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Pochi vi sono
che ancora ricordano
quei giorni,
quelle battaglie, quei nomi,
ma il cuore
operaio
serba
il ricordo di quella rossa giornata.
Alla Comune di Parigi, Vladimir Vladimirovic Majakovskij

Il 18 marzo 1871 Parigi e il suo popolo lanciano l’assalto al cielo. Se il comunismo fosse una religione, di sicuro, la Comune sarebbe il suo atto fondativo, l’anno zero, l’egira – allo stesso tempo zenit e nadir – del «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» e che cavalca selvaggio l’Ottocento e il Novecento fino a sfondare il nuovo millennio, arrivando a incantare schiere di oppressi con una promessa di liberazione collettiva attraverso la costruzione di un mondo nuovo.

Quei mesi gloriosi del 1871 in cui gli ultimi di Parigi insorgono contro l’ingiustizia, servono come canovaccio per il Sol dell’Avvenire, come prova generale della rivoluzione con la erre maiuscola, lo riconoscono – senza infingimenti –perfino Marx e Lenin, che non mancheranno di tributare gloria eterna al sacrificio della Parigi ribelle. Giorni incendiari quelli, in grado di mostrare errori e debolezze che non dovranno essere mai più commessi dal popolo in armi, ma anche generosità, purezza e ardimento che influenzeranno a lungo chi vuole costruire un avvenire radioso sulle macerie fumanti delle vecchie ingiustizie.

L’ombra del fuoco pubblicato di recente da Edizioni e/o, ultimo lavoro di Hervé Le Corre – professore di liceo col vizio del noir e col feticcio della storia, autore fra gli altri de Il perfezionista, Dopo la guerra e Scambiare i lupi per cani – esplora il magma in eruzione che si sprigiona in quella rossa primavera del 1871, conducendo il lettore in un sentiero tortuoso farcito di sangue, piombo e rivoluzione, in cui non si nascondono però abisso, violenza e sopraffazione dell’animo umano. L’autore punta l’obiettivo sulla cosiddetta «settimana di sangue» – dal 21 al 28 maggio, anche se la vicenda descritta inizia il 18 – ovvero l’atto conclusivo di quella scintillante e disperata rivolta proletaria, mentre «comunardi di tutto il mondo uniti» attendono petto in fuori, fieri e sprezzanti, le baionette della reazione, pronti a difendere la loro idea di libertà, con ogni mezzo necessario.

Mentre la storia scorre impetuosa e i cani da guardia del Capitale, sotto forma dell’esercito versagliese guidato da Mac Mahon, stringono d’assedio la Comune, la narrazione si sciorina in tre piccole storie – microstorie, per dirla con Carlo Ginzburg – che lentamente conquistano il centro della scena. Il primo «ruscello narrativo» ha come protagonista l’amore disperato di Nicolas Bellac – soldato della comune del 105° battaglione federato impegnato a resistere sulle barricate – e di Caroline infermiera in prima linea; il secondo ha al centro un oscuro complotto mirato al rapimento di giovani donne su commissione che vede come esecutori materiali Pujols lo sfregiato, indole montanara e feroce, e il suo compagno di merende Clovis, cocchiere armato di cannemozze e spirito tormentato; infine il terzo racconta l’impegno del delegato alla sicurezza Antoine Roques, cittadino investito di poteri di polizia, teso a inseguire le tracce di quegli oscuri criminali seriali che terrorizzano la città. Nella grande confusione che regna sotto il cielo di Parigi queste tre vicende – Storia e storie –  si intrecciano e si sovrappongono in un continuo sali e scendi, mentre scorrono struggenti gli ultimi giorni della Comune.

Uno degli spunti più apprezzabili di tutto il libro è che Le Corre non sfugge alle contraddizioni della Comune. Non si sottrae alle scintille della rivolta, ma non ne celebra la retorica. Non idealizza un fenomeno che si presta all’esaltazione ma piuttosto lo sviscera e guarda fin dentro le frattaglie, arrivando a definirlo come un «sogno a bandoliera», un’odissea di piombo e polvere da sparo, un sogno d’acciaio, un disperato atto di resistenza, una gioia armata. Più volte si indugia sui conflitti interni al fronte ribelle, sulla contrapposizione aspra e dirompente fra la «Comune delle barricate» e la «Comune dei discorsi», quella dei fucili e della lotta opposta a quella parolaia delle assemblee e dei club post-giacobini. Combattimento contro parole. Prassi che fa a pugni con la teoria.

