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Luke Rhinehart è morto. Era già successo sette anni fa, il 1 agosto 2012, quando in una mail inviata ad alcuni amici e conoscenti aveva annunciato così la sua dipartita: «È nostro piacere informarvi che Luke Rhinehart è deceduto». Ed era successo di nuovo anche l’anno scorso, il 4 maggio. In quell’occasione aveva diffuso il necrologio sul suo profilo Facebook. Stesso incipit, ma in più un dettaglio che poteva ingannare persino chi conosceva bene il suo grande senso dell’umorismo: un cancro alla prostata diagnosticato nel 2015. «Mi piace annunciare la mia morte ogni quattro o cinque anni per riprendere contatto con i vecchi amici», aveva scritto in un commento dopo aver confessato lo scherzo. «Se non ricevete un altro annuncio della mia scomparsa nei prossimi quattro anni, probabilmente significa che sono morto». Un’altra comunicazione è arrivata qualche settimana fa, ma stavolta a firmarla è stato un nipote, e purtroppo è tutto vero: Luke Rhinehart non c’è più. Se n’è andato il 6 novembre, a pochi giorni dal suo ottantottesimo compleanno, e così anche George Powers Cockcroft, lo scrittore che si celava dietro di lui.

Quando, nel 1969, George consegnò un manoscritto contenente alcuni capitoli dell’Uomo dei dadi nelle mani di Mike Franklin, un giovane editore britannico in vacanza a Maiorca, non poteva immaginare neanche lontanamente tutto quello che sarebbe accaduto dopo. Allora era un trentasettenne professore di inglese con un dottorato in letteratura americana alla Columbia University, si era trasferito alle Baleari con la moglie Ann e i tre figli per insegnare nell’ambito di un programma internazionale. Era un ragazzone alto, con un paio di folti baffi e un naso prominente, amava andare in barca, si interessava allo Zen, al sufismo, alla psicologia. Ma soprattutto scriveva.
Il giovane editore rimase folgorato dai primi capitoli dell’Uomo dei dadi, tanto che lo definì «quasi un capolavoro» e decise di acquistarne subito i diritti. Grazie a un cospicuo anticipo Cockroft poté restare a Maiorca per terminare il libro, che uscì prima in Gran Bretagna e nel 1971 anche negli Stati Uniti. Sulla copertina americana, sotto il nome dello sconosciuto autore-protagonista, Luke Rhinehart, campeggiava una frase un po’ kitsch: «Pochi romanzi possono cambiarti la vita. Questo lo farà». Di sicuro la vita cambiò a George Cockroft. Un anno più tardi la Paramount Pictures Corporation sborsò una cifra considerevole per un’opzione sui diritti cinematografici, permettendo alla famiglia di continuare a viaggiare fino alla metà degli anni Settanta. George lasciò l’insegnamento per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.

Negli Stati Uniti L’uomo dei dadi non ebbe un riscontro immediato, ma a poco a poco diventò un libro-culto, e in gran parte ciò fu dovuto a una formidabile operazione di marketing editoriale: molti lettori si convinsero che Luke Rhinehart esistesse per davvero e pensavano di avere tra le mani nientedimeno che la sua rocambolesca autobiografia. Cockcroft cavalcò l’onda, rilasciando interviste come se fosse Rhinehart, e non rivelò quasi a nessuno il suo sdoppiamento.
Nel romanzo Luke è uno stimato psichiatra newyorkese alle prese con un’improvvisa crisi d’identità. Ha due figli adorabili, sua moglie Lilian è splendida, abita in una zona «costosa ma non proprio, vicino a Central Park, al confine con la terra dei neri e con l’elegante Upper East Side», in un appartamento di sei stanze la cui collocazione è così ambigua che i suoi amici non sanno se invidiarlo o commiserarlo. Le sue giornate si somigliano tutte: i fugaci rapporti sessuali con sua moglie al risveglio; le sedute con i pazienti nello studio che condivide con l’amico-rivale Jake Ecstein, un giovane psicanalista brillante che abita al piano di sotto con la moglie Arlene, una donna bella e insoddisfatta; i pranzi con i colleghi a parlare di psichiatria; le monotone serate di poker con gli amici, che poi altri non sono che i colleghi stessi. Luke, che per deformazione professionale è avvezzo a una profonda autoanalisi, riconosce di vivere «in stato di libertà congelata», si sente in qualche modo condannato a essere se stesso, a mantenere il ruolo che si è scelto diventando uno psichiatra, sposando Lillian, decidendo di avere con lei dei bambini. È consapevole di essere avviato verso una vita di controllata e dozzinale infelicità. E questo pensiero lo sta consumando.

