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Sono appena le 19, ma nella stazione di Kosciuszko St. non c’è anima viva. Mi lascio alle spalle la pensilina deserta e ripenso a una frase di Flaubert, l’incipit di Bouvard e Pécuchet: “Con quel caldo – trentatré gradi – in boulevard Bourdon non un’anima”. Ecco, qui di gradi ce ne sono una decina in meno, ma la Broadway è vuota lo stesso. Chiunque conosca New York sa che l’insonnia è una creazione di Manhattan – la vera “città che non dorme mai” – mentre Brooklyn segue ritmi più rilassati. Non c’è molta voglia di uscire in questo umido 22 agosto, con l’ombra della ferrovia che relega il viale in un crepuscolo perenne. Mangiata dalla ruggine e dai graffiti, la sopraelevata fende una cesura tra i quartieri di Bushwick e Bedford-Stuyvesant, come una cicatrice metallica che si scuote a ogni passaggio del treno; poi, non appena il convoglio si allontana, cala il silenzio. Scampoli di vita resistono nei bar, nei ristoranti, nel deli che espone narghilè coloratissimi e nel piccolo market africano che vende anche prodotti caraibici, di fronte a un salone specializzato in braids. Ci sono farmacie, studi medici, un negozio di sneakers, uno di elettrodomestici, uno di articoli per fumatori e uno di telefonia, ma sono già chiusi o si preparano a farlo. Un senzatetto siede su una seggiola a lato del marciapiede, vicino alla scala che conduce alla stazione della metro. Un ragazzo, poco più che adolescente, occhieggia gli sparuti passanti dalla vetrina del deli.

Subito dopo, stretto fra l’alimentari e un centro estetico, un cancelletto circonda l’entrata di un insolito locale. L’esterno è completamente scuro, e sui muri sono raffigurate due cosmonaute in bianco e nero, come sospese nel vuoto dello spazio. La lunga tettoia che protegge l’ingresso è sormontata da una scritta, anch’essa bianca su fondo nero: “Wonderville”, con la W stilizzata che si deforma in una pulsazione cardiaca. Rispetto all’estetica sgargiante e irregolare dei negozi vicini, le sue geometrie rigorose e le tonalità scure saltano subito all’occhio. È come un monolite nero incastonato nel tessuto urbano, disteso per il lungo. L’unica eccezione è la porta di legno con il numero civico in caratteri dorati (1186), che sembra invece l’eredità di un vecchio pub inglese.

Qui però non si viene solo per bere qualcosa, anche se il bar è ben fornito: chi frequenta Wonderville, lo fa soprattutto per giocare. In fondo, che altro si potrebbe fare in una sala giochi arcade? Se siete stati ragazzini negli anni Ottanta e Novanta, o avete visto qualche episodio di Stranger Things, il concetto dovrebbe risultarvi familiare. La differenza, però, è che qui non troverete i cabinati di Pac-Man, Street Fighter, Mortal Kombat o altri videogame che vi svuotavano le tasche da bambini. I titoli che campeggiano sugli schermi sono ben più bizzarri, spesso enigmatici: grumi di parole dall’aspetto quasi casuale come Hair Nah, Armed and Gelatinous, Foiled!, Videofreak, Icarius Proudbottom’s Typing Party e Super Sharp Birds, per citarne alcuni. Se volete provare questi e altri giochi indie in versione arcade, potete farlo solo qui. D’altra parte, una sala giochi non troverebbe posto sull’Atlas Obscura se non fosse unica al mondo.

Un’idea di futuro

Quando varco la soglia, provo un’impressione contemporaneamente aliena e familiare. Al bancone si assiepano i primi clienti, mentre la barista controlla i certificati di vaccinazione anti-Covid, obbligatori per entrare. Quel senso di estraneità e familiarità, così seducente nelle sue contraddizioni, è dovuto all’atmosfera del posto: sembra di immergersi in una concezione vintage del futuro, partorita trent’anni fa. L’insegna al neon con il nome del locale spande una luce violacea dal gusto cyberpunk, la stessa che mi aspetterei di trovare nel Chatsubo di Neuromante o nel White Dragon di Blade Runner.