«Chi sta parlando di coraggio? Qui non sono soltanto le munizioni a mancare! Certe volte partiamo in trecento e arriviamo sì e no in cento. Cerchi gli altri e li vedi darsela a gambe urlando che gli ufficiali non capiscono niente e ci stanno portando al macello. Senza aver neppure sparato un colpo! Prendono il volo come passeri! Banda di codardi! Bisognerebbe metterli al muro!».

Sul campo rimane un ritratto di fatto autentico della classe operaia sulle barricate di Parigi, lontana dall’utopia e dalla catarsi, ma che si tinge di verità incarnandosi in quella «rude razza pagana» descritta da Mario Tronti o dalla rough working class evocata dai cultural studies britannici. Una schiera di villain, canaglie e furfanti, marginali, briganti, rigorosamente brutti, sporchi e cattivi ma dall’integrità inattaccabile e dai sogni cristallini, un misto travolgente di rabbia e amore, che pretende di cambiare il presente a passo di carica.

Fra i peones della rivolta risuonano poi continui peana al dio dell’alcool e dell’ebbrezza che diventano un mantra dall’eco liberatorio riassumibile nello slogan: «Se non si beve non è la mia rivoluzione». Fra una schioppettata, una sciabolata e una cannonata è difatti sempre presente la vita, persa nei suoi mille vizi e nelle sue ben poche virtù, anche di fronte a un cambiamento tanto epocale. Nonostante si percepisca la fine di un’era e tutti ammirino le macerie fumanti del loro esperimento sull’orlo del burrone – mentre lo status quo digrigna i denti, «si credeva di aver cancellato un vecchio mondo che invece sta tornando con grande clamore di fuoco e acciaio e sarà spietato» – i comunardi non scappano e non si impauriscono, rimangono puntellati a respirare quegli ultimi scampoli di libertà, tirando a pieni polmoni boccate di autentico ossigeno rivoluzionario e vivendo la vita di tutti i giorni, anche trincerandosi dietro un semplice goccio di vino. Tutto questo Le Corre lo scolpisce nel marmo con una prosa affilata, diventando il cantore di una potente insurrezione vitalista:

«[…] Erano andati a bere in piccoli caffè affollatissimi, pieni di gente che traboccava dai marciapiedi, una folla felice che cantava il domani, brindava con boccali pieni di promesse e ballava sul corpo del vecchio mondo calpestando cocci di vetro».

Sottotraccia c’è il costante riferimento alla cesura di quei giorni, alla modernità rapace che si affaccia – come se esistesse un prima e un dopo il 1871 – persino nell’arte della guerra e nel modo di concepire il conflitto:

«[…] Una guerra di genere nuovo, in cui ogni piazza sarà un campo di battaglia e ogni via una postazione da conquistare e difendere. Finite le eroiche cariche dei corazzieri e i calcoli strategici da partita a scacchi: sarà tutto un intrufolarsi, infiltrarsi, rasentare i muri spiando il pericolo in agguato alle finestre, prendere il nemico alle spalle, spararsi a bruciapelo, tagliarsi la gola nei vicoli, dare il colpo di grazia ai feriti negli androni».

Un’estrema brutalità che chiarisce che quando il gioco si fa duro – come in uno scontro di classe per la sopravvivenza, nella battaglia inconciliabile fra reazione e rivoluzione – non si fanno prigionieri, si fucila sul posto senza processo e senza appello, come fecero per altro i versagliesi nel cimitero di Père-Lachaise, davanti a quello che prenderà il nome di «muro dei federati». Sicuri della sconfitta e spalle al muro, uomini e donne della Comune vogliono combattere fino alla fine, irriducibili: «Ognuno, come una fiera evidenza, annuncia forte e chiaro il contributo che sta versando alla grande speranza». Pretendono di lasciare un’eredità di lotta perché non hanno altro. Desiderano essere esempio: «Quello che abbiamo cercato di fare servirà da modello, quello che abbiamo sbagliato servirà da lezione». Ormai la prateria è in fiamme. Qualcuno di sicuro raccoglierà il loro fucile, all’ombra dell’incendio della storia.

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