Tra le crepe di una nazione in disfacimento, si intravede oggi ciò le due coste americane hanno spesso edulcorato e distorto, imprigionando gli abitanti dell’entroterra in immagini preconfezionate di agricoltori bidimensionali, circondati da un’aura di bonarietà pratica, indecisa tra il compatimento, il disprezzo e l’esaltazione patriottica.
Chi ha amato Steinbeck oggi può rallegrarsi del ritorno nell’immaginario collettivo di un’America più aspra e meno urbana, perché ha l’occasione di riprendere il filo di una storia passata in secondo piano a lungo e a torto. Per addentrarsi in questo vecchio Nuovo mondo, può far da bussola la nuova collana di Black Coffee, This Land, inaugurata dai panorami mozzafiato di Antropologia del turchese, che adesso si concentra sulla regione delle Grandi Pianure per indagare il rapporto viscerale tra il proletariato bianco e la presunta “terra delle possibilità”.
Heartland, l’interessante memoir matrilineare della giornalista e scrittrice Sarah Smarsh, tradotto per l’Italia da Federica Principi, spiega con la franchezza dell’esperienza e il piglio del buon reportage narrativo cosa significhi vivere sotto la soglia della povertà – una «povertà finanziaria ed emotiva che si eredita senza avere scelta» – nel cuore del Paese più ricco del mondo.
Smarsh ripercorre l’epopea intergenerazionale della propria famiglia – un gruppo di agricoltori di origine tedesca insediatisi nei pressi di Wichita, nel Kansas meridionale – per spiegare a August, la figlia mai nata, perché abbia deciso di interrompere il ciclo di gravidanze premature che hanno segnato la vita di tutte le donne che l’hanno preceduta.
A onor del vero, il dialogo con la figlia immaginaria rischia talvolta di risultare studiato e lievemente fuori sincrono nei toni rispetto al solido apporto in termini di dati e ricostruzione socioeconomica che lo controbilancia e in cui risiede il vero valore del libro. Il racconto famigliare, poi, non eguaglia le vette di commozione di Hillbilly Elegy, l’autobiografia di J.D. Vance da cui Ron Howard ha tratto un meraviglioso film, capace di tradurre in immagini l’implosione della working class bianca.
Ciononostante Smarsh riesce a collocare la propria storia in un affresco ampio e corale, componendo un’elegia americana al femminile, in cui spiccano la vitalità combattiva della nonna materna – Betty, un’autentica sopravvissuta che riesce a strappare un impiego da ufficiale giudiziario nella contea di Sedgwick – e la presenza ombrosa della madre, costretta troppo presto a rinunciare alle proprie aspirazioni a causa di una maternità indesiderata. Storie di donne soggette a pericoli e a sforzi fisici di ogni genere, senza assicurazione sanitaria, in una condizione perennemente migratoria, nel quadro di un paesaggio monotono, ostile e dai pochissimi sbocchi esistenziali. Le peripezie di Dorothy, Betty, Jeannie, l’infanzia di Sarah, il viavai di uomini inaffidabili e aggressivi, l’eccezionalità del nonno Arnie e del padre Nick bastano a traghettare qualsiasi lettore nello sconfinato microcosmo dell’America rurale, facendogli dimenticare pregiudizi e semplificazioni da cartolina.
Per esempio, Heartland ci ricorda che la stragrande maggioranza dei poveri statunitensi è di pelle bianca. Considerazione di per sé ovvia ma non altrettanto tenuta in conto quando si parla di Stati Uniti, che di certo non serve a Smarsh per sminuire l’impatto della questione razziale – che rimane nella sua visione uno dei più gravi limiti alla mobilità sociale –, ma per sottolineare come il tradimento del sogno americano sia avvenuto in primis per quella fetta della popolazione cui pareva destinato.
«Negli Stati Uniti umiliare i poveri rappresenta una forma molto originale di bigottismo che non riguarda soltanto chi, o che cosa, si è – il colore della pelle, il genere verso cui si prova attrazione, il fatto di stesso di avere un utero. Ha piuttosto a che fare con il fallimento delle proprie azioni»
Ciò che è othered, ciò che può essere reso/pensato come altro, è odiato in quanto tale: ma il bianco povero è tutt’altra gatta da pelare per il benestante, poiché ne rappresenta il doppio disfunzionale, perché «per questa società l’essere bianchi è sinonimo di potere». Così, semplicemente, il povero bianco sparisce dalla narrazione del Paese.
«Vivevamo ogni giorno difficoltà che facevano sorgere una domanda scomoda sull’America, e che molti non erano pronti ad affrontare: se una persona poteva andare ogni giorno al lavoro ma non essere comunque in grado di pagare le bollette, e se il razzismo non c’entrava, allora c’era sotto un problema meno esplicito. Ma quale?»
Il Midwest raccontato da Sarah Smarsh non è la roccaforte dell’ala più conservativa del Paese, decisiva nelle elezioni del 2016, né la «campagna da sorvolare» popolata di rednecks bifolchi, come la si vorrebbe sbrigativamente definire a est e a ovest, ma il grande rimosso di una società fondata sul mito della terra che ha dimenticato chi l’ha nutrita e sostentata per decenni, permettendole di imporsi come potenza mondiale.
Dalla sua peculiare prospettiva, Smarsh riconosce il fallimento di un sistema economico fondato sull’idea che l’individuo sia l’unico responsabile dei propri successi e fallimenti. Lo spirito del capitalismo, portato alle sue estreme conseguenze, s’infrange contro la presa di coscienza che il duro lavoro può non portare frutti, contro il sospetto che la miseria sia per sempre.
«Il Sogno americano, però, un prezzo ce l’ha. Cambia in base al luogo in cui sei nato e a chi sono i tuoi genitori, al colore della tua pelle e al conto in banca della tua famiglia. Più sei povero, più il prezzo è alto. Puoi pagarlo con una vita intera di duro lavoro e restare senza nulla in mano. O anche meno, se è per questo: puoi ritrovarti pieno di debiti, infortunato, indigente»
Al disincanto che porta dritto fino al baratro dell’alcolismo, della droga, della follia, Sarah Smarsh oppone un interrogativo-guida – «Cosa vorrei per mia figlia?» – che la protegge durante l’adolescenza e si mantiene intatto fino all’età adulta, quando si concretizzerà in un riscatto atteso da quattro generazioni. Aggrappandosi ai pochi strumenti a sua disposizione, la piccola Sarah arriva gradualmente a percepire ciò che senza una volontà ferrea di emancipazione sarebbe rimasto invisibile: la somma di energie disperse, di passi falsi, aggravati da una condizione di povertà irreparabile, complicata da interventi statali inadeguati e sommari, talvolta criminali, che costituisce la storia della propria famiglia. In fin dei conti, l’autrice rivendica il battesimo della terra, la purezza di un’esistenza ai limiti del nomadismo e a contatto con la natura, e offre la sua stessa parabola come la testimonianza di una possibilità, seppur remota, di sfuggire alle grinfie di un destino già scritto.
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