“Hai visto il film delle Tartarughe Ninja, quello degli anni Novanta?” mi chiede Mark Kleback, proprietario di Wonderville con sua moglie Stephanie Gross. Lo contatto per telefono dopo il mio ritorno a Milano, e sorride quando gli dico che sono capitato nel suo arcade grazie all’Atlas Obscura. “Hai presente il covo del Clan del Piede?” continua. “Si trova sottoterra, ed è pieno di gente che fuma e va sullo skateboard, cose così. Quella era l’atmosfera che cercavamo. Senza il fumo e gli skateboard, ma con tutto il resto”. Le sue parole dimostrano che condividiamo un immaginario molto simile: solo chi è stato plasmato dalla cultura pop degli anni Novanta può pensare al Clan del Piede come riferimento estetico. Anche la proliferazione di schermi – ce ne sono almeno cinque dietro al bancone – rimanda a un’idea di futuro che affonda le radici in quel periodo, quando i nostri sensi cominciavano ad abituarsi a un sovraccarico ininterrotto di stimoli visivi e sonori. Uno dei televisori sta trasmettendo Buffy l’ammazzavampiri, il film del 1992 con Kristy Swanson. «Hanno fatto un film di Buffy?» chiede un tipo seduto al bancone, incredulo. «Sì, ma è uscito prima della serie tv» gli risponde la barista, ragazza energica e dai modi affabili. Quando le dico che vengo da Milano, mi racconta di averci trascorso un paio di giorni e di essersi divertita molto. Coincidenze del genere ormai non mi stupiscono più: i viaggi negli Stati Uniti mi hanno insegnato che l’aria di casa trova sempre il modo di perseguitarci, anche a un oceano di distanza.
Tornando a Mark e Stephanie, la loro decisione di aprire Wonderville nasce da una lunga esperienza sulla scena DIY (“Do It Yourself”) di Brooklyn, fatta di luoghi polifunzionali che diventano punti di riferimento per la comunità: al loro interno si può creare musica, fare artigianato, organizzare spettacoli, educare all’arte, ospitare eventi culturali, e persino abitarci. “Nei primi anni Duemila vivevo in un altro ambiente musicale DIY chiamato Death By Audio” prosegue Mark. “Era un magazzino, ma c’erano spettacoli di musica, spazi per lavorare, e ci viveva della gente. Nel 2010 stavo cercando di capire come costruire un MAME1Un MAME, o Multiple Arcade Machine Emulator, è un software capace di emulare le piattaforme arcade: in tal modo, replicandone i giochi su altri sistemi operativi, se ne può conservare la storia anche dopo la sparizione dei vecchi cabinati coin op., e con l’aiuto di Stephanie – mia socia in affari – e altre persone abbiamo realizzato un cabinato che conteneva un sacco di vecchi giochi arcade, come X-Men e I Simpson. Così ho imparato come funzionavano i pulsanti, i joystick e tutto il resto”. Il MAME trova quindi posto in una sala di Death By Audio, ma per Mark è solo l’inizio. Quando conosce alcuni membri di Babycastles, collettivo che realizza “videogame bizzarri e artistici”, in testa gli balena un’intuizione: “Ci sono molti posti per le band indipendenti” riflette, “ma non esistono spazi pubblici per i giochi indipendenti. Si vedono in giro Pac-Man o Street Fighter, tutti quei giochi molto popolari degli anni Ottanta e Novanta… ma non si vede niente di quello che viene prodotto adesso”. Mark decide allora di contattare il Dipartimento di Game Design della New York University, chiedendo se qualche studente fosse interessato a trasporre il proprio gioco in un cabinato arcade.

