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In un indefinito fondale grigio scuro, due ragazzine seminude si tengono per mano sull’orlo di una gigantesca fauce animale, camminano come funambole su incisivi, canini, molari. La copertina italiana di Mandibula di Mónica Ojeda, giovane autrice sudamericana appena pubblicata da Alessandro Polidoro Editore nella traduzione di Massimiliano Bonatto, condensa molti dei temi principali del romanzo: la femminilità, la precarietà degli equilibri e dei legami, la bestialità, l’erotismo, il buio, l’attrazione verso l’ignoto.

Ojeda, nata nel 1988, è considerata una delle migliori scrittrici under 40 dell’America Latina e, con pubblicazioni narrative e poetiche, ha già ottenuto svariati riconoscimenti. Mandibula è stato inserito tra le migliori opere in lingua spagnola del 2018 da El País, arrivando anche finalista al Premio Bienal de Novelas Mario Vargas Llosa.

Il libro ha un incipit travolgente: la giovane Fernanda si risveglia in una baita nella foresta, è legata e ben presto riconosce il volto di chi la tiene prigioniera, Clara, sua insegnante di letteratura nella scuola elitaria di matrice religiosa che frequenta. L’autrice introduce il lettore direttamente nel momento culminante di una vicenda che procederà poi a indagare e sezionare come un prisma, esplorandone le facce in modi e tempi diversi. Veniamo così a conoscenza del passato cupo delle due protagoniste, l’adolescente Fernanda, con un fratellino morto in un incidente in cui il suo concorso di colpa non è limpido, poco chiaro persino a lei, e la rapitrice Clara, con una sindrome da stress post traumatico dovuto a una violenza subita da due studentesse e lo spettro di una madre deceduta eppure vivissima nella sua mente. Al centro del gioco viene via via profilandosi Annelise, migliore amica di Fernanda e leader di un gruppo di amiche che assume sempre più l’aspetto di una congrega, fatta di sfide che sono riti iniziatici e legami che sono rapporti di dominio e sudditanza.

Ojeda si ascrive al filone del gotico andino, corrente che fonde la più classica letteratura del terrore con la tradizione orale e le mitologie ecuadoriane, fortemente radicate nel territorio (una terra in cui le città si mescolano a fitte foreste e vulcani attivi), mantenendosi aperta a profonde contaminazioni. Mandibula è un testo ricco di rimandi dalla provenienza più varia, trattati tutti con pari dignità: se in epigrafe troviamo una sequela di citazioni di maestri come Poe, Lovecraft e Bataille, se nelle prime pagine spicca un verso da Gli uomini vuoti di T.S. Eliot, Ojeda attinge a piene mani anche da fenomeni come Creepypasta, una reticolare mitologia orrorifica virtuale incrementata dagli utenti sulla base di storie inventate e leggende metropolitane, e da una cinematografia che passa da Carrie e Alien ai B-movies.

Il libro si configura così, tra le altre cose, come un trattato sullo sgomento e sulla sua inesauribile efficacia narrativa. «Perché ti piace tanto spaventare le persone?», chiede Fernanda ad Annelise, e la risposta dell’amica è: «Perché mi costringe a immaginare». La cultura di Ojeda e dei suoi personaggi oscilla tra il pop e il classico, in una dichiarazione non solo d’amore ma anche di gratitudine al genere, perché è dalla paura che emerge più forte il bisogno di raccontare ed è dal racconto che la paura trae sostentamento a sua volta, in un uroboro che stringe le sue spire all’aumentare del terrore.

La creazione narrativa è uno dei temi vivificanti di tutta la vicenda: è attraverso il controllo della scrittura che Clara cerca di attribuire senso e ordine al mondo – «La sua ansia, confermò in quell’istante, aveva una notevole componente ortografica» –, di recuperare e mantenere il controllo dopo il trauma subito, eppure è a causa della parola che i suoi argini precari cedono. Le parole di Annelise, nere sul bianco foglio di un tema, sanciscono il punto di rottura per l’insegnante, il cortocircuito finale. Con la sua capacità di raccontare e manipolare, con il dono di incantare attraverso il fascino del verbo e della paura, Annelise diviene demiurgo, architetto degli altrui destini.

«C’erano momenti in cui Anne sembrava posseduta da quel che si inventava. Ha un’immaginazione muscolare, è attaccata allo scheletro e, non so, è reale. Qualcosa che si muove. Sì, reale. Più reale di adesso, per dire. L’immaginazione di Anne è più reale di Lei, o dei miei, o di me».

Osservando la giovane, a Clara viene in mente la figura di Carmilla, protagonista dell’omonimo racconto di Joseph Sheridan Le Fanu. Si tratta di uno dei primi testi gotici di vampiri, precursore del Dracula di Stoker, che inaugura un filone letterario con una declinazione tutta femminile, intrisa di sensualità e mistero. Oltre a inserire un’altra citazione colta, Ojeda fornisce così una potenziale chiave di lettura del suo libro, mettendone in evidenza i due fuochi più brillanti: femminilità e morso – non il morso del non morto ma quello cannibale che stritola i rapporti umani smascherandone l’animalità.

