«In tutte le sue manifestazioni la Dea era simbolo dell’unità di tutta la vita in Natura. Il suo potere risiedeva nell’acqua e nella pietra, nella tomba e nella grotta, negli animali e negli uccelli, nei serpenti, e nel pesce, nelle colline, negli alberi e nei fiori». Con questa frase di Marija Gimbutas veniamo immediatamente trascinati nel mondo libresco delle Edizioni degli animali (non a caso la troviamo nella sezione «Chi siamo» del loro sito). Una piccola casa editrice, con sede a Milano, entrata nel panorama editoriale italiano ormai da qualche anno. Riccardo Corsi, scrittore visionario la cui voce ha una potenza lirica unica nel suo genere, è il demiurgo di questa operazione editoriale – e letteraria. Seppure, ci informa: Edizioni degli animali è, prima di tutto, «un gruppo di amiche e amici». Una casa editrice che ha l’odore dei tempi andati ma il sapore di futuri possibili e dell’urgenza di affrontarli. I loro libri spaziano da autori emblematici e laterali come Federico Tozzi, Pavel A. Florenskij e Paul Shepard, tracciando un filo enigmatico ricolmo di rimandi per il lettore sensibile, passando dalla critica letteraria all’antropologia fino a dare spazio alle poesie di un manovale. Ciò che propongono le Edizioni degli animali è un gusto. Non solo, però, c’è anche un’idea molto potente di fondo, espressa in modo eminentemente raffinato dai testi di Thierry Metz, autore cardine del catalogo, come dall’ultima trilogia del nostro Riccardo Corsi, Il mare della terra; e ancora dalle opere di Teresa Iaria. Un’idea manifestata in maniera sfuggente, invisibile, complessa, immaginifica. Stupito e affascinato da questo straordinario esempio di come fare editoria letteraria (aggettivo non scontato di questi tempi) dopo una lunga chiacchierata telefonica con Riccardo Corsi ho subito pensato di fargli qualche domanda, per potergli permettere di raccontarci il percorso che lo ha condotto fino a qui.
AC: Oltre a essere autore di diversi libri, Riccardo Corsi è anche parte dell’associazione e casa editrice Portatori d’acqua. E la sua attività instancabile ha origini ancora anteriori a quelle di queste due realtà editoriali. Proviamo a tracciare il sentiero che ha portato alla nascita di Edizioni degli animali, sin dalle prime esperienze con il mondo culturale, per capire da dove provengono i temi centrali e le idee forti che questi libri vogliono evocare.
RC: Gli anni di apprendistato sono stati quelli trascorsi a Bologna dove ho avuto la fortuna di collaborare come traduttore e redattore, assieme ad altri amici, a quella straordinaria esperienza intellettuale e umana che è stata «In forma di parole», rivista cardine del secondo Novecento, attiva dagli anni 80, fino al 2013. Diretta e pensata da Gianni Scalia, uno dei maestri del Novecento italiano, sodale di Pasolini nell’avventura di «Officina». «In forma di parole» è (stata) una rivista di traduzioni letterarie da diverse lingue europee ed extraeuropee. Alla quale ha partecipato un numero vastissimo di traduttrici e traduttori di diversa provenienza. Un vero e proprio laboratorio, in cui era sempre in gioco attraverso il tradurre l’apertura verso l’altro (un’altra lingua, un altro spazio mentale, un altro luogo): dunque una forma di accoglienza dell’alterità, della diversità che ogni lingua racchiude e custodisce (La diversità delle lingue di Wilhelm von Humboldt, è a mio avviso una delle radici taciute della rivista). Una rivista apparentemente apolitica, ma proprio per questo eminentemente vicina a un discorso politico indiretto, obliquo: che passa attraverso la poesia. Da questa esperienza ineguagliabile nascono due case editrici: i Portatori d’acqua nel 2013 e le Edizioni degli animali. I Portatori d’acqua nasce durante il mio periodo marchigiano, assieme ad alcuni amici filosofi, poeti e musicisti: Simone Massa, Domenico Scalzo, Lorenzo Bertini, Alessandro Marzocchi, tutti gravitanti intorno a Pesaro, e Antonello Lombardi, che ci accompagna da esterno vivendo a Bologna. Già editore e libraio per la Ut Orpheus e scrittore lui stesso. Nel 2017 nascono le Edizioni degli animali. Casa editrice uscita anch’essa da una costola di «In forma di parole», almeno idealmente. Il progetto inizia assieme a Ngosa Kalalwe, fraterno amico congolese residente in Italia da diversi anni. Ma da subito, praticamente, comincio a lavorarci da solo. E dalle Marche passando per Roma approdiamo a Milano, dove ha sede la casa editrice attualmente. Teresa Iaria, artista e insegnante all’Accademia di Brera, diventata mia moglie, mi accompagna in questa avventura. Possiamo dire in un certo senso che le Edizioni degli animali sono un’evoluzione dei Portatori d’acqua. Un ulteriore passo in avanti. Ciò che è in gioco qui è una visione del mondo.
