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I am a lonely painter
I live in a box of paints
I’m frightened by the devil
And I’m drawn to those ones that ain’t afraid
Joni Mitchell – A Case of You

 

«Ian Penman / He uses long words / Like ‘semiotics’ and ‘semolina’», cantava nel 1979 Robert Smith dei Cure nella canzone dal lungo ed esplicativo titolo Desperate Journalist in Ongoing Meaningful Review Situation. Smith si stava vendicando in particolare di una recensione negativa scritta da Paul Morley, firma della celebre rivista musicale britannica New Musical Express (NME), ma c’era abbastanza spazio e metrica per prendersela anche con il criptico Penman, entrato a far parte della redazione due anni prima.

In Inghilterra è appena iniziata l’era Thatcher e l’NME prende una decisa piega di impegno politico in opposizione al governo. Le firme della rivista si distinguono per il carattere sperimentale dei loro articoli e per una appassionata tendenza polemica incoraggiata da teorie filosofiche. Ian Penman non ha nemmeno compiuto vent’anni quando comincia la sua esperienza prolifica in questo ambiente a lui così congeniale. Non ama il punk perché gli sembra sempre la stessa trita e ritrita storia del rock n’ roll, scrive di soul e pop usando il pensiero degli strutturalisti francesi che legge e impara nella libreria indipendente Compendium Books, a Camden. È un autodidatta.

Quella stagione di densissimi e colti saggi non avrà forse soddisfatto un vasto pubblico di lettori, ma ha gettato le basi per diversi critici e teorici contemporanei. Simon Reynolds ha espresso in diverse occasioni il suo debito nei confronti dell’NME e in particolare nei confronti di Paul Morley e Ian Penman, i due pale theory boys di estrazione proletaria che saltano istruzione superiore e università per farsi le ossa direttamente sul campo, producendo la più interessante e intellettualizzata delle critiche musicali.

Ma non tutto è teoria. Durante gli anni della giovinezza Penman conduce uno stile di vita simile a quello dei soggetti dei suoi articoli. Per certi versi diventa lui stesso una leggenda, tra un bacio alla divina Grace Jones e un incontro con il regista Nicolas Roeg che si trasforma in una sbronza colossale e da cui viene fuori un articolo frammentato e sconclusionato. Comincia un rapporto con l’eroina lungo un decennio e di cui parla sulla rivista Arena nel 1997 con un saggio dal titolo Heroin: a Love Story.

Mi porta a casa, questa curva strada è il suo nuovo libro, pubblicato in Italia nel novembre 2020 dalla casa editrice Atlantide con la traduzione di Luca Fusari. Contiene otto saggi comparsi tra il 2012 e il 2018 sui magazine City Journal e London Review of Books. Il saggio che apre la serie è sulla subcultura inglese Mod, i restanti sette sono dedicati a singoli artisti americani: James Brown, Charlie Parker, Frank Sinatra, Elvis Presley, John Fahey, Donald Fagen, Prince.

Nonostante la fama nel mondo anglosassone, per gli italiani Penman non è esattamente un nome conosciuto. Leggendolo la prima volta quello che colpisce è l’eleganza scorrevole di una prosa che si fonde perfettamente con la musica che prende in esame. Nell’introduzione spiega le ragioni della sua scrittura mostrando toni più pacati rispetto a quelli della giovinezza: «l’ideale che inseguo nel mio lavoro è un tipo di scrittura completamente accessibile a chi vi si avvicini, ma capace di gratificare anche dopo ripetute letture, se avvengono. In altre parole: chiunque può entrare e uscire dal testo come gli pare… ma al contempo, potrebbe esserci una rete di indizi, consigli e suggestioni seminascosti che si insinua tra le righe o dietro di esse, e aspetta soltanto di essere trovata».

Gli indizi si nascondono fin dal titolo, che in originale è It Gets Me Home, This Curving Track, tratto da un distico del poeta W. H. Auden. Nella versione italiana perde purtroppo quel track che si riferisce sia alla strada che alla traccia musicale. Penman ritrova in queste parole la musicalità e la sostanza dei suoi brani preferiti. Ha ormai superato i sessant’anni, confessa che a plasmare il suo concetto di casa è stato un «retroterra instabile»: non si è mai sentito parte di una nazionalità precisa, non ha mai avvertito la provenienza da una città natale specifica. Il ritorno a cui fa riferimento nel titolo ha i confini smarginati da una varietà di frequenze sonore.

A frantumare il topos del ritorno a casa ci aveva pensato tra gli altri anche Bob Dylan, che nel 1965 con Like a Rolling Stone formula la dimensione del no direction home, eliminando la casa e quindi svuotando di senso il ritorno. Nota Penman: «Qui l’ironia è che quando Dylan le scrisse, a metà anni Sessanta, queste parole fecero sentire parecchia gente – per la prima volta, in certi casi – un po’ meno sola, disorientata, snobbata. Quando non ci sono più rimedi, quando la bussola è rotta, a una cosa abbiamo imparato ad affidarci io e altri come me: la musica ha davvero il potere di farci sentire in una specie di casa».

