Per farsi un’idea dell’importanza di Ragazza, donna, altro – uno dei titoli di maggior successo del 2019 nel mercato anglofono e adesso pubblicato in Italia da SUR nella traduzione di Martina Testa – basta elencare una minima parte dei riconoscimenti che ha ottenuto: vincitore del Booker Prize (prima vittoria di una donna nera nella storia del premio), fra i libri che hanno definito il decennio per «Guardian» e «Sunday Times» e nei dieci migliori libri dell’anno per «New Yorker» e «Washington Post». La firma è di Bernardine Evaristo, scrittrice inglese che ha alle spalle altri sette romanzi e una gloriosa carriera come critica e attivista per l’inclusività, non solo in campo letterario.
Nelle sue opere, Evaristo si è concentrata di volta in volta su coordinate diverse di spazio e tempo e su diversi punti di vista per raccontare la diaspora africana, proponendo un’alternativa a un’idea dominante di letteratura che si è sempre rivolta solo a una fetta della popolazione e ha escluso tutte le altre: «perché Wordsworth o Whitman, T.S. Eliot o Ted Hughes dovrebbero significare qualcosa per noi dei Caraibi?», si chiede uno dei personaggi del suo ultimo romanzo. La domanda potrebbe sembrare una provocazione da non prendere sul serio, soprattutto quando ad averla scritta è un’accademica affermata come Evaristo, formata e premiata nelle migliori università inglesi, membro dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico e prima persona di colore ad assumere il ruolo di Vice Chair nella Royal Society of Literature; è invece proprio a partire da questo dato, ovvero dalla necessità di cercare l’autorevolezza di una fonte nei riconoscimenti di istituzioni storicamente razziste e sessiste[1], che dovrebbe partire una riflessione più drastica: quanto a lungo dovremo ancora dare credito a un canone che esclude la maggior parte della popolazione mondiale dal discorso letterario?
Ragazza, donna, altro è un romanzo caleidoscopico, composto da dodici storie organizzate in quattro macro-capitoli, ognuno dei quali segue tre protagoniste, quasi tutte donne nere, le cui vite sono in qualche modo intrecciate. Il primo personaggio che ci viene presentato, e sotto molti aspetti uno dei più interessanti, è Amma, una regista e autrice di teatro che dopo un percorso brillante ma relegato ai circuiti minori è riuscita a portare il suo nuovo spettacolo, L’ultima amazzone del Dahomey, al National Theatre di Londra. L’affinità fra Evaristo e questa artista che lotta per la propria inclusione è evidente: oltre ad avere un passato nel mondo del teatro, la scrittrice ha fondato nei primi anni ’80 il Theatre of Black Women, la prima compagnia teatrale inglese composta da sole donne nere. L’importanza di Amma, però, più che nel paragone con la sua creatrice, sta nel modo in cui la sua storia connette le parti della trama: almeno una fra le tre protagoniste di ogni capitolo, per vie dirette o traverse, finirà per assistere al debutto dell’Ultima amazzone del Dahomey – un appuntamento che avvolge il romanzo e lo tiene legato insieme.
La struttura complessa non impedisce al testo di scorrere in modo semplice ed elegante e risultare estremamente accessibile. Evaristo sfoggia una grande capacità di adattamento e modula il racconto delle varie storie attraverso differenze sottili, quasi impercettibili, nell’oggetto della sua attenzione più che nel linguaggio: lo scarto fra un capitolo e quello successivo, fatte poche eccezioni, non riguarda la voce narrante – che essendo quasi sempre una terza persona non ha bisogno di una continua ricalibratura del registro – ma temi e dettagli a cui viene dato spazio. Quando la protagonista è una studentessa universitaria, i personaggi secondari sono presentati attraverso le loro opinioni politiche; quando il testimone passa a una dirigente bancaria che ha faticato per la propria carriera, le differenze economiche e in particolare l’accessibilità dell’istruzione di alto livello diventano centrali. Lo stile è lo stesso; la materia si assesta su pensieri e sogni della protagonista in scena.
