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Dopo aver inoltrato la richiesta dalla piattaforma apposita, sezione Soggetti immigrati, la mattina del mio trentunesimo compleanno ho ricevuto una mail in cui si ufficializzava il cambio del mio medico di base, dopo quello del domicilio, della residenza e della tessera elettorale. Pur volendo rovistare tra documenti e faldoni, mi sono detta, il mio nome a casa mia non c’è più.
Qualche settimana fa, durante una lezione di storia nella scuola in cui insegno, nella provincia milanese, ho parlato in classe di una donna del passato data in sposa a un uomo. Qualcuno ha ridacchiato e lì per lì non ho capito; poi mi hanno detto ma prof, ma come dice, spoooosa, e lo hanno pronunciato con una o chiusissima, così come lo direbbero in Puglia. Fino a quel momento sposa non aveva destato alcun sospetto, era stata una parola neutrale fuori dalla cerchia delle parole e delle espressioni su cui (avevo) esercit(at)o un attento controllo nell’uso orale, e non per rinnegare il posto da cui provengo, ma per imparare a parlare bene.
Non dire mo, non dire tengo, non dire chiamo a mamma.
Quando comincia una lingua?

Sono la prima laureata della mia famiglia; il primo esame che ho dato all’università è stato linguistica italiana. Venire dal posto da cui provengo mi sembrava una colpa: noi usavamo voi come allocutivo di cortesia invece di lei, dicevamo soddisfava al posto di soddisfaceva e abusavamo del passato remoto. Quelle scoperte erano una sconfitta difficile da esprimere, un dolore profondo – il professore di storia dell’arte del liceo che dice interpetrare (manuale di linguistica, vedi alla voce metatesi, pag. 195); papà che mi chiede se oggi S. lavora da casa o in ufficio in Isvizzera (i prostetica) – controbilanciato da un’allegria quasi selvaggia per il piuttosto che usato correttamente.
Il giorno in cui mio nonno è tornato a casa con una cagnetta nera a cui mia nonna per anni avrebbe dato un paio di biscotti Colussi a colazione, ha varcato il cancello dicendomi poi la teniamo con noi, ma non dirlo alla nonna. A casa mia nessuno avrebbe detto alla nonna, ma a nonna. In scelte (o casualità?) linguistiche di questo tipo ci coglievo quella patina di settentrionalità che mi convinceva che era quello il modo giusto di parlare l’italiano, chiudendo anche un poco la o di nonna. Spesse volte, specie parlando con dei medici, ho sentito mia zia chiudere vocali normalmente aperte, rendere sorde le sonore e viceversa e aggiungere alle frasi un pizzico di quell’accento ligure che le era rimasto, essendo nata a Genova, dove i miei nonni hanno vissuto per vent’anni.
Non troncare i verbi. Appiattire, rendere tutto il più neutrale possibile.
A casa mia abbiamo sempre detto varichina e non varechina, un asciugamano è sempre stato una asciugamano e parole come alluvione o eco, sebbene largamente usate, si sono appiattite su un genere neutro e il dubbio – sono maschili o femminili? –, forti dell’ambiguità dell’oralità, non è sorto mai. Tenere e stare sono stati – e a tratti ancora sono – gli ausiliari della mia quotidianità, insieme a certi termini che concorrono a nutrire un sostrato di gesti e ritualità che non potrebbero essere nominati altrimenti.
Le parole rattapone, zinno e scalifato o l’espressione bell’e buono perdono qualunque valore una volta valicati i confini geografici entro cui invece hanno ragione d’essere. A certe parole l’italiano chiude le porte, la trasposizione nella lingua collettiva non si compie: ciò che resta è ricchezza linguistica, va bene, ma anche un bilinguismo che genera dubbi nell’uso, rallenta il dialogo, impone al pensiero di percorrere una strada diversa – iniziare una frase in italiano, proseguirla in dialetto.
Lo stupore nello scoprire, leggendo una poesia, che frasca fosse italiano; subito reintegrare quella parola nel proprio dizionario, condividere la scoperta linguistica ed essere guardata con sconcerto, come a dire: parlavamo bene senza saperlo.
Tratti dell’italiano semicolto, p. 238 del manuale; quel semi – quindi a metà, solo in parte – che per un po’ ha bruciato come uno schiaffo.
Essere in un posto e sentire addosso la mancanza di tutti gli altri. Volersene andare e volere restare; lasciare la lingua, portarsi appresso la lingua. Apro una pagina a caso di un vecchio diario, a un certo punto leggo di mia nonna che sbruffa. Rileggo la frase, forse volevo dire sbuffa?