Il primo viene costruito nel 2013: si tratta del fantasy sportivo Crystal Brawl, pensato per il multiplayer, come la maggior parte dei titoli di cui si occupa Mark. Col passare dei mesi, altre persone vengono coinvolte nel progetto e altri cabinati prendono forma dalle loro mani, finché Death By Audio non chiude nel 2014. “A quel punto non avevamo più un posto dove stare, e abbiamo cominciato a spostarci come un luna park itinerante. Ormai avevamo una decina di cabinati, e li portavamo nei locali per la musica dal vivo, nelle gallerie d’arte, negli uffici… da chiunque li volesse”. La svolta giunge nel 2018, quando un bar con cui avevano già lavorato – il Secret Project Robot – propone loro di rilevare l’attività. Parte quindi una campagna su Kickstarter, e nel 2019 Wonderville apre i battenti al numero 1186 di Broadway, a Brooklyn, dove si trova tuttora.

La galleria delle meraviglie

La dedizione di Mark è evidente dalla grande quantità di cabinati che occupano ogni angolo del locale. A sinistra dell’ingresso, in un cantuccio con posti a sedere, ne noto già uno molto insolito: il monitor è incassato nel piano orizzontale di un tavolo, di modo che i giocatori possano disporsi sui lati lunghi e affrontarsi come se fosse un biliardino, usando i tasti e le manopole di fianco allo schermo2In gergo tecnico, questo tipo di cabinato si chiama tabletop.. Non a caso, il gioco si chiama Fútbol Forever, e permette di disputare una partita di calcio spaziale tra due navicelle avversarie, con pianeti, stelle e buchi neri a ostacolare i movimenti. Le astronavi scivolano nel vuoto cosmico, e sfuggire alla forza gravitazionale dei pianeti non è affatto semplice: se Lyle Rains ed Ed Logg – gli autori di Asteroids – avessero creato un videogame calcistico, probabilmente sarebbe stato così.

La maggior parte dei cabinati si trova però oltre una porta scura, che divide il bar dalla sala giochi vera e propria. È qui che l’atmosfera diventa ancor più familiare: le macchine sono disposte lungo tre lati della stanza, e anche al centro. Un piccolo palco occupa invece il lato corto in fondo a destra, per ospitare DJ set o altre esibizioni. L’occhio mi cade subito sul cabinato che sta di fronte alla porta: l’insegna recita Particle Mace, e sormonta uno schermo verticale. Dopo aver scelto la modalità single player e aver selezionato un’astronave, mi ritrovo a pilotarla in un’esplosione di colori psichedelici. Anche questa è una variante di Asteroids, ma sotto acidi e basata sui princìpi della fisica: invece di sparare, si sfrutta la quantità di moto della navicella per sventolare un grappolo di frammenti attaccati a una mazza, che colpiscono avversari e ostacoli. È caotico, tostissimo e divertente. Come altri giochi di Wonderville, lo si può trovare anche online e acquistarlo per varie piattaforme, ma i controlli dell’arcade danno all’esperienza una solidità “materica” che difficilmente può essere replicata in casa.

Alcuni però sono titoli esclusivi da sala giochi. Foiled!, ad esempio è uno stiloso picchiaduro ispirato in egual misura a Nidhogg, Smash Bros e ai film di Errol Flynn: due schermidori si fronteggiano a suon di fendenti acrobatici, saltando agilmente da una piattaforma all’altra, e un singolo colpo può essere fatale. Seleziono il mio personaggio – un’elegante spadaccina chiamata Leona – e faccio una partita mentre sul palco inizia un DJ set di musica elettronica, con animazioni digitali proiettate sulla parete retrostante. È chiaro che Wonderville trascende il vecchio concetto di arcade, e diventa un luogo di aggregazione polifunzionale. Non a caso, tra gli eventi organizzati qui ci sono anche spettacoli di drag queen, coerentemente con l’atmosfera LGBTQ+ friendly di Bushwick: “Ospitiamo molti eventi queer” mi racconta Mark in proposito. “Credo sia merito del quartiere, e del fatto che Wonderville sembri un posto meno testosteronico rispetto ad altri arcade… credo che molte sale giochi abbiano un clima da bar sportivo, ed è una cosa che volevamo evitare. Volevamo essere accessibili a tutti, non solo agli uomini”.

