, e soprattutto gli autobus, erano per me un luogo dove si poteva ascoltare le persone in tutta tranquillità. Potevi origliare senza essere sgamato e senza grandi rischi di confronto o di interazione diretta (dato che sapevo soltanto ordinare la pizza). In generale, sull’autobus a Roma, non ti caga nessuno.

Sulle linee che frequentavo io a quel tempo (il 185, il 40, un po’ l’H) si parlava prevalentemente di cibo. O della spesa. Oppure parlando della spesa si attaccava un discorso sul cibo. Ci si scambiavano le ricette. Volendo, ogni tanto si parlava di lavoro o di affari – ma poco da quel che mi ricordo. Spesso si chiamava la madre – per massimo due minuti e mentre si guardava dalla finestra, lo sguardo assorto. L’autobus è, non bisogna dirlo, un microcosmo della città anche se a Roma una fetta minuscola della popolazione ne fa uso. È un po’ come un bar ambulante, tranne che il locale non è più a norma e non dovresti consumare (c’è però chi consuma). Secondo alcuni non dovresti neanche pagare. (Ammetto di aver fatto anch’io la mia parte nell’evasione generale.)

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Metro. Roma.

L’autobus è anche un tempo sospeso, quasi all’ombra della vita (Quando passerà? Nun se sa. Quando arriverà? Ancora meno) in cui una conversazione di servizio fatta a base di luoghi comuni e di banalità estreme è pienamente consentita; è proprio di casa. Ma dal punto di vista dell’estraneo queste conversazioni correnti, sciocche ma idiomatiche, sono una manna dal cielo. Non sto scherzando: l’autobus mi ha insegnato tanto. Lì ho iniziato ad ascoltare questa lingua e questo vociare continuo e rumoroso (se non strillato per via del fracasso generale di un veicolo dell’ATAC sui sampietrini) mi ammaliava. Mi incantava. Forse ogni buon straniero rimane affascinato dalle cose più sorprendenti: a me affascinavano i romani sull’auto che parlavano di cibo con la madre, le nonnette che si scambiavano le ricette della zuppa d’arzilla, o chi attaccava un pippone all’amico sullo stato della vita sentimentale dopo aver detto che si sarebbe (che era sul punto di recarsi?) finalmente recato in quel posto dove fanno una carbonara strepitosa. E tutto questo accanto alle badanti latinoamericane, le donne delle pulizie ucraine, i ragazzi eritrei e gli studenti olandesi che pensavano di andare verso Termini quando invece e purtroppo erano diretti come me ad Arco di Travertino.

Una volta dopo già vari anni di permanenza romana sono andato in una delle pizzerie più note di Testaccio, quartiere dove vivevo a quel tempo. Era una sera di primavera o di prima estate perché mi ricordo di un grande mucchio di persone fuori, come spesso capita in quel posto. Come di consueto uno doveva adoperarsi per capire, all’interno di quel continuo andirivieni di pizze, Peroni, supplì ecc., quale cameriere avesse l’onorevole incarico di gestire la lista. Tra domande non sentite e risposte mai date riuscii finalmente a trovare il signore in questione: un uomo di mezz’età con i baffi ed i capelli grigiastri, fra i più grandi della squadra quella sera. Un po’ tozzo ma forse meno panciuto di alcuni suoi colleghi.

Nome?
Edward.
Come?
E-d-w-a-r-d.
Mi sono sporto verso la lista per controllare. C’era scritto E-d-u-a-r-d.
No, guarda, non c’è una u in mezzo ma una w; lhai scritto male.
Abbè. Paese che vai, scrittura che trovi.