Il morso è l’atto che già in esergo appare come una dichiarazione di intenti: l’autrice riporta infatti le parole con cui Lacan sintetizza l’impulso della madre a fagocitare e incorporare il figlio nell’estremo tentativo di protezione: «Un grande coccodrillo che ci tiene nella sua bocca: questa è la madre». È in Clara e nella sua defunta madre che questo meccanismo si fa lampante e reciproco, un tentativo simbiotico di assorbirsi a vicenda con risultati psicologici malsani; tuttavia sarà Annelise a sacralizzare il morso e a fare di una mandibola di squalo rubata la sua personale tiara sacerdotale. Il gioco di specchi che lega Clara alla madre si riflette a sua volta nel gemellaggio di Fernanda e Annelise: un rapporto fatto di dipendenza e abuso non sempre consapevole. Equilibri siffatti non sono in grado di resistere a lungo e dalla loro frattura inevitabile emerge una spirale dalle conseguenze smisurate e incalcolabili. Ojeda è magistrale nel tratteggiare la devozione che caratterizza le amicizie adolescenziali e la desolazione sconfinata che accompagna il loro creparsi, al punto che la rappresaglia spietata si presenta come unica risposta possibile.

Il testo è intriso da una bestialità selvaggia che invade la lingua e la struttura narrativa, colonizzando le descrizioni dei personaggi stessi: Clara ha «occhi di artropode e voce di uccello alle sei del mattino», le ragazzine guidate da Annelise avvertono «una frustrazione squamosa raspargli contro lo stomaco», Fernanda riflette sulla baita nella foresta in cui è prigioniera come «l’abitazione ideale per il verme che era diventata, la tana in cui, per sopravvivere, doveva imparare a svertebrarsi». La scrittura di Mónica Ojeda si muove per vie tortuose e labirintiche, miste a un lirismo profondo ed evocativo (spia delle sue parallele pubblicazioni poetiche). Tortuosa è anche la temporalità frammentata, la prospettiva che muta a ogni capitolo lasciando il lettore a pendere dalle labbra di narratori inaffidabili dai più diversi registri – le sedute psichiatriche di Fernanda, dialoghi che sono monologhi farciti di inglesismi rimasticati, in cui la risposta del medico è limitata solo a uno spazio bianco; gli scritti dai toni biblico-apocalittici di Annelise; le riflessioni paranoiche e irrazionali di Clara.

Mandibula è un libro dalle tenebre densissime e dal ritmo serrato, accresciuto e non interrotto dalla la temporalità sfalsata, in una costante semina di indizi su un orrore incombente e sul potere dell’immaginazione. Annelise si fa profeta di un personale pantheon d’ispirazione dichiaratamente lovecraftiana. Al suo centro spadroneggia il Dio Bianco, sorta di incarnazione della metamorfosi della pubertà, figura mitologica nuova di zecca che si palesa al momento in cui un corpo di ragazzina va incontro all’adolescenza: «L’infanzia finisce con la creazione di un mostro che vaga nella notte: un corpo disgustoso che non può essere educato», un’entità da incubo che Clara, con i suoi trascorsi e attacchi di panico, non è in grado di tollerare.

La paura contamina la realtà, la piega, la plasma, finisce per sovrascriverla: «Anche se lo avessi immaginato, anche se quell’apparizione bianca fosse stata solo nella mia mente, perché dovrebbe essere meno reale? La mia mente esiste al pari di tutto ciò che proietta sul mondo. Quello che sto raccontando succede perché la mia mente è la mia realtà. […] L’importante non è ciò che è reale, ma ciò che è vero», scrive Annelise, filtrando sulla carta quello che è lo scopo della letteratura, sprigionare verità, senza alcun interesse censorio verso la realtà.

Il corpo femminile diventa un luogo estremo di esplorazione in cerca di verità nascoste su sé stesse, uno spazio di confine dove le trasformazioni più blasfeme possono avvenire in ogni istante, mentre gli uomini presenti nel romanzo restano spettatori interdetti e marginalizzati, quando non addirittura vittime inconsapevoli. Il desiderio esplode in tutta la sua ferocia e ogni pagina si scaglia più a fondo in questo incontenibile sabba di streghe. Il bianco diviene metafora del senso di attesa che precede il deflagrare della mostruosità, spiata dalle fessure tra le dita poggiate sugli occhi, esplosiva come i vulcani che l’autrice dissemina nelle sue descrizioni. Sostare sulla soglia del terrore è inammissibile, l’unica via possibile è accoglierne le vertigini e varcarla, oltrepassare il limite e precipitare nell’ignoto, oltre ogni dicibilità.

Mandibula è una storia dai livelli molteplici: è un trattato sulla creazione di cosmogonie narrative, è un’opera metaletteraria ma anche un thriller da spezzare il fiato e un romanzo di formazione dirottata. Soprattutto, è un’analisi della brutalità e dei volti che può vestire, come la vampira Carmilla, a volte languida e bellissima ragazza, a volte terribile demonio in una cappella diroccata. La distanza tra le due figure potrebbe essere molto più sottile di quanto si preferisca supporre.

Eppure: «Non fate finta che non vi piaccia», sentenzia Annelise, e Ojeda con lei, «Ha senso solo se c’è pericolo […] Solo se è pericoloso è divertente».