In effetti, osservando la clientela che comincia ad affollare i cabinati, l’impressione è di trovarsi nel medesimo clima vivace e progressista che caratterizza molti locali della zona. Si respira un’aria piacevolmente woke, attenta e inclusiva, che si riflette persino sui temi stessi di alcuni giochi: basti pensare a Hair Nah, forse il più emblematico di questo discorso.

Giù le mani

La macchina si trova proprio al centro della sala, e non potrebbe essere altrimenti: per giocare a Hair Nah c’è bisogno di spazio. Niente tasti né manopole, ma solo un riquadro giallo tracciato sul pavimento, a circa un metro dallo schermo. Mi posiziono al suo interno e leggo la descrizione: “Un gioco di viaggio incentrato su una donna nera che è stanca della gente che le tocca i capelli”. Un sensore di movimento capta la posizione delle mani, permettendo così di navigare fra i menù senza bisogno di controlli fisici. All’inizio bisogna scegliere l’incarnato e la capigliatura della donna, poi si seleziona la meta del viaggio tra Osaka, L’Avana e il molo di Santa Monica. Con gesti goffi e incerti, riesco in qualche modo a cominciare la partita: la protagonista che ho appena creato è inquadrata di fronte, all’incirca dal collo in su, e si sta recando in aeroporto a bordo di un taxi. All’improvviso, ecco che dai margini dello schermo cominciano a spuntare le mani di innumerevoli estranei bianchi, ansiosi di toccarle i capelli. Per scacciarle bisogna far ruotare le braccia dall’interno verso l’esterno, in modo che la nostra viaggiatrice possa deflettere quelle mani invadenti; una specie di “dai la cera, togli la cera”, per chi ricorda Karate Kid. Le ambientazioni si alternano fra diversi livelli, ma la barra dell’energia – o forse, in questo caso, della pazienza – si esaurisce se veniamo toccati troppe volte, portandoci all’inevitabile game over.

L’inesperienza gioca a mio sfavore: riesco a superare giusto un paio di schemi. Il punto, però, è che Hair Nah usa l’interattività per rielaborare temi sociali di grande rilevanza nel dibattito contemporaneo. Momo Pixel, art director e game designer che ha creato il gioco nel 2017, descrive la sua opera come “una risposta all’azione perversa di toccare i capelli di una donna nera senza permesso, la micro-aggressione di presunta autorità e possesso dei corpi neri”. Il problema è che noi bianchi spesso ignoriamo le implicazioni di questo gesto, e lo valutiamo (o giustifichiamo) con grande leggerezza. In un articolo su Forbes del 2020, intitolato emblematicamente Stop Asking Black People If You Can Touch Their Hair, Janice Gassam Asare spiega che l’atto di toccare i capelli a una collega nera sul posto di lavoro significa perpetrare inequità: “Chiedendo di toccare i capelli di una persona nera, alimentate un discorso secondo cui i capelli dei bianchi siano la norma, e qualunque cosa al di fuori di essa sia anormale. Dando per scontato che i capelli dei bianchi siano la regola predefinita, non fate altro che ampliare il divario che gli impiegati neri potrebbero sentire, e creare un ambiente lavorativo ostile”. Ovviamente la questione riguarda ogni aspetto della vita quotidiana, non solo il luogo di lavoro. Se la Storia è piena di uomini e donne nere messi in vetrina per la curiosità degli spettatori bianchi, “chiedere di toccare i capelli di una persona nera può facilmente evocare sentimenti di alterità e far sentire una persona come se fosse in mostra, con il suo corpo visto come intrattenimento per i bianchi” conclude Gassam Asare.