Ecco. Quella frase. In sé, non immagino che questa perversione del detto implicasse altro che amico mio, non cagar ar ca**o: qua ce vieni pe la pizza, mica pe lautografo, ma mi è sempre rimasta impressa. Non perché da buon britannico troppo puntiglioso ero lievemente offeso dalla disinvoltura con cui trattava il mio nome (vedi permalosità), ma perché mi dava qualcosa questa sua variante. Più ci ho pensato negli anni più l’ho reputata bella per via del significato supplementare che ha assorbito. Da una parte rimane il senso primario del detto originale, che devi fare i conti con la differenza (la loro, la tua); anche se non la accetti, non se ne può uscire. Ma nel tempo l’ho anche percepita (o volutamente fraintesa) come un’invocazione, quasi un incoraggiamento: paese che vai, scrittura che trovi.

Parlando con un amico di quest’aneddoto mi ha giustamente fatto notare che gli esempi ai quali mi riferisco presentano una visione assai stereotipa della capitale. Ha ragione. Non vorrei dare l’impressione di un’esperienza monocromatica in cui il vivere a Roma sembra un susseguirsi di frame tagliati da La Dolce Vita (eh no, proprio no) ma non credo che la scelta di questi esempi sia un caso: sono spesso momenti del genere che perdurano nella mente di chi non è di questa città, proprio perché rientrano così perfettamente nello stereotipo. Anzi, mi azzarderei a dire che lo straniero è perennemente stupito da quanto Roma sia così prestata a perpetuare i propri stereotipi, in quasi ogni contesto quotidiano, da sembrare uno sport urbano. Dopo qualche anno uno comincia a chiedersi ma, i romani parlano veramente della carbonara sull’autobus? Il cameriere di turno fa veramente delle battute mezze filosofiche sulle differenze incolmabili fra culture? Ammazza.

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Giovani sommeliers in una enoteca del centro. Roma.

Non saprei dire precisamente quando ho cominciato a pensare che sarebbe stato possibile scrivere in italiano. O meglio, che sarebbe stato possibile tentare di scrivere qualcosa in italiano di più complesso di una mail di lavoro, o al padrone di casa. Forse il desiderio bazzicava da sempre in qualche angolo della mia mente. È una strana sensazione però, quella di ritrovarsi alle prime armi a più di 30 anni per chi ha fatto della sua vita una serie di lavori legati alla lingua – dalla traduzione all’editing con ogni tanto un po’ di copywriting e scrittura creativa. Ero di nuovo un principiante, una situazione forse ironica dato quest’attività professionale polivalente (per necessità economica, più che bravura) che mi poneva spesso nel ruolo di esperto (parola che uso con riserva, ma a torto o a ragione è quello che lo status di madrelingua conferisce).

Dopo circa quattro anni a Roma a quel punto e dei progressi abbastanza soddisfacenti nel parlato, come tornare ad essere un principiante al livello della scrittura? Da dove cominciare? Negli anni avevo cercato di spronare le mie capacità linguistiche sempre più oltre, ma chiaramente mi ero anche scontrato con un limite; spesso avevo avuto la sensazione di fare il passo più lungo della gamba. Ancora adesso, in questo stesso istante, sto lavorando all’interno di un paesaggio lessicale e semantico molto sfumato, molto più ridotto di quanto vorrei rispetto allo scrittore italiano medio (anche medio-basso). Questa realtà può essere sia fonte di autocommiserazione (lo è stata) che una sfida maggiore, più intrigante.

Parlando con amici o conoscenze che hanno imparato un’altra lingua mi rendo conto però che questa sensazione – di dover ripartire da zero periodicamente, come se ad un certo punto non si sapesse più nulla – sia più comune di quanto pensavo. È un fenomeno che potremmo chiamare azzeramento o forse reset (l’inglese fa figo): come se raggiungendo un certo livello uno fosse costretto ad azzerare la banca dati prima di passare alla prossima tappa, in maniera da assimilare più cose dopo. Mi ricorda la prassi usata nell’alpinismo per abituarsi alla quota ed evitare il mal di montagna. Durante il giorno puoi scalare fino a una certa quota, ma la sera è fondamentale che torni giù di qualche centinaia di metri per dormire ad una quota più bassa, dando così al tuo corpo il tempo di abituarsi a quella nuova altitudine, dove c’è una quantità minore di ossigeno a disposizione. L’hai spinto, il tuo corpo, e ha bisogno di un tempo per immagazzinare questi nuovi dati. Mentre tu sei a 3800m quando cala la notte, una parte del tuo corpo sta ancora pensando come se fosse a più di quattromila.

