«Come ciascuno sa, acqua e meditazione sono sposate per sempre».
Herman Melville. Moby Dick
Spesso sono i piccoli libri a togliere più soddisfazioni al lettore. E i più difficili da recensire. È il caso di Fiumi (Del Vecchio Editore, 2020, tradotto ottimamente da Stefano Musilli), dello scrittore olandese Martin Michael Driessen, che avevo inserito poco tempo fa nei nostri consigli per l’estate. Le 180 pagine che compongono questa raccolta di racconti infatti richiedono un’ampia concentrazione e riflessione, in quanto pregne di simbolismi e un ampio costrutto psicologico dei personaggi.
Per addentrarci nelle sfumature del libro però, occorre inquadrare l’autore. Driessen è uno scrittore di lingua nederlandese, nato a Bloemendaal nei Paesi Bassi, ma di madre tedesca; la sua carriera professionale si snoda prima in Germania come regista teatrale e d’opere liriche, salvo tornare poi in patria per iniziare la sua carriera letteraria. Attualmente vive nella campagna olandese, in una classica woonbooten sopra un fiume (tanto per restare in tema con il libro). La sua prima opera letteraria, Gars, del 1999, ottiene ottime critiche e riconoscimenti, ma la consacrazione europea avviene nel 2012 con Padre di Dio, pubblicato in Italia sempre da Del Vecchio. Driessen viene considerato perlopiù come un writer’s writer, e in patria la sua “collocazione” sulla scena letteraria è alquanto incerta: c’è chi lo considera come la nuova voce della letteratura olandese e ha coniato per lui il termine “Realismo mitico” (ovvero realismo+mitologia), altri invece lo pongono come uno scrittore quasi conservatore e antimodernista. Certamente la scrittura di Driessen richiama una classicità tipica dei drammi teatrali, il suo stile è sicuramente di stampo tradizionale, ma questa sensazione di epopea classica si mescola a sfumature sia liriche che ironiche. Detto questo, Fiumi può essere considerato pacificamente come una summa di tutti i temi trattati in precedenza dal suo autore. Analizziamo quindi le varie storie che compongono la raccolta.
Man vs. Nature
I tre racconti che compongono il libro sono ambientati in diversi momenti storici tra Olanda, Francia del Nord e Germania. Tutte e tre le storie hanno un fiume come comune denominatore, che non fa solo da sfondo alla trama ma orienta anche le scelte dei personaggi. Queste poggiano essenzialmente su un delicato equilibrio fra due ossimori: quello fra mito e modernità e quello tra Natura e Uomo.
Esemplificativa in questo è la prima storia, Fleuve Savauge, quella più corta della raccolta, ma anche la più psicologica. Il protagonista è un attore di teatro fallito, alle prese con i demoni dell’alcolismo. Quest’ultimo intraprende un viaggio in canoa sull’Aisne, nelle Ardenne, nel tentativo di smettere di bere e riabilitarsi alla sua famiglia. Questo viaggio viene descritto come «un ritorno alle origini […] ecco il senso della vita nella natura». Qui tastiamo subito la natura crudele del fiume, che non lascia intravedere alcuna possibilità di redenzione. La scena chiave è quella relativa ad una bottiglia di whisky che il protagonista getta nelle acque del fiume, salvo ritrovarsela di nuovo davanti poco dopo, trasportata dalla corrente. E’ il primo segno che la natura è dignitaria del destino dell’uomo, che sembra non poter avvalersi del cosiddetto libero arbitrio.
In questa scena il narratore onnisciente evoca subito il mito: «…si sentì come il cavaliere che aveva gettato in acqua Excalibur[…] un dono degli dei del fiume». Per chi non lo ricordasse, Artù, ferito a morte, ordinò a Sir Bedivere di gettare la spada nel lago di Avalon, al cospetto della Dama del Lago. Un’usanza che deriva a sua volta dalla tradizione celtica, secondo la quale una spada poteva essere gettata nel lago come dono votivo alle divinità o ninfe dell’acqua, come conferma lo stesso Driessen: «il mito, o meglio la formazione del mito, gioca un ruolo assoluto in questa storia, anche duplice, ma subordinato al caso di studio psicologico descritto in modo realistico». L’autore precisa poi che il protagonista «è distrutto dalla sua personalità distruttiva e autodistruttiva, non dalla natura opprimente».