Quando ho incontrato S., una delle prime cose che ho pensato è stata ma come parla. Campana io, brianzolo lui, ci siamo conosciuti in un posto in cui si parla una lingua che tra i due è il solo a conoscere. Viveva a Lisbona da due anni, parlava un portoghese splendido (lo aveva scelto all’università come materia di studio) e aveva deciso di studiare lo spagnolo nei momenti morti in un ufficio in cui, provenendo tutti da posti lontanissimi, la lingua principale era l’inglese e dove peraltro, molte mattine dopo, mi avrebbe detto: ho imparato una parola nuova, diafano, non la conoscevo e io devo averlo guardato con una faccia incredula.
Un pomeriggio dopo il lavoro sono andata a comprare un taccuino su cui annotare tutte le parole portoghesi che andavo apprendendo. Ho smesso subito dopo e ho scritto nella mia lingua. Non ho imparato il portoghese nei mesi trascorsi a Lisbona; il profilo di S. che dice a un libraio non lo parla ma capisce. Certo, vive qui. Mi sono accanita con la mia lingua in una città in cui l’italiano è stato (quasi) solo una voce interiore. L’esposizione ininterrotta a un idioma nuovo mi ha aiutato a tracciare delle linee tra qui e là – un esempio: tanto nel mio dialetto quanto nella lingua lusitana la pronuncia della parola sotto (abaixo in portoghese) è identica – e la mancata partecipazione dell’italiano alla maggior parte delle conversazioni mi ha portato a ripensare le parole della mia lingua madre per usarle con cura, vivisezionarle una a una, analizzarle sotto la luce diversa della lontananza.

Non ho imparato il portoghese ma conosco a memoria i testi di alcune canzoni, ripasso in mente i numeri (sbaglio sempre la pronuncia del sette), i nomi dei colori, di qualche animale, dei cibi, certi modi di dire, la voce metallica in metropolitana, próxima paragem.
Forse ho amato quella lingua perché mi ci sono schiantata, perché potevo permettermi il lusso di compiere errori. Perché sono andata a fare una lezione di surf a una settimana dal mio arrivo e dopo la lezione teorica di cui avevo intuito cinque parole a esagerare, sono entrata in acqua con la sicurezza di una che aveva capito tutto. Perché ho frequentato dei corsi in palestra e non capivo niente, ma sentivo la musica e seguivo quello che facevano gli altri e dopo due lezioni al troca perna dell’istruttrice brasiliana cambiavo gamba con una soddisfazione incontenibile.
(In italiano e in portoghese la parola casa si scrive e si legge analogamente). 