Lo spunto per questi saggi sono quasi sempre dei libri, ma il discorso assume ogni volta una dimensione molto ampia e ramificata. Le vibrazioni della narrazione di Penman fanno di ogni artista una questione contemporaneamente privata e pubblica. Affronta le problematiche di classe e razza esplorando come queste variabili influiscono nella vita degli artisti e nella narrazione del successo. Da britannico riesce a cogliere e unire tasselli decisivi per impostare un racconto sull’America attraverso i suoi musicisti più controversi e geniali. Sono ritratti non lineari, che abbracciano discorsi molto vasti e complessi tramite una scrittura che sa essere sia avvincente che profonda.

Non è dunque necessario essere degli appassionati dei nomi contenuti nei saggi per apprezzare la lettura. Ogni storia racconta un diverso American Dream e le diverse implicazioni, a volte squallide, spesso tragiche di tutte queste ascese e discese. Nel classico stile Penman, il discorso evolve dal campo musicale giungendo alla letteratura, alla storia, alla sociologia. La cultura di massa e la cultura alta trovano perfetta sintonia. La sua erudizione non è appesantita dall’accademismo, la sua fascinazione per l’estetica pop non è infarcita di banalità.

«Ci sono picchi di successo che somigliano a una privatissima forma di insuccesso» scrive riferendosi a Parker e in realtà descrivendo una condizione nota a molti artisti. Penman evidenzia «una tesa dialettica tra il disordine e talvolta la disperazione della vita privata degli artisti di cui si parla e l’eleganza, l’economia quasi soprannaturale delle loro canzoni». Pone una domanda complessa che assume valore in un periodo in cui si discute molto di cancel culture: quante cattive azioni nella sfera privata possiamo perdonare agli artisti che amiamo?

Il racconto del machismo tossico e violento di James Brown diventa l’epopea di una scalata schizofrenica e indomabile. Individualista e amico di bianchi sudisti, da nero non vede il razzismo come un problema al raggiungimento dei suoi obiettivi di fama, ricchezza e potere. Penman rimprovera a Brown non soltanto questo daltonismo, l’ego smisurato e il carattere violento, ma anche la mancanza della «tensione tra carnale e religioso che contraddistingue l’opera dei più grandi cantanti soul». Evidenzia il suo contributo essenziale alla musica americana specificando: «La musica del James Brown migliore è un elettrizzante fuoco d’artificio di movimento, potenza e fame, ma non è musica che ascolti a casa per potertici perdere». È una severità che può sembrare eccessiva perché raggiunge un mostro sacro come Brown. Ma l’occhio di Penman sviscera e non si pone il problema dell’agiografia. Non sono giudizi da moralista, sono delle riflessioni profonde che intrecciano la vita con l’arte. Con Prince è più combattuto ed emotivo, coinvolto a un livello più intimo.

Penman si tuffa negli anni Ottanta rivivendoli attraverso un velo di pioggia porpora. Ricorda momenti specifici e importanti della sua vita collegandoli a canzoni e album di Prince, questo «artista rhythm and blues nero che manipolava luminosi significanti pop bianchi; un monello divertito che di opera in opera ci convinceva a entrare nella sua festosa e densa mitologia personale, ma senza mai lasciarci intuire che cos’avremmo trovato al giro successivo». Individua nell’album Parade l’apoteosi dell’artista, ne analizza le influenze, l’impatto, la foto in copertina che richiama il mito di Narciso.

Oltre il genio, Penman rivela a poco a poco gli scricchiolii di una esistenza inquieta, di un nome che si fa simbolo per non diventare fantasma. Tra egomania e squallore la sua musica subisce un appiattimento e l’adesione all’intransigente dottrina dei Testimoni di Geova segna una nuova svolta. L’autore non perdona a colui che fu il «profeta della perversione polimorfa» opinioni e comportamenti omofobi e misogini.

Per raccontarlo agli inizi, sceglie di mostrarlo divorato da un pubblico inferocito durante due aperture ai Rolling Stones al Los Angeles Memorial Coliseum nel 1981, ponendolo quindi in una condizione di contrasto rispetto a un ventaglio di situazioni collegate alla tradizione rock e non solo: sono in contrasto «ritmi disco e travestitismo, dandismo new wave e suoni di sintetizzatore freddi e distanti»; è in contrasto il suo «flessuoso corpo nero e nudo».