AC: Mi sembra che ci sia, nei vostri libri, una forte attenzione per le immagini e la relazione tra testo e immagine. Già le copertine lo confermano, con la scelta di dettagli sempre significativi. Per arrivare poi ai libri di Teresa Iaria e alla collana Cahiers de Monstres. Oltre chiaramente a Il mare della terra che, come il precedente, il Libro del vento (Portatori d’acqua, 2016) ha una dinamica di relazione tra immagini e parole molto importante. In cosa consiste questo dialogo tra le forme espressive all’interno del progetto editoriale che le Edizioni degli animali portano avanti, e come interagisce questa attitudine con la tua opera?
RC: Mentre i libri dei Portatori d’acqua hanno raffinate copertine classiche, qui mi interessava sperimentare nuove possibilità. Le copertine sono come farfalle che devono sopravvivere in una natura/libreria piena di altre creature. Dunque devono colpire, al primo sguardo. Spesso le copertine degli editori, specialmente i grandi editori, sono eccessivamente cariche di immagini. E noi viviamo in un mondo che nella moltiplicazione delle immagini virtuali e reali ha finito per fagocitare, divorare l’immagine. Come pittore mancato, le copertine sono una specie di giardino zen. E diventano bianche quando trattano di poesia, come nel caso dei due libri di Thierry Metz o ne Il mare della terra. Nel mio lavoro, nella mia vocazione di scrittore, il rapporto con le immagini è decisivo. A cominciare dagli Incroci simbolici, la prima parte del Libro del vento. Ma anche nel successivo Il mare della terra. Non è mai un rapporto illustrativo, vicario. Parola e immagine ci riportano a un’origine comune, a quel silenzio che precede ogni parola, e che è esso stesso linguaggio. È un «sentimento del mondo» quello che qui è in atto, ma senza cedere alle lusinghe della «rappresentazione», come fanno la maggior parte dei libri di narrativa pubblicati oggi in Italia. Con alcune eccezioni, penso soprattutto ad Adrian Bravi, e a pochissimi altri. Insomma oggi in Italia si finge di scrivere prosa come se fossimo ancora in pieno Ottocento, ignorando completamente la lezione del Novecento. Dunque ne viene fuori uno pseudo-realismo da operetta, che suona falso. Ma piace all’industria culturale. Credo che molti libri nascano morti nell’immaginazione. Perché si finisce per accogliere dentro di sé un’imposizione, non si accoglie fino in fondo l’ispirazione, non si ascolta la propria voce che “detta” un cammino. Bisogna essere arrischianti, nel pensiero e nel cammino intrapreso come scrittori editori: dando spazio ad autori mai tradotti in italiano, ripensando il Novecento a partire dai classici, compito questo svolto mirabilmente da Giometti&Antonello. Dare spazio a poeti rimasti ai margini, è il caso del nostro Metz. Esiste un bivio, che i poeti comprendono bene e gli scrittori in genere meno, quello tra carriera e vocazione. Ad un certo punto bisogna scegliere, continuare, andare avanti: assecondare fino in fondo la ‘propria’ Vocazione. Lo dico en passant, sto lavorando a un libro vastissimo, che mi impegnerà ancora per molti anni. Il Libro del vento e Il mare della terra sono le prime due parti di questo libro, che si chiamerà STELLA DEI MONDI. Dunque, dicevamo le immagini, sì. Una nuova collana è nata pensando al rapporto parola e immagine, dal formato anomalo, simile a quello dei Cahier de l’Herne francesi: i CAHIER DE MONSTRES. Il primo dedicato all’opera di Teresa Iaria, artista che lavora da molti anni, inseguendo un suo ideale di perfezione e di movimento. Ripensando, et pour cause, le immagini nei suoi dipinti e nel suo lavoro teorico. Il Cahier non è un catalogo, ma un quaderno, in cui le riflessioni sull’Opera si alternano alle immagini delle opere, all’autobiografia, alla questione dell’immagine in generale, meditata a partire (ma non solo) dal proprio lavoro. Per arrivare a una critica dell’interdisciplinarietà, così come viene intesa normalmente. Nel Cahier l’artista è naturalmente in dialogo con le altre arti: la poesia, la filosofia. Il prossimo Cahier de Monstres sarà un’antologia di «In forma di parole».
