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Un lirismo feroce e fragilissimo, distillato in una prosa che scandaglia gli abissi dell’animo umano e gioca sulle suggestioni del gotico e del macabro, della fantascienza, della distopia, del realismo più estremo: dal fondo di un silenzio nero si levano le macerie e gli scheletri delle vite raccontate da Giovanna Rivero. In Ricomporre amorevoli scheletri la casa editrice gran vìa riunisce quindici racconti – per ciascuno un traduttore diverso – tra i più emblematici della scrittrice boliviana.

La cagna Yerka che mangia i suoi cuccioli; Xavier che torna dallo spazio ed esperisce una solitudine ancora maggiore; la zia Margarita che ha i capelli bianchi e i seni infiammati dalla prolattina; Coronado che non sopravvive a un naufragio, il suo corpo gettato in mare; la signora Keyko che insegna alle detenute a realizzare origami; Gio che cattura una mosca minuscola in una camera ardente e la nasconde in un cammeo. Nei racconti di Rivero i personaggi avanzano sul bilico del sé, si lacerano e si ricompongono; si perdono, si trasformano, esistono e non esistono, forse siamo noi. Sperimentano una «prima morte» ma restano in vita, si avvicinano al crepuscolo di se stessi eppure tendono all’origine, a quell’uovo che è innocenza e principio ma anche negazione (le uova-ovaie di cui Margarita è stata svuotata «affinché non potesse più generare un cucciolo»), abuso (il liquido seminale di frate Joshua), mancanza allegorica (l’uovo al tegamino che Mark non ha potuto mangiare nello spazio e quello contenente una forma di vita sconosciuta che dallo spazio Xavier non è riuscito a portarsi), un dolore scomposto (le uova oblunghe dei serpenti corallo da seppellire in giardino); o quell’uovo che alcuni personaggi provano addirittura a scavalcare:

Dire che mi sarebbe piaciuto ritornare a un punto neutro, neanche alla mia childhood, ma a prima, quando non ero nessuno. Quando “nessuno” significava proprio questo: nessuno.

Una prosa elegantissima traccia le traiettorie di questo andirivieni: i personaggi naufragano dentro e fuori di sé e sono già oltre, al di là, già morti da vivi – «come potrai vivere senza morire?» –  nella dimensione di un presente ormai sfilacciato, corrotto da una memoria deteriorata o ben salda e da un futuro inesistente, lontanissimi e colpevoli, mai una cosa soltanto, ma sempre più d’una. Saulo dice di chiamarsi Pablo, così come la Nadine Ayotchow che si rivolge alla platea forse è la Nadine precedente, quella sbagliata, «il destino che non doveva compiersi»; Gio non vede l’ora che arrivi il momento «di tornare all’altra me» e la ragazza coperta da cicatrici di tagli in un attimo non è più quella appena salita sulla Ford gialla, ma «una nuova ragazza, quella vera, quella sporca».

L’io è scisso ma estremamente elastico, dilatato; abitati da sentimenti violenti, i personaggi si fanno incarnazione di ossimori, contengono sé e il proprio contrario. Per Rivero luce e oscurità si riducono a essere una stessa piega.

E ancora la follia, la disabilità fisica e l’infermità mentale, lo stupro, la disperazione, i vampiri, i fantasmi, gli aborti, madri rinnegate e madri mancate: s’addensa tutto in un dolore profondissimo e in una malinconia talmente intensa da poterla fiutare.

Forse nella mia persona ci sono alcune particelle dell’impulso vitale che spingeva mia zia verso quel precipizio affascinante che possiamo essere noi stessi, la ricerca profonda, la conoscenza pericolosa.

La personale capacità di dialogare con la morte e oltrepassarla è tale per cui il binomio vita-oblio, fil rouge tra i quindici ritratti, collabora alla (in)definizione di un’atmosfera inspessita dall’ambiguo, onirica, rarefatta, che Rivero non spiega, né introduce. A ciò s’aggiunga l’attrazione verso la corporeità in una narrazione scolpita dall’invadenza anatomica, dal brulicare di ossa, visceri, occhi strappati o da cavare, mani, feti, bambini prematuri sepolti, denti, chiazze di sangue, impiccati. L’autrice subisce la fascinazione della frattura e i suoi personaggi, nonostante invischiati nell’impresa della ricomposizione di sé e dei propri traumi, ne sono ammaliati in egual misura.

Se mi guardo intera, mentre recito intera, mi spavento, mi sposto, ci credi che mi fa schifo? In altre parole, esco dal ruolo. Quindi mi guardo a pezzi, a frammenti.

La Pachamama e le meditazioni andine, il futuro visto nelle foglie di coca e la lunga serie di Mamitas, cholas, ayllu tracciano i confini geo-culturali di un corpo più grande, quello di una Bolivia lontanissima di cui si rimette insieme lo scheletro e la memoria.

Tuttavia i resti non sono solo umani. Il ricorso alla sfera animale, e in misura minore a quella vegetale, concorre all’esplicazione della componente ferina, irrazionale, del non detto del genere umano, o subisce talvolta un ribaltamento per il quale gli animali si mostrano recalcitranti nei confronti degli uomini:

Lucía, la gatta, è sempre stata più astuta. Non si fidava troppo degli umani, sospettava che fossimo essere crudeli, nel modo in cui puoi essere crudele quando sei umano. O forse, semplicemente, Lucía percepiva le nostre cuciture, gli errori nei rammendi, le cicatrici sorte dalle nostre paure, e per questo sgattaiolava via tra i vasi di fiori.

Connubio di terrore e bellezza, la scrittura di Rivero sottende una carica seducente finissima che attrae e al contempo repelle, gioca col rimosso, sfrutta paure collettive. Ogni entità è disgiunta, eppure un’armonia remota soggiace al processo di ricomposizione-disintegrazione da cui ciascuno, come da un abisso, è intimamente richiamato. L’eleganza stridente di una scrittura che illumina in certe crepe dell’animo e le riempie di grazia assolve dunque a uno dei compiti della letteratura, riconoscendole la «capacità sublime di una mano santa che cancelli, che restauri, che suturi e comprima e rimargini per il resto dell’eternità ciò che è stato lacerato».

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