Insomma, se i videogame sono ormai considerati una forma d’arte, allora sono anche politici, e Hair Nah lo dimostra in pieno. Come ogni altro mezzo di espressione, i giochi elettronici possono attingere il loro fulcro tematico dallo Zeitgeist in cui viviamo, soprattutto in una società multiculturale come quella statunitense, dove i conflitti razziali non sono mai stati risolti. Peraltro, Hair Nah stimola un’immedesimazione ancora più totalizzante nell’esperienza altrui, grazie all’uso del proprio corpo per controllare i movimenti del personaggio: me ne sono reso conto mentre tentavo di spazzare via tutte quelle manacce, sentendomi quasi in colpa ogni volta che riuscivano a toccare i capelli della protagonista. Nel chiedere al fruitore di mettersi in gioco in prima persona, Hair Nah innesca un dialogo ancora più intimo fra le parti, con effetti diversi a seconda dei casi. Per chi ha una conoscenza diretta del problema e lo vive sulla sua pelle giorno per giorno, il gioco diventa catarsi, sfogo, un modo per esorcizzarlo; chi invece ne ha solo una conoscenza indiretta, può quantomeno fare un esercizio di empatia che ne facilita la comprensione.
“Ogni anno facciamo domanda per i finanziamenti del Brooklyn Arts Council” mi racconta Mark circa la nascita di Hair Nah. “Nel 2021, a causa del Covid, abbiamo proposto l’idea di un cabinato da usare senza mani, perché non ci fosse bisogno di toccarlo. Abbiamo ottenuto i finanziamenti e poi abbiamo indetto un concorso, dicendo che stavamo costruendo un cabinato hands-free e che [gli sviluppatori] avrebbero potuto sottoporci i loro giochi. Momo Pixel ha proposto Hair Nah, che ci è sembrato fantastico, quindi abbiamo lavorato con lei per costruire l’arcade”. Da quel momento in poi, il gioco è diventato un vero e proprio fenomeno “di culto”, esposto persino in musei come la Tate Modern, il Victoria and Albert Museum e il Museum of the African Diaspora. È l’ennesima prova – se ancora ce ne fosse bisogno – che i confini fra videogame e arte digitale non esistono più.

Giocare insieme

In quanto esperienza esclusiva per giocatore singolo, Hair Nah rappresenta un’eccezione a Wonderville. Aggirandomi per il locale, noto infatti che molti cabinati hanno solo la modalità multiplayer, per due o più giocatori, o comunque sono giocabili almeno in coppia. C’è chiaramente un’idea di condivisione alla base di questo posto: la sala giochi vuole tradursi in uno spazio di socialità, come lo era negli anni Ottanta e Novanta. Non a caso, Mark sottolinea che all’inizio prendeva in considerazione solo giochi multiplayer. “Per parecchio tempo abbiamo scelto specificatamente dei giochi che fossero così, perché volevamo che le persone giocassero insieme in pubblico. Poi però ci siamo resi conto che al bar viene anche molta gente da sola, quindi stiamo cercando di capire se ci sono dei giochi validi per giocatore singolo, o che almeno possano essere giocati da una persona. Se qualcuno viene da solo, vogliamo che abbia qualcosa da fare”.