AC: Nella collana Bestie troviamo due libri apparentemente molto distanti: Fonti, una novella di Federigo Tozzi, genio dalla prosa allucinata, originalissimo e obliquo autore del Novecento italiano di quelli della Voce; e Antonio del romanzo e Antonio della tradizione, una perla dell’allora giovane Pavel A. Florenskij, genio assoluto della filosofia moderna e personaggio dall’eccezionale fascino; questo è un testo di pura critica letteraria, sull’opera di Gustave Flaubert, scritto però da uno degli esseri più illuminati e sensibili che abbiano mai imbracciato la penna. Come possono questi due testi stare insieme, oppure, meglio: cosa dicono questi libri, così diversi, se «messi insieme»?
RC: Ti ringrazio per questa domanda, così felice, al punto da essere essa stessa una specie di risposta aperta. Credo che le fulminanti prose delle Fonti di Federigo Tozzi (uscite nella collana Bestie, anche questo un titolo tozziano) ci riportino verso un luogo dove la separazione di poesia e prosa non era ancora avvenuta. Ma non si tratta di prose poetiche: nel loro espressionismo dilatato e violento si manifesta la necessità di liberare la lingua dal giogo della «rappresentazione» e dei «generi», prigioni nelle quali essa sarebbe finita settant’anni dopo. Dietro, non detto, c’è la prossimità di una poesia in prosa (non una prosa poetica), penso ai Petits Poèmes en prose di Baudelaire. Tozzi, troppo spesso trascurato, è una delle fonti (mi si perdoni il facile gioco di parole) del Novecento italiano, più di Svevo o di Pirandello. La sua è una prosa simbolica, non il simbolismo inteso storicamente, ma un’apertura totale nei confronti della natura del reale. E dire reale ci espone a una serie di fraintendimenti. Perché realtà presuppone sempre il suo contrario, e ci porta ad essere risucchiati in quella serie di dicotomie (tutte perverse) in cui si dibatte la letteratura e il pensiero ancora oggi. Insomma Tozzi pensa l’intero (ecco l’attenzione per il simbolo in lui, così prepotente). E Florenskij, il grande incommensurabile genio del Novecento, nel suo libretto profondissimo su Flaubert, rifà la Storia del romanzo europeo, individuando nel nichilismo flaubertiano, una spia, un segno, del «disagio della civiltà». Florenskij vede, pratica, dà spazio, lascia fiorire in ogni frase, l’Intero. Perché riesce a pensarlo e a intuirlo (come nessun altro). Basti pensare alle sue riflessioni sul principio di non contraddizione ne La colonna e il fondamento della verità.
AC: «Scrivi/non nella scrittura/ma nell’intimità del pozzo/dove il più chiaro si nasconde». La scoperta più scioccante, per me, esplorando il catalogo delle Edizioni degli animali, è stata quella dei libri di Thierry Metz. Autore misconosciuto in Italia, senza motivo. Come potete leggere nei versi appena citati la sua semplicità è spiazzante e tocca dritto l’intestino, il fegato. Ci fa vergognare. La sua biografia, poi, è già di per sé una storia incredibile e intrigante, da raccontare. Chi era Thierry Metz e come vi siete incontrati?