È anche vero però che c’è chi, nonostante tutto, soffre comunque di mal di montagna. E qui subentra la questione non soltanto dei propri limiti ma di un limite assoluto.

Torniamo al presente. Poco tempo fa ho partecipato a un corso di scrittura – di drammaturgia, nello specifico – con una delle figure più note del teatro italiano. Il corso durava cinque giorni ed io scrivevo, come i miei colleghi, in italiano. Al quarto giorno mi chiese l’autrice che svolgeva il laboratorio:

Ma, sei sicuro che vuoi scrivere in italiano? Sei sicuro che vuoi farlo?

Risposi più o meno così:

Sì, penso di sì. Ho sempre pensato che il limite potesse essere un aiuto alla creazione, in qualche modo. (O qualcosa del genere.)

E lei:

Va bene ma sono idee teoriche che non rispecchiano la realtà delle cose. (O qualcosa del genere.)

Devo dire che ho una grande stima per questa persona, il suo lavoro e la sua scrittura; su tante cose le darei ragione, ma su questo punto non mi posso arrendere. Il problema (teorico, forse?) è che mi risulta difficile spiegare precisamente perché il limite mi sembra un elemento molto generativo, nella mia piccola esperienza. Credo sia legato a due cose. Punto primo: sono una persona con una leggera tendenza masochista. Punto secondo: sono pienamente convinto che la lingua possa essere un veicolo verso un altro da sé. Non c’è niente di stravolgente in questo. Chiunque abbia mai sperimentato il vivere in un’altra lingua saprà che l’io parlante (e dopo un po’, anche quello pensante) non è esattamente uguale all’io della lingua madre: è lievemente diverso, leggermente scostato al di là di ciò che siamo (premesso che siamo in grado di capire chi siamo). Una versione di noi. Mi sembra quindi evidente che l’io scrivente sia per forza diverso nel modo in cui si esprime: non solo scostato ma anche scosso, da quest’altra lingua. Anche perché (o soprattutto perché) l’attrezzo di cui si avvale è completamente diverso.

A proposito di attrezzatura: l’inglese per me è come la biro – famigliare, conosciuta, più o meno solida ed affidabile. L’italiano invece sarebbe il pennello: morbido e sottile ma sconosciuto – di natura tendenzialmente espressiva, raramente asciutta, ed evidentemente più difficile da maneggiare per chi non è esperto. Questa distinzione si fa più concreta se pensiamo all’uso dell’oggetto stesso. Se scrivo la stessa frase – una frase qualsiasi – con la biro ed il pennello, le due frasi non hanno soltanto un aspetto diverso tra loro (lo spessore della pennellata rispetto al tratto esile della biro) ma l’esperienza stessa di scriverle è diversa: il fatto di eseguire quella pennellata genera (o forse richiede) in me un cambio fisiologico oltre che cerebrale. Ancor prima di affrontare il limite, il gesto ha catalizzato qualcosa di nuovo.

Qui ci addentriamo in un terreno complesso dove spunta una domanda correlata alla prima: a che punto si può pretendere di scrivere in un’altra lingua? E quali sarebbero i presupposti per giustificare questa presunzione?

Ci sono diverse scuole di pensiero a riguardo, e ho l’onore di avere due amici scrittori che incarnano due visioni opposte rispetto alla questione. Chiamiamoli Groucho e Marx.

Da una parte Groucho: più grande di me, è un autore di teatro affermato, vincitore di premi, laureato in metrica, e forse perciò aderente ad un uso più classico della lingua. E qualche mese fa mi disse, dopo aver letto qualcosa che avevo scribacchiato (in poco tempo, ma con grande fatica):

Purtroppo non hai il controllo della lingua: mischi i registri, il tuo italiano è mezzo letterario, mezzo linguaggio parlato.