Non posso fare a meno di pensare a quante sale arcade esistevano in Italia fino alla fine degli anni Novanta, nelle grandi città e nei luoghi di villeggiatura. Quella che frequentavo più spesso si trovava sotto i portici di piazza De Angeli, zona ovest di Milano; ora, al suo posto c’è un salone di bellezza. Ma lo stesso discorso si potrebbe fare per innumerevoli videoteche, librerie, sale cinematografiche, negozi di dischi e di videogiochi: spazi commerciali, certo, ma anche di aggregazione sociale, perché basati su passioni condivise. Nell’ultimo ventennio sono stati sostituiti da un esercito di non-luoghi asettici e uniformati, dove raramente ci si trattiene oltre il tempo dell’acquisto. Catene di abbigliamento, sale per il gioco d’azzardo, fast food, negozi di telefonia, grandi studi dentistici… attività di questo genere, insomma. Con la progressiva scomparsa dei negozi di prossimità, gli spazi commerciali hanno perso quel senso di confidenza informale su cui si basava la vita di quartiere, e che addolciva l’atmosfera delle botteghe a conduzione familiare. Tra le conseguenze di questa evoluzione – che si aggiunge ad altri fattori derivanti dal sistema economico in cui viviamo – c’è una crescita esplosiva della solitudine. In un articolo di Wired sui chatbot da compagnia, Andrea Daniele Signorelli cita una ricerca della Commissione Europea pubblicata nel luglio del 2021, secondo cui un europeo su quattro dichiara di “sentirsi solo per la maggior parte del tempo”. Nella fascia compresa tra 18 e 25 anni, inoltre, questo dato si quadruplica rispetto a un precedente sondaggio del 2016. La pandemia di Covid ha giocato un ruolo decisivo, ma fra le ragioni “a monte” possiamo rintracciare anche la carenza di luoghi di ritrovo, che stimolavano la socialità e i rapporti interpersonali.

È interessante che gli Stati Uniti stiano reagendo con soluzioni nostalgiche, ovviamente a iniziativa privata: Mark cita in particolare il fenomeno dei Barcade, birrerie che ospitano cabinati da sala giochi e flipper, ma solo classici del passato come Donkey Kong, Tapper, Q*Bert, Galaga, Sega Rally e Time Crisis. Wonderville, in compenso, ha scelto una strada più innovativa. Dal passato ricava il concetto dell’arcade, ma i contenuti che offre sono proiettati nel futuro dell’intrattenimento elettronico. Titoli sperimentali, fieramente indie, pensati per unire le persone: tutto l’opposto rispetto alle utopie (in gran parte già fallite) dei metaversi targati Silicon Valley, che ci vorrebbero fisicamente separati e chiusi ognuno nella propria stanza. Si viene qui per giocare insieme, ma anche per condividere uno spazio alternativo e slegato da logiche autoritarie. Forse non è un caso che alcuni cabinati – come quello di Videofreak 3Si tratta indubbiamente di uno dei giochi più sperimentali di Wonderville: sul piccolo schermo bombato appaiono immagini create da un sintetizzatore video, che il giocatore può manipolare in tempo reale insieme agli effetti audio integrati nella console. Il risultato è una via di mezzo fra Space Invaders, Snake e il cinema astratto delle avanguardie. – riproducano l’estetica di una fanzine punk: Wonderville è un concentrato di arte urbana underground, che prende un prodotto tipicamente industriale e lo trasforma in artigianale. “Fabbricare un arcade non è terribilmente complicato per chiunque abbia esperienza di falegnameria, alla fine si tratta di una scatola” mi dice Mark, che ha costruito da solo circa la metà dei cabinati. Molti di essi sono letteralmente unici, non ne esistono altri esemplari. Giocarci, insomma, è un’esperienza speciale perché non riproducibile altrove: il contrario rispetto alle vecchie sale giochi, dove i titoli più o meno erano sempre gli stessi.
Questo senso di artigianalità, ad esempio, è palese nel cabinato di Icarius Proudbottom’s Typing Party: due normalissime tastiere per computer sono incastonate nella macchina, e i giocatori possono sfidarsi in vari minigiochi che richiedono di digitare le parole a schermo. Anche il sopracitato Videofreak ha l’aria di un arcade che non potrebbe mai essere prodotto in serie, con i suoi graffiti da street art e il monitor a tubo catodico. Ad attirare la mia attenzione, però, è soprattutto Nothing Good Can Come of This, che salta all’occhio per l’essenzialità metafisica della grafica bidimensionale. Due individui (composti da un blocco rettangolare per il corpo e da un quadrato per la testa) si fronteggiano ai lati opposti di uno spazio vuoto, completamente nero. Da un’apertura sul soffitto cadono in terra una pistola e un proiettile, dando inizio alla lotta: i due contendenti si affrontano per impossessarsi dell’arma, e un singolo sparo è sufficiente a uccidere l’avversario. Il primo che s’impone in tre incontri, vince la partita. Lo provo in solitudine per testarne almeno il gameplay, e mi sembra il classico gioco che ha il potere di distruggere amicizie di lunga data, ma anche di purificare vecchi conflitti. A pensarci bene, potrebbe essere una reinterpretazione cecoviana dei picchiaduro a incontri: quella pistola, dal momento in cui appare sullo schermo, prima o poi dovrà pur sparare.