RC: Devo la scoperta di Thierry Metz a due poeti, Pasquale Di Palmo, e indirettamente ad Andrea Ponso, che ha tradotto fedelmente il Diario di un manovale, dopo la mia traduzione di Sulla tavola inventata. Di Palmo invece sta lavorando e traducendo altri due libri di Metz. Ma la vera rivelazione di questo poeta così essenziale scaturisce dall’incontro (anche se cronologicamente avvenuto dopo) con Jacques Brémond, primo editore di Metz. Di Brémond che nel tempo è diventato un amico fidato. Meraviglioso editore di poesia, che stampa ancora con i caratteri a piombo, vicino ad Arles, in quella Provenza infuocata che piace tanto agli artisti, ai poeti, ai pensatori. In Italia era uscito solo un libretto di Metz, L’uomo che pende, per Via del vento Edizioni. Poi, nient’altro per più di vent’anni. Scoprire un autore vuol dire quasi sempre riscoprirlo: dare la possibilità ad altri di leggerlo ed amarlo. Spero che altri editori lo traducano. Non si tratta mai, almeno per me, di rivendicare un monopolio (certo i diritti vanno rispettati), ma di contribuire alla diffusione, alla circolazione di un poeta, di un’opera. È così sempre. Diceva Fernando Pessoa che nella biografia di un poeta contano solo due date, quella della nascita e quella della morte. In mezzo c’è la poesia. Io sono contrario a quel vouyerismo biografico così in voga oggi. E questo a maggior ragione per Metz. Anche se la perdita atroce di un figlio davanti ai suoi occhi lo sconvolgerà e lo porterà alla morte. Ma questa perdita non esaurisce la sua poesia. La sua poesia, così essenziale, semplice, fatta di poche parole, degli elementi della natura, era già incamminata in questa perdita. La sua poesia è una mistica del quotidiano, Metz è un “trovatore” fuori dal suo tempo. E perviene ad una lingua di un’estrema semplicità. Una lingua-luogo-esposta al mondo. C’è qualcosa di Celan e di Char nella sua poesia. Egli dedicherà un suo testo a commentare una poesia di Paul Celan. Quest’anno pubblicheremo, per le cure di Pasquale Di Palmo, questo testo di Metz dedicato a Celan.
Metz, come Rimbaud, e Artaud, solo per citarne alcuni, non è un letterato: è un poeta. Mi piace pensare che sarebbe piaciuto a Gabriel Bounoure, un grande critico francese, amico di diversi poeti e passatore di tradizioni tra le due sponde del Mediterraneo. Per i Portatori d’acqua avevo tradotto un prezioso libretto di Bounoure: Il silenzio di Rimbaud. Il poeta Thierry Metz è per noi “un fratello alchemico”.
AC: Un altro libro che reputo davvero importante e che ho lasciato volutamente per ultimo è il capolavoro di Paul Shepard: Natura e follia. «Troppo filosofo-scrittore per piacere agli scienziati, troppo scienziato per toccare i professori di discipline sociali e umanistiche» lo definisce Matteo Meschiari, «in bilico tra il guru ecologista o lo scienziato eretico», «restò un uomo onesto, appassionato, umile, condannandosi quasi fatalmente all’oblio». Proprio dopo Natura e follia di Paul Shepard viene pubblicato il libro dello stesso Riccardo Corsi, Il mare della terra. Io credo che le due opere siano esattamente opposte, per ciò che concerne la loro forma. A dispetto di ciò, essi aspirano alla stessa vetta, indicano la medesima direzione. Cosa ha significato la pubblicazione di ognuno di questi due libri e dove, e come si congiungono esattamente?
RC: Ho letto appassionatamente e con attenzione il libro di Paul Shepard Nature and madness, alcuni anni fa. E con difficoltà siamo riusciti ad avere i diritti. La scoperta di Shepard, almeno per me, avviene attraverso Dominique Lestel, studioso francese di Paul Shepard. E curatore dell’edizione italiana. Di tutti i libri di Shepard, questo era quello al quale lo stesso Shepard teneva di più. Uno dei suoi capolavori. Il più teorico. Quello che più di altri esce dall’ambito antropologico per illuminare d’un solo tratto tutta la storia dell’umanità. La sua critica è radicale, e avvalendosi di discipline diverse – la psicologia evolutiva, l’antropologia, la storia delle religioni, la filosofia, la biologia – abbraccia l’intero arco storico. È un filosofo frainteso e relegato ai margini perché egli mette in questione il mondo in cui viviamo: la nostra civiltà ebraico cristiana, la Grecia classica, il puritanesimo americano. Ma il punto essenziale per lui, quello più politico è il passaggio dal periodo dei cacciatori raccoglitori a quello dell’agricoltura, dei coltivatori, che chiama gli Addomesticatori. Dalla terra vissuta come dono, alla terra coltivabile, all’inizio in piccoli appezzamenti, fino ad arrivare oggi a quello che possiamo definire come uno sfruttamento planetario (la terra come possesso, illusorio?, da parte degli esseri umani). In Shepard non viene mai fuori la parola antropocene. Oggi abusata. È interessante notare come la definizione di un ambito del pensiero (in questo caso l’antropocene) porti spesso a una forma non voluta di ghettizzazione del discorso. Mentre nei precursori ciò non avviene mai. È il caso di Shepard. Il libro di Shepard è anche una critica a ogni forma di violenza e ideologia. Gli esseri umani hanno ancora la possibilità, introiettata nei loro geni, di vivere diversamente:
«Ma ciò significa che non abbiamo perduto, e non possiamo perdere, la sincerità dell’impulso. Esso aspetta soltanto un’espressione autentica. Il compito non è cominciare riappropriandoci del tema di una riconciliazione con la terra in tutta la sua sottigliezza metafisica, ma partire da qualcosa di molto più diretto e semplice, che ci donerà la sua metafisica di salvezza».