È una persona che stimo molto, Groucho. Una persona che conosco da anni e che rappresenta, di fatto, una specie di fratello maggiore dal quale uno vorrebbe sempre avere l’approvazione (per cui non l’avrà mai o mai come vorrebbe averla). Anche se potrebbero indicare altrimenti, queste sue parole provengono in realtà da una grande generosità d’animo. Non sto ironizzando. Ammettiamolo, sono vere, e ci vuole coraggio per far capire a qualcuno che magari non è il caso che vada oltre questo punto – soprattutto quando sai, come sapeva il grande Groucho, quanto ci tiene l’altro a fingersi scrittore in italiano. Rivelarmi questa verità con gentilezza, tatto e chiarezza richiedeva, a modo suo, una forte empatia per niente scontata nel mondo degli scrittori.

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Via dei Fori Imperiali. Roma.

Eppure, ci sono altre scuole di pensiero. L’egregio Marx la vede diversamente, e rivendica che la distanza dalla lingua, che l’estraneità impone, può avere come frutto una lingua propria, una variante personale dell’originale. Marx è un mio coetaneo, di formazione meno classica. Ha meno esperienza di Groucho per certi versi, ma è anche meno rigido, più aperto alle possibilità di un rinnovo formale o stilistico della scrittura. E negli ultimi due anni mi ha accompagnato in questa mia assurda impresa, accettando i miei errori quando avrebbe benissimo potuto soffermarsi sui dettagli. Anche lui è dotato di una grande generosità, il suo sostegno ne è la prova. E c’è una grande empatia nel sapere quando indicare l’errore (e non solo quando si tratta di una persona permalosa), una volta che la persona che hai di fronte ha raggiunto un certo livello: diventa delicato correggerla. Non perché potrebbe essere maleducato farlo ma perché avendo acquisito una buona base quella persona non sta più nella modalità dell’apprendimento. Ha raggiunto il (famoso) limite. Ed infatti credo che il perfezionamento di una lingua nel suo complesso sia quasi uguale, in termini di tempo, alla fase iniziale di apprendimento. Dunque se io ho impiegato tre o quattro anni per avere una buona padronanza di questa lingua, ce ne vorranno altrettanti per affinarla e raggiungere una vetta. Sono a Roma da quasi sette anni quindi direi che più o meno ci siamo. Anzi, no: ci siamo?

Ma perché non scrivi in inglese e poi lo traduci? mi chiese ad un certo punto l’autrice.

Ho cercato nella mia risposta di spiegare perché quell’approccio mi sembrava del tutto sbagliato rispetto al mio rapporto con la lingua. (A prescindere dal fatto che non sia un rapporto particolarmente sano.) Non penso di esserci riuscito, e quindi mi tocca riprovarci qui.

La prima distinzione importante, per quanto mi riguarda, è che esiste una differenza notevole tra il fare finta che un testo inglese possa diventare italiano ed il fingersi capace di utilizzare lattrezzo italiano di partenza. Una differenza sottile ma importante. Certo, nel primo caso dipende molto dalla visione che uno ha della traduzione. Questo non mi pare il luogo dove elaborare un lungo discorso a riguardo, però due cose dovrei dirle.

Non è mia intenzione negare l’efficacia di una traduzione, sarebbe ironico da parte di un traduttore. È chiaro che potrei creare una versione italiana di un ipotetico scritto inglese. D’altronde gli esempi non mancano per comprovare il valore del tradursi come strategia letteraria, ma rivolgiamoci a due esempi dove c’è una differenza profonda tra le due lingue in questione, guardando a due autori giapponesi che l’hanno fatto: Haruki Murakami e Yoko Tawada.