Per Penman non è mai marginale quello che nel saggio su Prince chiama «il gioco della pelle». Non tralascia le questioni di razza e classe nemmeno se il soggetto è il bianco ma italiano Sinatra, ricordando che solo una generazione lo separava da Ellis Island. Nel riportare le parole di scherno della stampa WASP e classista che considerava il cantante agli inizi della sua carriera come un «drittone fasullo di origine italiana, cattolico e proletario», testimonia efficacemente la rigida divisione in classe della società americana.

Nel mezzo delle narrazioni c’è sempre «una storia legata più alla questione della razza in America, della razza nell’industria musicale, della razza che mostra o no il proprio volto». Se nel saggio su James Brown sottolinea le pieghe ambigue che il gioco della pelle può assumere, la complessità cambia e aumenta con Charlie Parker, perché quello è il territorio del bebop. Ci tiene a ricordarlo: negli anni Quaranta in America «il jazz era uno dei pochi spazi in cui i neri avevano la possibilità di ritagliarsi una vita di relativa libertà artistica, quasi sempre alle loro condizioni».

La passione dell’autore per il jazz e i suoi protagonisti emerge con chiarezza nel saggio su Parker. Lo raffigura efficacemente in due pennellate come un «paffuto Icaro dagli artigli affilati, in divisa da ore piccole», individua l’influenza del pianista Art Tatum nel timbro asciutto e veloce del sax contralto, esplora le ragioni di quella sua canzone aspra, spigolosamente non sentimentale, si fa aiutare dai ricordi di Miles Davis per evidenziare tanto il feroce rigore della sua tecnica quanto il disordine disperato della sua esistenza. Dal punto di vista di Penman, Parker diventa Bird per ragioni precise che cominciano con un sassofono e proseguono con l’eroina: quello stile «irrequieto, da puntura di vespa, era il frutto di una vita vulnerabile, e di quella soltanto».

Penman attinge alla biografia del sassofonista per insistere sui lati più incendiari della sua musica e riporta l’oralità di episodi decisivi che allargano gli orizzonti a una narrazione puramente americana: un lunghissimo viaggio in treno con il trombettista Dizzy Gillespie che si trasforma in una fuga a piedi nella pianura del deserto del Nevada alla ricerca di una dose, i taxi newyorchesi che diventano casa e ufficio (ci compone musica, intrattiene relazioni, ci si droga), il panorama metropolitano che arricchisce e inghiotte il mito con i suoi club, le cabine telefoniche, gli hotel squallidi.

L’autore non ci vuole spettatori inermi di fronte a questi eventi. Ascoltare il brano Lover Man conoscendo le condizioni psicofisiche di Parker nel momento della registrazione non deve trasformarsi in una esperienza voyeuristica. Per Penman quello non è solo il momento in cui la sua arte e la sua vita coincisero, è anche la dimostrazione della sua sublime abilità artistica: a un passo dal crollo porta a compimento una interpretazione che scatena una «commozione intollerabile». Momenti come questo o come alcune parti del saggio su Prince rivelano i punti più curvi della strada, in cui il coinvolgimento emotivo è particolarmente palpabile. Se a connettere molti di questi uomini è il disordine della loro vita opposto all’eleganza della loro arte, c’è un altro elemento ricorrente che però riguarda più la persona di Penman: un discorso diffuso sulla nostalgia.

Nell’introduzione fa riferimento a un mondo scomparso: «Un momento… due culture che collidono o si mescolano… la nascita di un certo tipo di consapevolezza intergenerazionale e “inter-colore”. Possiamo discutere a volontà di che cosa, esattamente, portò a questo punto, e di che cosa è successo o non è successo dopo, ma nessuno può negare che quel momento c’è stato, ed è stato magnifico».

Non è un caso se uno dei dedicatari di questo libro è Mark Fisher, il cui pensiero critico è stato tra l’altro influenzato dallo stesso Penman e dalla critica musicale anni Ottanta. Le questioni della nostalgia endemica del XXI secolo e della fine del future shock affrontate e teorizzate dai lavori di Fisher rappresentano un sottotesto importante e da tenere in considerazione per comprendere a fondo alcuni dei ragionamenti contenuti nei saggi.

Penman nell’articolo di apertura polemizza con chi vede una continuità modernista nell’attualità, evidenziando piuttosto la trasfigurazione postmoderna di una cultura a materiale da collezione, «una prima edizione di sotto-culto»; è lo stesso processo che riduce il disco rivoluzionario e «spiccatamente moderno» Kind of Blue a banale sottofondo musicale da gastro-pub. Certo, pur ammettendo lo squallore dei raduni nostalgici in stile Mod, confessa che lui sarebbe il primo a divertirsi proprio per l’appartenenza allo spirito originario di quel movimento. Un discorso simile attraversa tutto il saggio su Donald Fagen, cantante e tastierista degli Steely Dan.

