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Le Marche descritte nelle bucolicheggianti pagine in apertura a Noi non abbiamo colpa (minimum fax, 16 euro) di Marta Zura-Puntaroni possono essere lette come una ridente Hobbiville oppure come il set ideale per uno spin-off di Le colline hanno gli occhi, a seconda del punto di vista. Se come la nuova brigata neorealista avete in disdoro la città mannara (a trovarla poi) coi suoi supermercati sempre aperti h24 per le dirette dal carrello dei Ferragnez, forse vi ci trovereste bene. Viceversa se vi inquietate al leggere «i nostri olivi e le nostre vigne» o «le lunghe strade di breccia che gelano e bloccano ogni passaggio per giorni» magari vi conviene svicolare altrove e cercare un caffè col wi-fi, sperando che prima o poi si diffondano anche da noi. Ma se «Pesaro è una donna intelligente» come diceva quello, di recente le Marche sono passate ai discutibili onori della cronaca soprattutto perché in una botta di nostalgia per la lira e i bei tempi che furono hanno eletto il luogotenente di Himmler. Qualche tempo prima invece un sosia di Fred Durst col pizzetto a mosca era andato full on vigilante mode-on sparando su chiunque avesse una pigmentazione più scura della sua.

Ora, Goffredo Fofi non più tardi di qualche settimana fa incoronava su Internazionale Alessio Torino, ultimo discendente di una lunga schiatta di scrittori marchigiani che – senza scomodare i monumenti – va da Volponi fino a Silvia Ballestra, come «miglior scrittore della sua generazione» tout court. E se Torino aveva intitolato uno dei suoi libri Urbino, Nebraska, le Marche di Zura-Puntaroni sono più un Ohio dell’anima, una contea rossa che guarda con malcelato rincrescimento e una qualche invidia al puntino blu della città. Un viaggio in questa quieta Rust Belt condotto con la «passione per la rovina e la rivalsa» è quello che ci attende leggendo Noi non abbiamo colpa.

Ma fermiamoci qui. Il rischio è che, parafrasando un passaggio del libro, il racconto possa trasformare la realtà in parabola, dando «peso e forma a una suggestione». I fatti anzitutto: Marta, questo il nome della protagonista e della scrittrice, è tornata alla casa di famiglia, al paese. Arriva come una riservista in soccorso alla madre Antea. Gli artisti aspirazionali e le pose cittadine l’hanno fiaccata: «Ho ascoltato questo discorso a un aperitivo in città, era uno di quei discorsi oziosi che fanno i mezzi filosofi della mia età per cercare di scopare quelle come me». È a un punto di svolta della sua traiettoria esistenziale: «a trent’anni si dovrebbe stare al punto centrale della trinità bambina-donna-vecchia», e invece la catena delle generazioni sembra essersi ingrippata. Al paese le amiche si sposano e figliano ma la protagonista ha optato per la carriera, la città, una vita lontana chilometri dalla quale è bruscamente richiamata in servizio. A tutta prima parrebbe un addomesticamento delle ambizioni, tra l’altro irrilevanti nel grande flusso della Storia che al massimo lambisce la provincia, irraggiungibile dal campo degli eventi che segnano le epoche. In attesa del 5G, ecco l’abbandono di ogni velleità, il ripiegamento, un sommesso alzare bandiera bianca per ritrovarsi lì dove tutto rimane sempre uguale a se stesso nella sua imperturbabile ripetizione, l’abbracciare la ritirata nella dimensione delle relazioni di prossimità anziché quelle di elezione.

Marta è tornata alla presunta autenticità del borgo natìo per «badare alla badante, che bada alla badata». La scusa regge poco, sembra campata in aria, quasi una giustificazione per non aver fatto i compiti a casa: Sta male la nonna. Eppure, a detta sua è proprio quello il motivo di questo ritorno: la scorbutica nonna Carlantonia, dalla memoria di ferro per i torti e gli sgarbi subìti o immaginati, che d’improvviso si ritrova senza ricordi e va accudita come fosse tornata bambina. Dacché era capacissima di risalire la lunga sequenza di buffi accumulati dalle varie generazioni di ciascun paesano, oggi, come il proverbiale irlandese, ha scordato tutto fuorché il grudge. E però forse il terreno è più scivoloso e accidentato di così e la «nonna personaggio complesso e tormentato, ma senza alcun fascino» davvero è solo una scusa di comodo per questa trentenne in fuga.