Si dice che Murakami avrebbe scritto le prime pagine del romanzo d’esordio in inglese, traducendole successivamente in giapponese «per sentire come suonavano». Sarebbe questo girotondo linguistico tra due lingue completamente diverse che lo avrebbe portato, almeno in parte, a scoprire lo stile per cui è famoso, quella voce narrante distaccata, che tende verso l’astrazione. Yoko Tawada, invece, va ben oltre le prime pagine. Come racconta in questa meravigliosa intervista (in cui, tra l’altro, risponde alle domande in tre lingue), negli ultimi anni ha spesso scritto contemporaneamente in giapponese ed in tedesco, mentre lavorava allo stesso romanzo o alla stessa novella. Per come lo racconta, scrive una parte della storia in tedesco e poi in giapponese, un approccio da cui si instaura uno strano percorso di mediazione fra le due lingue, e cioè che rivede la parte giapponese in base alle esigenze imposte dal tedesco (o viceversa) e così prosegue per tutta la storia. Ma la cosa bella ed esilarante, forse, è che fa tutto questo in piena consapevolezza che ci saranno sempre due versioni dello stesso scritto. È un metodo poco comune ma al contempo caratterizzato da un tale rigore, una padronanza talmente alta di entrambe le lingue, che è difficile capire se si tratta veramente di traduzione o meno. L’unico motivo per cui lo rimane, a mio avviso, è perché pervade in ogni momento l’ombra, la sagoma dell’altra lingua.

In base a questi due esempi ci sarebbero quindi tutti i presupposti per pensare che il tradursi – e dunque fare finta che una versione sia l’originale – potrebbe avere delle potenzialità molto ricche, molto più creative rispetto all’operare con lattrezzo italiano di partenza. Eppure non risolve il fatto del limite; anzi, mi creerei senz’altro più problemi di quanti ne potrei risolvere: se non sono in grado di scrivere in italiano è (purtroppo) ancora meno probabile che le mia capacità si prestino alla traduzione verso la medesima lingua. Rivolgermi alla traduzione sarebbe in un certo senso fingere troppo, oppure arrendermi. E finché ho ancora un po’ di tempo non sono disposto ad arrendermi: preferisco fingermi capace di utilizzare il pennello e fare una pennellata molto maldestra che fingere la pennellata con la biro.

Ma soprattutto, e nonostante qualunque ambizione letteraria io abbia, non sono convinto che la strada ‘creativa’ sia quella che mi interessi di più in realtà, almeno in italiano. Qualcuno mi dirà: Ma comunque tu, dai, mentre scrivi, nella tua testa, traduci dallinglese

E io direi: No. In realtà, no.

Faccio semplicemente il possibile con ciò che l’io italiano mette a disposizione. Nonostante la quantità di errori che potrebbe contenere, questo tentativo come gli altri tentativi passati, esiste prima di tutto in italiano. O in questa mia versione approssimativa dell’italiano. E questo desiderio – questa caparbietà – di scrivere nella vostra lingua non è altro che un desiderio di capirla dall’interno, vivendola sulla propria pelle, e che a sua volta agisce come collante all’interno di quel progetto più ampio nel quale siamo coinvolti tutti, quello di confrontarsi con se stessi. Forse si può dire di aver imparato una lingua quando comincia a raccontarti qualcosa di te, quando non è più semplice attrezzo.

C’è una frase di Pessoa, nel Libro dellinquietudine, che ho sentito almeno un decennio fa, e che mi è sempre piaciuto ricordare in quei momenti in cui ho avuto l’impressione di essermi incastrato fra due culture e due paesi senza appartenere veramente né all’uno, né all’altro. La frase è questa:

«minha pátria é a língua portuguesa»

Non credo vi serva la traduzione, ma comunque:

«la mia patria è la lingua portoghese»

Come sembra indicare il frammento di cui fa parte quella frase per l’autore/narratore Pessoa/Soares, neanch’io sono particolarmente affezionato al mio paese (anzi è dire poco), eppure so che per un motivo o per un altro ci devo tornare. Potessi abbozzare prima di partire una versione della sua frase solo per me, e senza troppo storpiare le parole del grande portoghese, toglierei semplicemente portuguesa e non lo sostituirei. La lingua è sempre stata il mio punto di ritrovo, direi quasi il mio locus amoenus. Ma è il fatto di aver imparato questa lingua che mi ha forse dato un’idea più chiara della topografia di quel locus.