Alla luce del fatto che proveniamo da posti diversi, quando io e S. litighiamo e lui si infervora e chiude tutte le vocali, il suo accento mi risulta intollerabile; io al contempo mi innervosisco perché se non uso il dialetto non mi sento appagata e se lo usassi lui non mi capirebbe, mi ascolterebbe e sgranerebbe gli occhi, come a dire questa è matta. 
Una volta, in una mail che mi ha inviato, ha scritto trastorno percettivo – ma che vuol dire trastorno –: ho scoperto che è un vocabolo spagnolo corrispondente al portoghese transtorno e che lui ha usato senza accorgersi del prestito linguistico. Mi sono detta: ma è sempre una trappola.
La comunicazione tra noi è il prodotto di tre lingue e mezzo (italiano, portoghese, inglese e un po’ di spagnolo) e un dialetto e mezzo (il mio, ingombrante, e qualcosina del suo), ma in questi anni abbiamo trovato un terreno comune in cui adagiare parole e scambiarcele a vicenda – se gli chiedo di appannare la porta, adesso la socchiude senza esitazioni. La prima volta che gliel’ho chiesto si è messo ad alitarci sopra (dove abito io, appannare equivale a socchiudere. Ma nonna può dire anche arrembare, arremba la porta, che ho scoperto essere genovese; perché non ne poteva mica bastare uno, di dialetto).
La scorsa estate, la proprietaria di un piccolo bar a Carvoeiro, servendoci il pranzo ha detto que ventania, accentando sulla i. Io per analogia col mio dialetto ho capito che cosa intendesse – considerata anche la burrasca in corso – e mi è sembrato surreale spiegarne il significato a lui, che quella parola non la conosceva. Un paio di giorni dopo, in un supermercato a Lagos, mentre S. chiedeva delle carote al reparto gastronomia, a un certo punto si è zittito. Gli ho fatto: le carote, dovresti chiederle. Non ricordava come si dicesse vaschetta, aveva in mente contenitore e tupperware (non lo sapevo, ma in portoghese si usa), ma non quella lì che intendeva proprio quella cosa lì. Subito dopo, in riferimento alla lingua, ha detto: la sto perdendo.
È capitato diverse volte di sentirlo parlare da solo in portoghese sotto la doccia. Ho fatto la stessa cosa per molto tempo anche io ma con l’italiano, e poi, qualche tempo dopo, con l’inglese. Comprendo questo suo timore della perdita – non parlare tutti i giorni una lingua non tua, non esercitarla costantemente e via dicendo – ma forse comprendo meno la paura che ho di perdere la mia lingua madre – qual è, la mia lingua madre – che forse non è proprio una paura, ma un orizzonte possibile.

Quando ero bambina e dopo la scuola facevo i compiti, mamma mi ripeteva fino allo sfinimento ripeti a voce alta, ripeti più volte così te lo ricordi. Io sento questa nenia dentro e fuori la mia testa e sempre più coscientemente ricordo i tentativi, negli anni, di migliorare la forma, provare a esporre la lezione con parole diverse dalle solite, con parole giuste e con parole belle. Per anni ho scritto cose semplici e pure stupide usando vocaboli enormi, inutilmente ampollosi. Occorreva che li facessi miei – dirmi li conosco, conosco il significato, so usarli – per potermene poi liberare?

Quella nella mia famiglia è una vita vissuta senza grosse narrazioni, in un tempo presente fatto di cose essenziali e metriche – pranzi da preparare, commissioni da sbrigare, preoccupazioni concrete. Per raccontare (e raccontarsi?) esiste da sempre uno spazio collettivo in cui l’individualità si disperde nel mucchio, in un perpetuo brusio che risucchia tutte le voci. S., un giorno: forse sei quella che sei in reazione a.
Quando penso alla mia infanzia devo fare uno sforzo considerevole per riacciuffare qualche ricordo perché mi scontro sempre con questa sensazione di fatica, come a voler rovistare in un qualche dove in cui si condensano pulsioni emozioni impulsi che i bambini non sanno nominare, e quindi ricordare si riduce ad annaspare in un disordine di immagini mute e frasi lasciate in sospeso. Forse ho iniziato a leggere per scoprire questi nomi. E forse dopo a scrivere, per inventarmeli. Mi è sembrato che le parole mancassero dappertutto, che ci fossero solo immagini, tantissime immagini da sfogliare in silenzio senza saperle raccontare; c’erano solo fotogrammi ma non c’erano voci. (Da bambina, quando mia madre veniva a prendermi a scuola e mi chiedeva cosa avessimo mangiato, per riferirmi ai tubetti dicevo: la pasta con un buco di qua e un buco di là).
Durante i mesi in Portogallo, dove la riflessione sulla mia lingua madre s’è di fatto accentuata, mi sono domandata in che lingua penso e la risposta è stata: in italiano e per immagini. Nel suo costituirsi, il mio pensiero adopera frasi che restano sospese e nel dialogo con me stessa non mi curo di concluderle perché mi intendo tra me e me, intuendomi sulla base di un ragionamento personalissimo che fonde linguaggi variegati e gestualità, come due persone che parlano lingue diverse e usano le mani per capirsi.
(Nella rubrica vicino al telefono, i nomi che nonna ha scritto accanto ai numeri: Tonino frutta, Marco alimentari, Tanino macelleria.
Quando volevo aiutarla col bucato e lei, guardando i vestiti che avevo appena steso: sembrano fegati battuti.
Una delle prime parole portoghesi (nella variante brasiliana) che mi viene in mente: beija-flor (bacia-fiore), cioè il colibrì.
In tutti e tre i casi, si tratta di immagini).