Il pretesto per l’articolo è il libro di Fagen, Eminent Hipsters. Hipster è ora praticamente un’offesa e Penman non ha problemi a manifestare la sua antipatia per questa categoria umana contemporanea. Ma andando all’origine del termine sfodera tutto un mondo da lui profondamente amato e ora, appunto, perduto: «New York fu il vivaio dell’hip: l’Apollo di Harlem, il Birdland, la Cedar Tavern, il “Village Voice”. La “hipness” era qualcosa di arcano. Se avevi bisogno di chiedere cosa fosse, non l’avresti mai neanche avvicinata». Il ritmo della sua prosa trascina in un coinvolgente vortice di riferimenti.

Scrive di Woody Allen e Norman Mailer, del conservatorismo hip di Clint Eastwood, racconta le influenze di William Burroughs e Henry Miller sugli Steely Dan, prende una canzone di Fagen, New Frontier, e arriva all’analisi dello storico discorso di John Kennedy alla Convention del Partito Democratico del 1960. Chiosa: «Era il Bob Dylan dell’oratoria politica anni Sessanta». La musica è la lente attraverso cui leggere la contemporaneità, i cambiamenti sociali e storici. La rivelazione è proprio questa: rendersi conto di pensare di leggere Penman per un motivo e trovarsi invece a navigare nel mezzo di correnti solo apparentemente distanti dal punto di partenza.

Nel saggio su Sinatra gli affascinanti ritratti della madre, Natalina Garaventa, e di due delle quattro mogli, Ava Gardner e Mia Farrow, si trovano a fianco ad analisi brillanti sull’industria musicale anni Cinquanta e a digressioni sulla tecnica di Bing Crosby. In quello sui Mod scrive un profilo splendido di Bill Evans, «un giovane bianco dall’aria nevrastenica in un gruppo di neri, un uomo dalla sensibilità ammaccata, lirica, in un mondo che sapeva essere superficiale, o persino brutale. (…) Certe volte Evans somigliava a un professore di algebra capitato per caso sul palco sbagliato». Joni Mitchell compare a più riprese. È presente soprattutto come «perenne musa» (pur essendo molto più che una semplice musa) di Prince, che infatti durante gli ultimi anni torna alle sue vecchie canzoni così come aveva già fatto Mitchell con il suo album del 2000 Both Sides Now.

Forse conscio sia dell’alone di nostalgia che dell’eccessiva presenza di maschi problematici, nell’introduzione specifica che avrebbe voluto scrivere anche di «due passioni più recenti», Lana Del Rey e Solange Knowles, o addirittura arrivare a un discorso su Beyoncé. Sono in effetti tre artiste pop che a modo loro hanno contribuito a rinnovare un’industria atrofizzata, riuscendo a instaurare un dialogo con la contemporaneità. Sarebbe stato bello leggere approfondimenti su Beyoncé, Solange e Lana (o sui due pazzeschi album del 2016 delle sorelle Knowles, Lemonade e A Seat at the Table), ma l’impostazione del libro non avrebbe retto queste storie.

Diversamente, quella di Billie Holiday poteva essere una interessante aggiunta. Penman le riserva idealmente una sedia al centro del libro in quanto «da sempre una presenza centrale, ricorrente e catalizzatrice nella mia vita emotiva e di critico». La canzone e la vita di Lady Day contengono le molteplicità che Penman ama esplorare, in lei si avvera ancora quella tesa dialettica tra arte e vita. La sua God Bless The Child è presente nella Discografia/Mappa delle atmosfere posta alla fine del libro e che rappresenta un po’ la colonna sonora. Non a caso è chiamata mappa: sono le tracce (la strada) che portano l’autore verso la sua specie di casa.

Anche i lettori potrebbero ritrovare la loro specie di casa in alcuni dei brani, sentire di appartenere alle atmosfere e agli accordi evocati dalle parole di Penman. Le pieghe della sua prosa esercitano suggestioni profonde, rivelando questioni irrisolte a livello individuale e collettivo, esplorando in maniera indiretta le ragioni per cui ascoltiamo musica, per cui ne abbiamo bisogno al di là di un banale scopo ricreativo. La narrazione pura nella ricchezza dei frammenti e delle digressioni non vuole fornire né rivelazioni né pillole di curiosità, ma lascia una voglia di ricominciare ad ascoltare certe canzoni per confrontare emozioni vecchie e nuove, per ritrovare e considerare da una diversa prospettiva musicisti amati e meno amati. Nel racconto di Penman i musicisti diventano altro rispetto ai comuni mortali pur avendo tutte le peggiori caratteristiche dei comuni mortali. La loro musica prende forma e diventa eterna nelle voragini mondane, nei difetti personali, nelle ombre in cui si agitano e poi si quietano.

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