Tra le fonti di ispirazione dichiarate dall’autrice, la più rilevante è For Colored Girls Who Have Considered Suicide/When the Rainbow Is Enuf, opera teatrale della scrittrice e poetessa Ntozake Shange, in cui sette donne nere si alternano sul palco per descrivere la propria esperienza di oppressione subita in una società razzista e sessista. Ragazza, donna, altro non si allontana molto nella forma da questo precedente, e trova nuova linfa raccontando storie diverse e aggiornando il discorso di quarant’anni (l’opera di Shange è del ’76). Il romanzo è abitato da uno sforzo costante, una lotta non solo per la sopravvivenza ma per qualcosa di più, per affermare che la sopravvivenza non è e non dovrebbe essere abbastanza. Le protagoniste si diversificano per cultura, orientamenti politici e sessuali, fede, identità di genere, classe sociale, istruzione, aspirazioni e generazione, e le loro vite sono addensate in poche pagine per farci percepire la portata di un movimento ampio, di una rinascita che non può essere capita senza il suo contesto. E forse questo è il concetto più simbolico del romanzo: il fatto che ogni passo avanti, ogni cambiamento positivo, ogni presa di coscienza e pretesa di diritti da parte delle protagoniste vengano percepiti come una seconda nascita – se razza, sesso e contesto sociale sono fattori che sfuggono al controllo degli individui e li condannano a un’esistenza più difficile fin dal primo momento della loro vita, rinascere è il modo migliore per autodeterminarsi.
Ragazza, donna, altro è un’opera che riesce ad avere una visione politica decisa senza forzare lo sguardo del lettore. Qualsiasi posizione viene messa in dubbio. Tutte le protagoniste hanno dei difetti; spesso invidiano chi supera per primo i loro stessi ostacoli, o assumono atteggiamenti umanamente ipocriti o superficiali. I loro oppressori, per quanto spregevoli, non sono mai piatti o ridotti al ruolo di antagonista. Per ogni situazione di cui crediamo di avere una lettura risolutiva ci viene fornito un secondo punto di vista che scardina le nostre sicurezze e questa caratteristica, insieme a una straordinaria capacità di costruire personaggi con cui è facile empatizzare, rende Evaristo un’infallibile creatrice di mondi.
«io glielo dico a mamma che ha sposato un patriarca
mettiamola così Amma, fa lei, tuo padre è nato maschio in Ghana negli anni Venti mentre tu
sei nata femmina a Londra negli anni Sessanta
e con questo che vorresti dire?
non puoi davvero aspettarti che ti «capisca», come dici tu
io le spiego che sta prendendo le difese del patriarcato ed è complice di un sistema che
opprime tutte le donne
lei mi dice che gli esseri umani sono complicati
io le dico di non farmi la predica»
Se si guarda ai personaggi con una prospettiva intersezionalista, ci fa notare l’autrice, tempo e spazio sono fattori da prendere in considerazione tanto quanto classe, razza e sesso. Il gap generazionale che viene messo in scena non riguarda solo la differenza di opportunità, ma anche una diversa consapevolezza. Se Grace, cresciuta in un orfanotrofio all’inizio del Novecento, deve sentirsi dire che «avere troppa personalità non sta bene, per le ragazze», Morgan, nata Megan negli anni ’90, è «l’unico punto cieco di sua madre, che per il resto era una donna di ampie vedute». Con una dose impressionante di precisione, lucidità e chiarezza, Evaristo descrive in modo credibile la propria generazione, quelle precedenti e quelle successive, passando con disinvoltura dalla Nigeria di metà Novecento alla Londra degli anni ’80, dagli orfanotrofi dickensiani ai caffè universitari contemporanei.
«sì ma io sono nera, Court, e questo mi rende più oppressa di tutti quelli che non lo sono,
tranne Waris che è la più oppressa di tutti (ma tu questo non glielo dire)
in base a cinque categorie: nera, musulmana, donna, povera e col velo
è l’unica a cui Yazz non può dire che è una privilegiata
Courtney ha risposto che Roxane Gay ci ha messo in guardia contro il rischio di imbarcarci
nelle «Olimpiadi del privilegio» e in Bad Feminist ha scritto che il privilegio è relativo e dipende
dal contesto, e io sono d’accordo, Yazz, altrimenti dove ci fermiamo? Obama è meno
privilegiato di un ragazzino bianco di provincia che cresce in una roulotte con una madre
single tossica e un padre che è un avanzo di galera? una persona con una disabilità grave è
più privilegiata di un richiedente asilo siriano che ha subito delle torture? Roxane dice che
dobbiamo trovare un modo nuovo per parlare di diseguaglianza
Yazz non sa cosa dire, quand’è che Court ha letto Roxane Gay – che numero pazzesco ha
fatto
è o non è stato uno di quei momenti in cui l’allieva supera la maestra?»