Macchine uniche

Nel momento in cui scrivo, Ken Loach sta presentando The Old Oak al Festival di Cannes. È la storia di un villaggio nel nord-est dell’Inghilterra dove le miniere sono state chiuse, con conseguente abbandono del paese da parte della popolazione: le case vuote vengono quindi messe a disposizione dei profughi siriani che cercano asilo nel Regno Unito, e il proprietario dell’eponimo pub – l’ultimo del villaggio – unisce le forze a una di loro per aiutare le famiglie dei rifugiati.

Intendiamoci, con Wonderville c’entra ben poco, eppure mi colpiscono le parole di Loach. Discutendo del film, il grande regista inglese dice che per favorire la solidarietà “bisogna creare eventi, eventi che portino le persone a unirsi”. A modo loro, credo che Mark e Stephanie abbiano fatto proprio questo. Partendo dal basso, e riappropriandosi di un mezzo che nasce industriale (ma è sempre stato fruito a livello popolare), questa sala arcade ha creato un luogo che spinge la gente a uscire di casa, stare insieme, condividere uno spazio e intrattenersi sia nella convivialità sia nel gioco. Non serve nemmeno premunirsi di costosi gettoni: basta una singola consumazione, e si può giocare quanto si vuole. Mentre i famosi giochi “Tripla A” vengono prodotti da eserciti di programmatori e designer con budget milionari, Wonderville ospita titoli realizzati spesso da una singola persona, o da piccole squadre con risorse limitate. Sono opere che indagano la natura stessa del linguaggio videoludico, riflettendo sulle sue possibilità in rapporto a temi sociali, etnici e politici, come antenne puntate sullo spirito dei tempi; e ci coinvolgono nella loro ricerca, chiedendoci di partecipare in prima persona.

È proprio tale combinazione di hardware artigianale e software indipendente a rendere unici questi arcade, ma Mark – fedele allo spirito di condivisione che anima Wonderville – non intende tenerli tutti per sé. “Stiamo raggiungendo il punto in cui non abbiamo più spazio per ulteriori cabinati” mi racconta durante la nostra chiacchierata. “Quindi, stiamo lavorando a delle partnership con altri bar perché ne ospitino alcuni, e poi magari dopo un anno li facciamo ruotare, in modo che si spostino da un’altra parte. Non abbiamo ancora sviluppato del tutto questo piano, ma potenzialmente, mentre costruiamo nuovi cabinati, avremo bisogno di altri posti che li accolgano. Non voglio metterli in un magazzino, perché ne esiste uno solo di ognuno di loro. Non è il massimo se c’è un unico esemplare e nessuno lo può usare, hai presente?”

Ecco, qui risiede la differenza tra giocare a questi titoli on-line (ammesso che siano disponibili) e fruirli in versione arcade. Essendo il cabinato un oggetto fisico, la relazione che intratteniamo con esso è altrettanto concreta, diretta. Queste macchine hanno bisogno di essere vissute, di consumarsi al contatto con i tasti e le manopole: altrimenti la loro esistenza non ha senso. Nella progressiva virtualizzazione dei contenuti4Non soltanto i software, ma anche il cinema: mentre le piattaforme streaming impongono una fruizione usa e getta, supporti fisici come DVD e Blu-ray ci permettono di sentire molto di più il “peso specifico” del film, agevolando una visione meno disimpegnata., Wonderville è uno degli ultimi baluardi del medium fisico. In fondo, assegnare a un gioco il suo arcade è come dare un corpo a una coscienza immateriale, e Mark sa bene che non può lasciare le sue creature a languire in uno scantinato.