Non meno importante è la trasfigurazione del protagonista con la tragedia shakesperiana: la sua ambizione è poter recitare come attore nel ruolo di Macbeth, mentre nella realtà la parte assegnatagli dalla sua compagnia teatrale è quella di Banquo. Nel suo peregrinare lungo il fiume i suoi pensieri ruotano sempre di più alla figura drammatica del re scozzese, e questo scollamento fra realtà e fantasia genererà una crisi d’identità sempre più inquietante, fino all’epilogo dal fascino drammatico e comico allo stesso tempo.
La capacità dello scrittore olandese è creare un racconto strutturato su più livelli, senza rinunciare al suo stile asciutto e minimalista.
Down to the river
«Siede arbitro il Caos, e con le sue decisioni raddoppia ancora il contrasto per il quale regna; a lui presso governa supremo il Caso». John Milton, Paradiso Perduto
Nella storia successiva, Il viaggio per la Luna, questo impianto viene ampliato ancora di più. La storia è un’epopea avventurosa con al centro due uomini di diversa estrazione sociale. Entrambi si occupano della fluitazione del legname, nel sud della Germania. Julius, figlio dell’impresario di zona, è uno studente di liceo mentre l’altro, Konrad, è un giovane zatteriere che lavora a giornata. I due sono amici ma per molti aspetti sono estranei fra loro, non si conoscono affatto. E man mano che crescono la forbice che divide le loro due personalità si amplia. Qui la metafora del fiume gioca su tre livelli: questo viaggio fluviale simboleggia lo scorrere della storia (europea, dalla fine dell’Ottocento all’inizio Terzo Reich), come metafora delle fasi della vita umana (il viaggio in zattera che inizia dalla sorgente per arrivare fino al mare), e nel senso più ampio come allegoria del flusso della vita. Sia Konrad che Julius hanno un forte desiderio di liberarsi dal loro mondo tradizionale ed emanciparsi. Durante il racconto però, mentre Julius si rivelerà abile a seguire la logica della modernizzazione, Konrad non riuscirà mai a compiere un cambio di paradigma rispetto al suo background («le macchine non fanno per te» afferma candidamente il capo di Konrad). Il mondo attorno a loro si avvia verso un nuovo momento storico, «la barbara avanguardia della nuova era» per citare il narratore, ed è l’inizio di un’epoca fatta di violenza (le guerre mondiali) e la fine del mondo puro e incontaminato di Konrad.
«Finita questa guerra, il mondo non tornerà più com’era» disse [Julius] qualche minuto dopo.
«Parli dei rimorchiatori a vapore?» chiese Konrad, non prima di averci pensato un po’.
«Anche di quelli» rispose Julius…
Questo sensazione di “paradiso perduto”, assieme alla “corruzione degli animi” viene in parte confermata dal personaggio di Evchen, una ragazza allevatrice d’oche di cui è innamorato Konrad, che si allontana dalla apparente quiete del villaggio per ritrovarla poi a qualche pagina dopo in un malfamato bordello. Qui però c’è un elemento che smentisce in parte questo costrutto: Evchen infatti viene seviziata anche prima dagli abitanti del villaggio («Konrad deduceva che l’avevano posseduta grosso modo tutti gli uomini del paese»). Dunque anche nell’illusoria vita “tranquilla” di provincia si può riscontrare un senso di oppressione e un ambiente ricco di violenza, sebbene più rassicurante della vita “moderna”.
Un caos universale e disordinato, verrebbe da dire. Qui Driessen tematizza una sorta di incapacità maschile verso i tempi moderni, ma non solo. La stessa incapacità dell’uomo verso la figura femminile è rappresentata in tutti e tre i racconti. I personaggi femminili, anche se nei primi due racconti appaiono sporadicamente (nel primo c’è una contadina che trova l’attore ubriaco riverso sull’argine del fiume, nel secondo Evchen), producono una sorta di effetto specchio per i protagonisti maschili, ovvero entrambi sono incapaci di trovare soluzioni al destino beffardo, il famoso libero arbitrio di cui sopra. Proprio come alla fine del precedente racconto, il mito e la realtà sembrano fondersi di nuovo. Questo cortocircuito fa in modo che sia il zatteriere Konrad che il borghese Julius riconoscano solo nel fiume la loro raison d’être. «Era uno zatteriere e faceva lo stesso lavoro di persone prima di lui; non c’era poi niente di così speciale, ma sapeva che non avrebbe mai potuto provare una felicità maggiore di quella» sottolinea il narratore a proposito di Konrad. Il racconto si conclude così nel segno dell’incomunicabilità e del mancato cambiamento. Seppure Konrad e Julius hanno vite diverse e estrazione diversa, vivono la medesima situazione di precarietà, in termini di affetti e possibilità di immaginare un futuro più roseo.