Già al suo esordio (Lara, 1997) Evaristo aveva sperimentato l’uso del verso in un romanzo, per poi applicarlo nuovamente in alcuni dei suoi testi successivi. In Ragazza, donna, altro la tecnica è gestita con esperienza; le pause imposte dagli a capo le concedono un maggiore controllo del ritmo e rafforzano il flusso della prosa. Lontane dall’essere mere sostitute del punto, le spezzature isolano le parti di testo e ne mettono in risalto la funzione: l’autrice le usa per segnalare i dialoghi, per sottolineare le anafore, per separare le subordinate dei periodi più articolati e facilitarne la lettura, per ritardare un’informazione e farci riflettere sugli esiti possibili di una frase («disse/nella sua testa»), per enfatizzare un dettaglio («non era riuscito/a fermarsi») o per scomporre singole parole («dis/ancorata», «dis/fatta»). In questo romanzo elaborato ma leggibilissimo, la forma è curata per facilitare la catarsi, mai per esibizionismo.
Meno efficace è l’espediente narrativo che sembrerebbe dover tenere insieme il tutto. In effetti, la prima dello spettacolo di Amma non occupa davvero questo ruolo; è un fiocco che abbellisce l’opera, più che una forza aggregante. Qualsiasi lettore che abbia familiarità con la forma racconto[2] si accorgerà che i dodici tasselli di Ragazza, donna, altro racconti non sono, e che per quanto apparentemente slegati hanno bisogno l’uno dell’altro per intrecciarsi e connettersi fino ad acquisire un significato più profondo. Ciononostante, il romanzo è privo di una vera trama orizzontale, e questa mancanza inizia a farsi sentire nella seconda metà del testo, che pur essendo godibile ed emozionante quanto la prima non riesce del tutto a dare al lettore la sensazione di avvicinarsi a un finale. È un sacrificio consapevole, non un difetto di esecuzione, la conseguenza inevitabile di una scelta precisa, motivata da uno scopo più alto.
La pluralità dei punti di vista ribadisce che un singolo esempio non basta a restituire la complessità dell’esperienza di una donna nera, e che quelli che potrebbero sembrare casi isolati sono in realtà comportamenti diffusi, modelli di oppressione applicati quotidianamente in qualsiasi parte del mondo. Le protagoniste di Ragazza, donna, altro affrontano declinazioni diverse dello stesso problema, ed è qui la vera unità del romanzo: non in un afterparty che riunisce sconosciuti, non nel dna in comune, ma nella comprensione reciproca, nella lotta condivisa, in quello che succede quando due persone si incontrano e si rendono conto che forse, per la prima volta nella loro vita, hanno di fronte qualcuno che può capirle.
«le ha ascoltate discutere di cosa voleva dire essere una donna nera
di cosa voleva dire essere femminista quando le organizzazioni femministe bianche le
facevano sentire sgradite
di che effetto faceva sentirsi chiamare negre, o essere picchiate da delinquenti razzisti
di che effetto faceva quando i bianchi aprivano la porta o cedevano il posto sui mezzi alle
donne bianche (il che era sessista) ma non a loro (il che era razzista)
Amma si immedesimava in quelle esperienze, ha cominciato a unirsi al coro di: è vero sorella,
ci siamo passate tutte sorella
le è sembrato di trovare riparo dal freddo»
[1] A qualcuno potrebbe venir voglia di obiettare che, se tali istituzioni sono così brutte e cattive, allora chi le contesta dovrebbe rifiutarne i riconoscimenti. La risposta più semplice credo abbia a che fare col fatto che questi riconoscimenti sono uno strumento fondamentale per riuscire ad avere anche solo la possibilità di combattere per un cambiamento. La risposta complessa implica un dubbio più intimo: è possibile accettare il proprio successo se arriva (dopo una lunga attesa) da una sistema eufemisticamente definibile come imperfetto? Forse sì, ma vale la pena di continuare a farsi questa domanda, se non altro per tenere a mente che un riconoscimento limitato e in ritardo non è un rimedio a tutti i riconoscimenti mancati; e infatti Evaristo, già alla seconda pagina di Ragazza, donna, altro, dimostra di essersi posta il problema (e la soluzione è implicita – e neanche troppo – nel terzo verso): «Amma ha passato interi decenni nella nicchia, da ribelle, a lanciare bombe a mano contro l’establishment che la escludeva/finché il mainstream non ha cominciato ad assorbire ciò che un tempo veniva considerato estremo, e lei si è ritrovata a sperare di entrarci/cosa che è successa solo tre anni fa quando alla guida del National Theatre è arrivato il primo direttore artistico donna».
[2] E quindi, aggiungerei, qualsiasi lettore degno di questo nome.
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