Wonderville, però, ha anche un programma di residenza stagionale: uno dei cabinati ospita infatti un gioco diverso ogni tre mesi, segno che esiste un qualche tipo di rotazione nell’offerta del locale. “Pubblichiamo dei bandi aperti ogni stagione, in primavera, estate, autunno e inverno: gli autori propongono i loro giochi, e poi ne scegliamo uno da mettere in quel cabinato”. Per l’autunno del 2022 è stato selezionato Speglar, ma lo sviluppatore ci teneva ad avere un arcade creato apposta per il suo gioco: così, dopo i consueti tre mesi di residenza è stato costruito un cabinato tabletop specifico per questo titolo, ora disponibile insieme agli altri. “In pratica, stiamo usando quel programma di residenza al fine di scoprire per quali giochi vogliamo costruire dei cabinati” conclude Mark. È la prova che tra queste pareti la sperimentazione non si ferma mai.

Passaggio di testimone

Quando sto per andarmene, una ragazza prende il mio posto davanti al cabinato di Hair Nah. Ha la carnagione scura, un vestito a motivi floreali e una folta pettinatura afro sulla testa. Tiene la borsetta appesa alla spalla mentre agita le mani per costruire il personaggio, nel menù iniziale: seleziona una sfumatura epidermica identica alla sua, e anche la stessa acconciatura. Con pochi gesti, ha creato una perfetta replica digitale di sé stessa. Non appena parte il primo livello, la ragazza comincia a mulinare le braccia per aria, scacciando le mani indiscrete che cercano di toccare il suo avatar. Le basta una manciata di minuti per battere i livelli che avevo faticosamente superato poco prima.

Osservando da fuori, mi rendo conto del curioso rapporto che si instaura con la macchina durante una partita: gli occhi fissi sullo schermo a circa un metro dall’arcade, si stabilisce un contatto molto intimo con il personaggio, soprattutto quando avatar e giocatrice corrispondono. Non posso sapere quali esperienze abbia vissuto questa ragazza – e pretenderlo sarebbe quantomeno arrogante – ma non mi sorprenderebbe se situazioni del genere facessero parte della sua quotidianità. Per lei, Hair Nah potrebbe incarnare l’opposto di ciò che ha rappresentato per me, un maschio bianco con pochi capelli sulla testa: non l’opportunità di calarsi nella prospettiva altrui, ma lo specchio di una realtà concreta, saggiata in prima persona, e quindi un sistema per esorcizzarla. D’altra parte, la stessa Momo Pixel non ha creato il gioco proprio per questo? Come sfogo personale che attinge dalla vita vissuta?

L’immediatezza del videogioco, in tal senso, non ha pari fra le altre forme di espressione. Letteratura e cinema sarebbero capaci di attribuire maggiore complessità al personaggio, ma avrebbero anche bisogno di tempo per inserirlo in un contesto, per costruirci attorno un intreccio; l’immedesimazione arriverebbe solo dopo, come conseguenza di tutto questo. Il videogioco ci costringe invece a immergerci subito nell’azione, facilitando l’empatia o la catarsi, a seconda dei casi. È un processo che si verifica di continuo qui a Wonderville, e diviene tanto più intenso quanto più è condiviso.
Mentre riabbraccio la quiete crepuscolare della Broadway, e il brusio della sala giochi resta confinato dietro la porta d’ingresso, mi rendo contro che un posto del genere poteva nascere solo a Brooklyn. Il borough più popoloso di New York City vive lontano dal glamour di Manhattan, ed è abituato a dare asilo ad artisti, creativi e spatriati di ogni latitudine. È una città nella città che non mendica l’attenzione del mondo, ma preferisce fare da sé, valorizzando l’iniziativa dal basso e la vita di quartiere; o, in altre parole, il senso di comunità. Venire qui ti fa davvero sentire parte di qualcosa, fosse anche per una singola partita.

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