L’Italia non è mai stata e non sarà mai la mia patria; ma se mi ci sono sentito a casa in questi anni è sicuramente grazie alla lingua e alle persone che me l’hanno insegnata (siano state loro sull’autobus o altrove). In questa casa complessa mi hanno dato le coordinate per ritrovarmi.

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Piazza Navona. Roma.

Ho detto sopra che non ho tanti ricordi precisi dell’inizio del mio rapporto con l’italiano. Uno però ce l’ho: quello del primo libro che comprai in lingua italiana. Lo comprai al mercatino dell’usato di Monteverde Vecchio per tre euro, in gran parte per via del suo titolo, che mi intrigava molto. Non era di uno scrittore italiano, bensì di uno straniero, poliglotta, che trascorse anni della sua vita fuori dalla propria patria (fosse qui avrebbe sicuramente da ridire rispetto alla nozione di patria unica). Si tratta di Elias Canetti e quel libro si chiama La lingua salvata.

Forse già a quel tempo avevo intuito che sarebbe arrivato un momento in cui mi sarebbe servito un qualche manuale, o quanto meno la testimonianza di un’esperienza simile, per superare una possibile perdita in futuro. Ma per un motivo o per un altro non lo terminai mai quel libro, ed oggi mi chiedo se, il fatto di aver lasciato quella lettura in sospeso, non sia legato all’impossibilita di affrontare il pensiero di perdere fino in fondo. Esisteranno centinaia e centinaia di libri e manuali per imparare una lingua, ma ben pochi per salvarla: l’opera di Canetti sarà l’eccezione che fa la regola? No. Non si può salvare, si screpola e si sbriciola come una casa di campagna lasciata al tempo. Lo sappiamo. È un processo che comincia presto, ve lo posso dire, dato che, nell’arco di questa scrittura, me ne sono andato dall’Italia.

La lingua salvata è un libro segnato da varie partenze, in cui Canetti ripercorre una giovinezza in continuo movimento tra un paese e l’altro: dalla Bulgaria all’Inghilterra all’Austria, dove finalmente incomincia l’apprendimento del tedesco, lingua così cara a sua madre. E Vienna, dove si stabiliscono, è raffigurata come il grande punto di arrivo, un locus ideale dove la somma dei desideri si potrà finalmente compiere.

Io non sono ancora a Vienna, ma mentre pensavo e ripensavo alla mia partenza nelle ultime settimane a Roma, venni a sapere della traduzione inglese del titolo della Lingua salvata. Mi colpì il fatto che in quel caso il traduttore (o forse Canetti stesso, chissà) decise di rendere il titolo con una sfumatura leggermente diversa, rispetto alla versione italiana. In effetti, non più salvata, in inglese la lingua fu liberata (The Tongue Set Free). Da buon traduttore nerd ho subito voluto indagare questa differenza e chiesi ad un’amica germanofona – chiamiamola, che ne so, Ingeborg – la conferma che il titolo originale tedesco, Die gerettete Zunge, potesse racchiudere quella sfumatura. Effettivamente, mi disse, può andare, la radice del verbo, come in molte lingue, lo permette.

E sarà forse soltanto un capriccio da chi passa troppo tempo a tradurre, ma questa sfumatura mi rallegrò. Anzi mi sollevò. È una sfumatura che allarga un orizzonte, che apre un varco. Quel piccolo spazio che lascia intravedere un’altra prospettiva. Una prospettiva che mi concesse la lingua stessa e, cosa più sorprendente, si trattava della mia lingua, l’altra. Come se da lontano mi stesse soffiando qualcosa, e pur senza salvare nulla mi avesse detto, dai, non dare tutto per perso ancora.

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↔ In alto: foto © Robert Walser.

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