Una sera, dopo l’ennesima serata di poker, Luke ha un’accesa discussione con il dottor Mann, collega nonché suo ex analista, che gli rimprovera di non credere più nella psicanalisi e di affidarsi invece a strambe teorie Zen che suggeriscono la rinuncia a un io rigido e dominante. «Ne ho abbastanza di sollevare pazienti infelici fino a una noia normale», gli confessa Luke. Il vero problema, secondo lui, è che l’io così come siamo abituati a concepirlo, e cioè un blocco coerente di preferenze, abitudini, impulsi, è soltanto una zavorra che ci impedisce di sperimentare e ci costringe all’insoddisfazione e alla nevrosi. Tanto vale allora annientarlo, questo io, scegliere di avere molteplici e caotiche personalità, rinunciare alle preferenze, alle consuetudini, agli impulsi. «Un uomo senza abitudini, coerenza, ridondanza – e quindi noia – non è umano. È pazzo», gli risponde il dottor Mann, che se ne va indispettito.

Dopo aver girato contro il muro un ritratto di Freud appeso in soggiorno, Luke rimette in ordine il tavolo e si accorge che uno dei dadi è andato a ficcarsi sotto una carta da gioco. In quel momento ha un’idea bizzarra: se il dado nascosto sotto la carta ha la faccia con l’uno rivolta verso l’alto, scenderà al piano di sotto, suonerà il campanello degli Ecstein e, sapendo che il suo amico-rivale Jake è via per lavoro, violenterà Arlene. Se invece esce un altro numero dal due al sei, andrà semplicemente a letto. Luke solleva la carta pieno d’agitazione: è un uno. Dapprima il pensiero di dover commettere una violenza del genere lo inorridisce. È un uomo pacifico, posato, non farebbe mai una cosa simile. Ma è stato in grado di pensarla, ciò significa che una piccola parte di lui… E poi è stato il dado a scegliere. Non è esattamente quello che desiderava? Essere qualcun altro, molti altri, abbandonarsi al caso per rivitalizzare la sua esistenza sbiadita.
Sviscerare ulteriormente la trama del romanzo senza fare spoiler è quasi impossibile. Però qualcosa ancora si può accennare: da quella sera saranno i dadi a stabilire le decisioni di Luke, il ruolo che dovrà avere e quanto a lungo, come dovrà comportarsi con i suoi pazienti, con i suoi figli, con sua moglie e con Arlene, che nel frattempo è diventata la sua amante. Rinuncerà a essere un soggetto ben inquadrato, a farsi carico della propria moralità in un contesto sociale che, proprio a causa di quella moralità, tende a fare di lui un guscio vuoto, un essere umano destinato a un’infelicità apparentemente senza scampo. Come è facile immaginare, le cose prenderanno una brutta piega.

L’uomo dei dadi arrivò nelle librerie americane in un’epoca di grande fermento sociale. Erano gli anni della controcultura hippie, che pur essendo in declino continuava ad attirare molti giovani insofferenti allo stile di vita americano; erano gli anni della psichedelia, dell’LSD messo al bando dopo essere stato per quasi due decenni somministrato dagli psichiatri contro l’alcolismo e altre patologie; ed erano gli anni della New Age, di quel crogiolo di movimenti e teorie che aspiravano a costruire un uomo nuovo pescando nel misticismo, nello spiritualismo orientale, nelle religioni più disparate.
Quegli anni George Cockcroft li trascorse in un villaggio sperduto sull’isola di Maiorca e viaggiando con la famiglia, non di rado a bordo di un catamarano. Una volta si ritrovarono in panne a causa di una tempesta nel Mediterraneo e vennero salvati da un mercantile scozzese a quaranta miglia dalla costa africana. All’epoca nessuno sospettava che fosse lui il misterioso autore del libro di cui si cominciava a parlare con grande entusiasmo sia in Europa sia oltreoceano. Sullo psichiatra newyorkese Luke Rhinehart circolavano leggende assurde, e ci fu persino chi iniziò a seguire più o meno fedelmente una religione del dado.
Intorno alla metà dei Settanta i Cockcroft rientrarono negli Stati Uniti. Nel 1975 soggiornarono in una comune sufi a Canaan, nello stato di New York, dopodiché con i proventi del libro acquistarono una fattoria nei dintorni, un bell’edificio immerso nel verde un tempo appartenuto a un ordine religioso cattolico. George continuò a scrivere fiction firmandosi Luke Rhinehart. Nel 1993 pubblicò un sequel dell’Uomo dei dadi, il cui protagonista è Larry, il figlio di Rhinehart. La copertina dell’edizione britannica scherzava così: «Anche questo libro può cambiarti la vita».