Il mito dell’Eterno Ritorno
«L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!» F. Nietzsche, La gaia scienza
«Il mito della periodicità ciclica, cioè dell’eterno ritorno[…] Questi orientamenti trascurano non soltanto lo storicismo, ma anche la storia in quanto tale. Riteniamo che sia fondato scoprire in essi, più che una resistenza alla storia, una rivolta contro il tempo storico, un tentativo per reintegrare questo tempo storico, carico di esperienza umana, nel tempo cosmico, ciclico e infinito. In ogni caso vale la pena di sottolineare che l’opera di due dei più significativi scrittori del nostro tempo – T. S. Eliot e James Joyce – è percorsa, in tutta la sua profondità, dalla nostalgia del mito dell’eterna ripetizione e, in fin dei conti, dell’abolizione del tempo».
Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizioni
Seguendo questo schema, sembrerebbe non esserci scampo a questa spada di Damocle che affligge tutti i personaggi nei primi due racconti. Driessen sembrerebbe far propria «l’idea che la Vita non può essere riparata, ma soltanto ricreata», come afferma Mircea Eliade nel suo Il mito dell’Eterno Ritorno. Ma nell’ultimo racconto, Pierre e Adèle, Driessen mescola ancora le carte in tavola.
In Francia, due famiglie si scontrano da secoli per un appezzamento di terra diviso a metà da un torrente. Qui il fiume impersona una netta separazione non solo a livello fisico, ma anche di vedute delle due famiglie. Questa disputa assume infatti toni religiosi: da un lato troviamo il protestante Corbé, dall’altro i coniugi Chrétien, Adèle e Corentin, cattolici. Qui il mito dell’eterno ritorno viene rappresentato dai numerosi riferimenti biblici del testo, che i personaggi usano come ritengono opportuno per aiutare a plasmare la loro realtà: «La sola idea che aveva di sè era legata al suo ruolo nell’ordine delle cose per come glielo aveva insegnato la Bibbia». Nel frattempo, Corentin si rivela essere un (altro) alcolista violento e sua moglie Adèle prova solo repulsione per lui. A suffragare questo ci sono statue raffiguranti la Madonna che simboleggiano quasi una femminilità paralizzata dalla religione patriarcale.
«Siamo nel XX secolo, a Versailles si lavora a un trattato di pace che bandirà la guerra dal mondo una volta per tutte, e queste famiglie tramandano la loro faida di padre in figlio. Il sonno della ragione genera mostri» afferma l’avvocato ebreo Salomon (anche qui riferimento tutt’altro che casuale), chiamato come mediatore della disputa in corso. Si prefigurerebbe dunque un esito violento della disputa (che in parte avviene), con le due fazioni che non rinunciano ai propri prìncipi e alla propria tradizione. Invece nel finale assistiamo ad una vera e propria catarsi, che rispecchia il sottotitolo del racconto, tratto dal Flauto Magico di Mozart, «Sarà purificato dal Fuoco, dall’Acqua, dall’Aria e dalla Terra». Come l’opera appena citata, la storia mescola l’opera seria, quella buffa, le rappresentazioni sacre, finendo così per essere anche un’opera romantica, dove il capovolgimento di prospettiva nel ruolo dei buoni e dei malvagi viene suggellato dal perdono finale. Il “potere” del fiume come carnefice o simbolo di confini non attraversabili per l’uomo viene infranto; si assiste invece ad un trionfo della capacità umana di superare i pregiudizi.
«Pierre somigliava a un peccatore del grottesco mondo di Gustave Dorè, che tornava sulla scena di un crimine di cui lui stesso era vittima per porvi rimedio», si legge nell’ultima storia. La parte sorprendente di Fiumi è proprio questa continua esplorazione del lato “primitivo” e selvaggio dell’uomo, che non porta necessariamente ad un’evoluzione in termini di trama o del personaggio. Driessen fonde il mito con allusioni alla letteratura, al teatro, all’arte e alla musica e i suoi racconti sono come una lama di coltello: la bellezza sta nel cogliere la profondità di ogni racconto tra le sue pieghe e stratificazioni. Sembra di essere nei Los desastres de la guerra di Goya. Come il pittore spagnolo, l’abilità di Driessen sta nel creare una serie di incisioni per testimoniare, o denunciare, la brutalità dell’uomo e il fallimento delle idee di libertà.
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