Natura e follia è un libro di una mirabile costruzione teorica. La sua lettura mi ha spinto da scrittore a ripensare il rapporto con la Natura. Cammino già intrapreso Nel Libro del vento. Da questo ripensamento, prende corpo Il mare della terra: Wangarr-I camaleonti-Arcipelago. Romanzi lirico-simbolici e frammentari. Parte di un disegno più ampio, formato da 3 volte 3 libri: 9 libri. Ciò che viene fuori da questi libri è la necessità di affidarsi a un sentimento del mondo: ossia a una descrizione non descrittiva degli eventi esteriori e degli eventi interiori. Per me il narrare non è mai solo narrazione di un mondo oggettivabile. Ma racconto di un duplice movimento reversibile: dall’anima al mondo e dal mondo all’anima. I confini tra mondo esterno e interno sfumano fino a svanire. L’immaginazione è essa stessa parte della realtà che si va descrivendo. Maestri grandissimi in questo cammino: Bruno Schulz, Kafka, Lezama Lima, Julio Cortázar, Clarice Lispector. E i poeti, e gli artisti, che sono come li chiamava René Char gli alliés substantiels (gli alleati sostanziali).
AC: Domanda rituale ma necessaria: cosa ci riserva il futuro? Quali libri o altre iniziative avete in mente? Qual è il piano d’azione, la rotta tracciata nel mare che verrà?
RC: Il prossimo libro delle Edizioni degli animali sarà un testo tradotto da Gianni Scalia, per la rivista «In forma di parole», di Edmond Jabès. Dal deserto al libro. Conversazione con Marcel Cohen. E dopo questo stiamo lavorando alla prima edizione italiana di un libro di Sunaura Taylor, Beasts of Burden. Animal and disability liberation. La Taylor è un’attivista per i diritti degli animali, un’artista e una persona che ha fatto della propria disabilità il fulcro del suo pensiero, senza nessuna forma di autocommiserazione: riuscendo così a leggere la società/ le società in cui ci è dato vivere, smascherandone l’ipocrisia. Nel suo libro troviamo un’analisi acutissima e spiazzante, dove viene fuori la profonda connessione (impensata) tra la disabilità degli esseri umani e gli animali chiusi negli allevamenti e destinati al macello. Dunque ripensando il confine tra umano e animale. Tracciando un nuovo inizio dal quale è difficile prescindere. Il libro è in corso di traduzione da parte di feminoska e sarà curato da feminoska e da Marco Reggio. Entrambi attenti studiosi dell’antispecismo, senza tralasciare mai le sue implicazioni filosofiche e politiche. Questi i prossimi libri. Altri libri si affacciano sulla scena, ma per scaramanzia, preferisco non parlarne. La nostra animalità perduta, o rimossa, continua ad essere parte del nostro discorso, assieme alla necessità di liberare l’immaginazione dalle catene che il potere ha finito per fissare sulla sua carne viva. Ripensare il rapporto con la tradizione. La tradizione non è dietro di noi, museificata, ridotta al silenzio. Ma davanti a noi, nel tempo a venire. In quella che Heidegger chiamava l’epoca della Tecnica, nell’azzeramento di ogni valore e di ogni tradizione, si tratta di «rivoluzionare» (Pasolini) il rapporto con il passato Ad-veniente. Ritrovare un ‘legame’. Diceva Hannah Arendt (oggi così trascurata dal pensiero filosofico politico), citando René Char, in un suo famoso saggio: «La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento».
E ancora, con i nostri libri, Le Edizioni degli animali cercano di tracciare un cammino, di riapprendere una forma impossibile di trasmissibilità. Di dialogo, nell’infecondo presente. Le parole di un grandissimo poeta, Antonio Machado, ci soccorrono ancora:
Caminante, son tus huellas
el camino, y nada más;
caminante, no hay camino:
se hace camino al andar.
Al andar se hace camino,
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante, no hay camino,
sino estelas en la mar
Il cammino e nulla più;
Viandante, non esiste sentiero:
si fa la strada nell’andare.
Nell’andare si segna il sentiero
E, voltando lo sguardo indietro,
si scorge il cammino che mai
si tornerà a percorrere.
Viandante, non esiste sentiero,
solo scie nel mare].
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