I dieci romanzi che Cockcroft scrisse dal 1975 al 2016 sono popolati da hippie, sessuomani, seguaci della filosofia Zen, alieni che arrivano sulla Terra da altri mondi: un misto di fantascienza, psicologia e più o meno ironica ricerca di se stessi. Matari (1975) è la tragica storia di una donna amata da tre samurai nel Giappone del XVIII secolo; in Long Voyage Back (1983) un gruppo di persone fugge da una guerra nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica a bordo di un trimarano; Jesus Invades George: an Alternative History (2013) risponde a una domanda stravagante: cosa sarebbe accaduto se George Bush si fosse svegliato una mattina del 2007 e avesse realizzato di essere posseduto da Gesù? Nessuno di questi eccentrici romanzi si è avvicinato minimamente al successo internazionale del suo fulminante esordio, che a oggi ha venduto più di due milioni di copie ed è stato tradotto in ventisette lingue.

Nel 1999 i fan di Rhinehart ebbero finalmente l’occasione di vederlo in video. In Diceworld, un documentario diretto da Paul Wilmshurst, lo psichiatra newyorkese apparve sullo schermo per professare le sue suggestive teorie. Nella prima scena del film compare in primo piano, è un uomo sulla settantina, indossa una t-shirt e uno stetson scuri che lo fanno sembrare un predicatore, ha uno sguardo penetrante, fisso sulla telecamera, per certi versi inquietante. Comincia a parlare: «La società è una grande cospirazione per fare di noi degli io singoli, e per sfuggire all’io dobbiamo in qualche modo distaccarci da tutte quelle abitudini e quei valori e comportamenti dentro cui la società ci ha incrostato. Per farlo è necessario sforzarci a essere altro da ciò che saremmo normalmente, e questa è una delle funzioni che i dadi possono svolgere: ci fanno correre dei rischi, uscire dal nostro cammino abituale. Così cominciamo a rompere il guscio di noi stessi…» [trad. mia].
Per circa quaranta minuti Rhinehart spiega con una voce estremamente convincente cosa significa vivere seguendo i dadi, chiede ai passanti se per caso ci sia qualcosa che vorrebbero cambiare nelle loro vite, se qualche volta desiderano essere qualcun altro, li invita a fare un lancio. Nel film vengono intervistate anche alcune persone che hanno iniziato a usare i dadi dopo aver letto il romanzo. Uno di questi è il giornalista inglese Ben Marshall, forse colui che più di tutti conosce le conseguenze di una vita affidata al caso. Tra il 1998 e il 2000 Marshall ha sperimentato i capricci dei dadi per poter scrivere una serie di articoli per il magazine inglese Loaded. Ha fatto tutto ciò che i lanci gli hanno ordinato: spararsi in vena l’eroina, perdere il lavoro, rimorchiare uomini nei bar gay di Los Angeles, evitare il contatto fisico con la sua compagna per una settimana, per poi convincerla a fare un provino in uno strip club. Marshall era disposto a portare fino in fondo la faccenda, anche a costo di finire in prigione, cosa che per fortuna non è accaduta. Con i dadi aveva già avuto un’esperienza a sedici anni, quando, entusiasta del libro di Rhinehart, li aveva consultati per sapere se dovesse perdere la verginità con una prostituta (i dadi dissero di sì).

Chi conosce la vera storia di Cockcroft non può fare a meno di sorridere guardando Diceworld. È una finzione molto realistica, e lui è un attore fenomenale, ma negli ultimi minuti del film anche i più irriducibili seguaci dello psichiatra newyorkese Luke Rhinehart devono arrendersi all’evidenza. Intervistato nel giardino della sua fattoria a Canaan, lo scrittore esce allo scoperto: «Non sono Luke Rhinehart. Il mio nome è George Cockcroft» (naturalmente qualcuno potrebbe sostenere che siano stati i dadi a imporgli di dirlo). Nel documentario viene intervistata anche sua moglie Ann, che racconta come tutta questa storia dei dadi sia stata per George più che altro un modo per combattere la noia in alcuni momenti e che il marito è una persona ben diversa dal Rhinehart conosciuto dai lettori.
Quando gli viene chiesto se usi i dadi per prendere decisioni importanti, insomma se ci sia qualcosa di vero nel libro, Cockcroft risponde di no, anche se in passato aveva l’abitudine di fare delle liste di cose da fare e di scegliere così quali dovesse portare a termine prima. Poi racconta un episodio. Nel 1954, poco dopo essersi laureato in psicologia alla Cornell University, lavorava come stagista di notte in un ospedale psichiatrico a Long Island. Un pomeriggio, rientrando a casa in macchina, vide due infermiere lungo la strada, entrambe piuttosto belle. Qualche centinaio di metri più avanti decise di accostare e tirare fuori il dado. Se esce dispari, si disse, torno indietro e provo ad abbordarle. Così fu: uscì un numero dispari, tornò indietro e offrì un passaggio alle infermiere, che accettarono volentieri. Una delle due ragazze era Ann, che sposerà due anni più tardi e con cui è stato insieme fino all’ultimo giorno. L’intervistatore gli domanda allora se abbia scelto con il dado chi dovesse invitare fuori. George sorride. «No», risponde, «ho lasciato che fossero il mio istinto e le mie preferenze a scegliere».

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