La placidità inscalfibile del paesello – una piazza, tre piscine e tre bar di cui solo uno agibile – è anche l’occasione di interrogare i propri comfort e privilegi. Marta non si sottrae e metodicamente ragiona sulla lunga sequenza di badanti provenienti da qualsiasi paese sottosviluppato che si devono accollare il ben gramo compito di stare dietro alla riottosa nonna. Un ruolo a cui quasi tutto è preferibile, perfino la prostituzione, almeno a dar retta ai legittimi pensieri in libertà della madre Antea e della figlia Marta. E se in questo settore – in perenne espansione nel terzo paese per aspettativa di vita al mondo – esiste una sindrome Italia che colpisce le badanti (perché sono tutte o quasi donne; la cura è ancora un mestiere femminile), allora ne deve corrispondere di rimando un’altra di sindrome che sembra toccare i datori di lavoro. First world problem, si direbbe. Ma sottile si insinua una dipendenza da badanti che entrano nelle nostre vite, che leggono Tolstoj e ci fanno sentire in colpa, che si dànno alla macchia spaventate dopo il terremoto, che campano mariti e figli di rimesse, poi si organizzano e acchittano un’impresa con furgoni carichi di altre signore che vanno e vengono dall’Est Europa. Donne che quotidianamente ci mettono di fronte alla nostra possibilità di comprare il loro tempo per barattarlo col tempo di qualcuno a cui manca giusto qualche strappo di calendario.

Noi non abbiamo colpa recita la dichiarazione d’innocenza del titolo, e la narrazione che si srotola in un luogo di alibi e accuse confortevoli è anche teatro del più classico dei cautionary tale: la compagna delle medie Sonia si fa di eroina perché il professore di inglese non ha avuto pietà del suo lutto e l’ha interrogata lo stesso. Ma per fortuna le dicerie – altro grande topos del borgo – sono fatte per esser sbugiardate e tutto è salutarmente più complicato di così. Il paese però è anche una canzone immonda che riaffiora sulle labbra e che ci dice quanto di osceno sia seppellito non poi tanto a fondo dentro di noi, nel nostro passato. Marta, questa voce con la quale si entra così facilmente in sintonia, ha il merito di non esorcizzarlo, ma neppure si prende la briga di sondare questo abisso. Lo registra, e basta. Senza sociologie e paternalismi. Rimane, ciò nondimeno, la sensazione di una strisciante assoluzione collettiva, una rassegnata accettazione del presente e del futuro. È la stessa Marta a spiegarcelo: «Cerco di aiutare mia madre nell’unica maniera che conosco, fingendo che nulla dipenda veramente da noi, che nonostante le nostre decisioni, nonostante i nostri tentativi, la nostra illusione di indirizzare la vita verso il punto che vogliamo raggiungere attraverso le scelte che compiamo è tutto già scritto in maniera indelebile, non modificabile».

Nel romanzo – se di romanzo si tratta – non mancano la manutenzione degli affetti, per dirla con Pascale, le attenuanti e le aggravanti sentimentali, per ridirla con Pascale. Si sarà capito, cauterizzare e circoscrivere la ferita e il dolore pare la preoccupazione di queste pagine. In un momento storico in cui fare i conti con la finitudine propria e di chi ci è accanto sembra sempre più difficile, il libro ha il pregio affatto trascurabile di non aggirare la questione; e quale posto migliore per affrontare la morte che non la provincia italiana con le sue domeniche, le sue nonne, i letti dove sono morti i bisnonni, i ninnoli, i pranzi col bis dai quali non ci si può alzare mai. E poi polo col colletto alzato, gratta-e-vinci, sigarette col click (ho dovuto googlare) e fatture nel senso di sortilegi e malocchi, non quelle che arrivano sulle pec. «Mi conforta l’idea di essere fatta di cellule del paese, cellule delle Marche» ammette da subito la voce narrante. Una provinciatopia? Forse. Ci piacerebbe vederne il rovescio.

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