Nel gennaio di due anni fa, mentre maneggiavo due pile di cartoline riposte in una scatola: buttale nell’indifferenziato.
Ma nonna, le ho detto.
O nella carta.
Ho ripensato a quando ha raccontato di quella volta in cui ha raccolto tutte le lettere che si era scambiata con mio nonno e le ha chiuse ben bene in una valigia che ha gettato in un fiume. Perché. Non so quante volte gliel’ho chiesto. Ho dovuto farmi bastare una scrollata di spalle.
(Nell’aprile di due anni fa nonna ha iniziato a dire che il buco aperto nella rete in giardino fosse opera di un tasso che, ha precisato, se ne andava in giro di notte portandosi appresso delle ciabatte, perché erano vicino al buco e io queste ciabatte non le ho mai viste prima.
Mi sono detta: se non ne scrivo, me ne dimenticherò. E dubiterò che sia davvero accaduto – fotografie nitidissime, senza un briciolo di menzogna e, come tutte le foto, mute.
Perché le scrivo, queste cose).
Lei ha sempre usato poche parole, pochissime; e quando è stata felice non l’ha detto mai, come se le gioie fossero una colpa, come se i sentimenti in generale fossero peccato. Il perché vorrei a tutti i costi sapere a cosa pensa è dato dal fatto che, mi dico adesso, adesso che scrivo, non l’ho saputo mai, non l’ha detto mai. Alle volte sento di avere acquisito (penso al verbo acquisito e faccio un gesto con la mano, chiudendola in un pugno che avvicino al mio corpo, come a voler tirare una fune – questo odioso bisogno di vederle, le cose; cancello acquisito) assorbito certi suoi gesti che sono, appunto, gesti, e non hanno nomi. È sempre stata una questione di pancia, di sentire le cose e basta. Se è vero che il lessico famigliare di casa mia è intessuto di un gergo tutto proprio, di tanti lemmi e certe espressioni grottesche, è vero anche che tutta questa impalcatura sintattica, slegata dal gesticolare delle mani e dal rumore, dal chiacchiericcio costante, ne uscirebbe semanticamente vuota. Quasi tutti i miei ricordi sono fotogrammi di un film muto; il mio lessico famigliare è composto dalle parole, ma prima ancora da parole non dette.

Primavera 2019, in un foglio strappato da un bloc-notes appunto a mo’ di elenco, mentre frequento un master: alessitimia, turrita, satiriasi. (Quattro anni dopo, ricordo solo il significato della prima parola).
Alla fine dello stesso anno leggo un articolo su Dante, cerchio la parola inmillare. (Questo me la ricordo).

Qualche tempo fa con una persona di Milano ho usato l’espressione menarsi sui binari e ho realizzato poi che per la mia interlocutrice quel menare (a casa mia vale anche lanciarsi, buttarsi) equivaleva a picchiarsi. Lei parlava di un litigio e io di un suicidio.
Mi succedeva sempre, e alle volte mi succede ancora, di parlare e avere la sensazione di lanciarmi col paracadute, di scartare durante una conversazione questa o quella parola per timore di sbagliare e pronunciarla erroneamente. L’emancipazione passa dalla lingua e la lingua richiede esercizio, devo essermi detta. Ho imparato ad accettarlo, facendo i conti con un dialetto – è sempre con me, non me ne libero mai – che si insinua in certe strutture sintattiche dell’italiano e le altera.
Quando torno a casa per periodi più o meno brevi, nelle giornate passate con mia nonna ritrovo la libertà grandiosa, lo avverto nella pancia e dappertutto, di parlare senza controllo con quella ingenuità di un tempo, di quando usavo parole sbagliate e non lo sapevo, di quando ero al liceo ed ero certa che una buona conoscenza della grammatica fosse bastevole. Mi capita ancora, quando ho dei dubbi su una parola, di innervosirmi e di ripeterla ad alta voce per sentire come suona; allora alle volte chiedo a S. com’è che si dice questa parola, esiste in italiano questa parola? E tutto dura una frazione di secondo, il tempo necessario a visualizzare un termine nella sua forma scritta, come appena battuto a macchina su un foglio bianco, prima che l’accento di lui la modelli in un modo diverso dal mio e che insomma questo continuo pronunciarla, uno con vocali chiuse, l’altra con vocali aperte, la svuoti semanticamente.
La sensazione è quella di abitare una lingua dai confini incerti perché perennemente esposta a incursioni esterne. Col tempo mi sono abituata a usare regolarmente il lei, eppure quando ritorno a casa sento di dover riadattare il linguaggio (e riadattarmi). Nelle conversazioni con mia nonna, invece, posso come adagiarmi su una poltrona che è già calda, su cui è impressa la mia forma e su cui posso sedermi, sdraiarmi o allungare le gambe sui braccioli senza timore di essere rimproverata. Lei che fa la conta dei suoi acciacchi – tengo un poco di ‘steoporosi – e io che penso fa’ che non finisca mai, questa lingua che è un grembo in cui stiracchiare le braccia o sonnecchiare beatamente come sotto il sole d’aprile.

I tucchi (i Tuc), il muscolo (il Muscoril), rivoluzionante (rivoluzionario), spinosi metralleca (stenosi mitralica; questa ho dovuto cercarla su Google), il vaccino moderno (Moderna), l’acquariccia (la rugiada), la cólla (la call), i fru-fru al posto dei wafer.
Questo elenco è il mio dna. Insieme all’immagine di lei, le mani sui fianchi e gli occhi piccoli piccoli e stretti come due mandorle appassite, il mio quadro preferito, l’albero da cui discendo.

One Comment

  • mmmilkyyy22 ha detto:

    Mi ha ricordato le mie avventure nel tessere il ricco arazzo della cultura e della letteratura italiana. In mezzo a tutto questo, ho trovato una comodità moderna che avrebbe sicuramente divertito Fitzgerald stesso, visto il suo approccio meticoloso a manoscritti e appunti. Di recente ho scoperto un gioiello di strumento, https://www.castellinotizie.it/2023/12/26/unisci-pdf-online-semplifica-la-gestione-dei-documenti/ che semplifica la gestione dei documenti – particolarmente utile per gli appassionati di letteratura e i ricercatori che si destreggiano con numerosi PDF di articoli, saggi e manoscritti. Si tratta di una fusione di PDF online che mi ha salvato la vita per organizzare i miei materiali di ricerca e le mie letture personali . È incredibilmente intuitivo e snellisce il processo spesso noioso di gestione di documenti diversi, lasciando più tempo per l’esperienza coinvolgente dell’esplorazione letteraria.

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