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Ha trent’anni e dice di chiamarsi Gesù il protagonista del nuovo romanzo di Giosuè Calaciura (Sellerio). Non è, forse o ancora, un predicatore, né tantomeno il Cristo venuto a portare la buona novella. È un uomo senza maiuscole, che non conosce nulla di più eterno del legno antico e non ha altri miracoli se non la musica del proprio flauto.

Dapprima sognatore e via via sempre più pragmatico, reca le stimmate (autoinflitte) di un destino beffardo, che da quando è nato lo costringe a fare i conti con la dura realtà della sua Palestina, terra aspra e dimenticata, alla periferia dell’Impero e della Storia. E in cui, tuttavia, nessuno è sconfitto una volta per tutte, e si può ancora amare, peccare, guardare al domani come all’alba di una nuova epoca.

Attribuendogli programmaticamente nient’altro che il nome proprio, Calaciura si smarca con grazia dalle dispute secolari sull’autocoscienza messianica, e allo stesso tempo tiene viva la pista del destino tragico. Il problema dell’equidistanza tra dogma e verità storica è risolto, fin da subito, sul terreno proprio del romanzo, inteso come arte del raccontare: e cioè con un’ingegnosa mise en abyme, che sospende innanzitutto l’incredulità di Gesù, e poi la nostra.

«Sono nato a Betlemme, trent’anni fa. Mia madre, quando ero bambino, raccontava la notte leggendaria della mia epifania per rendermi sopportabili i lunghi viaggi a dorso di asina».

La Natività, più che l’evento cruciale degli ultimi duemila anni, diventa così una specie di storia sherazadiana per scacciare «il dolore del tramonto che mi provocava crisi di malinconia ed eccessi di pianto» e che invece finirà per gravare il giovane Gesù di un’aspettativa insostenibile. Un’intuizione commovente, che introduce sulla scena un giovane come tanti, teso tra il bisogno di andare per il mondo e quello di dimostrarsi all’altezza delle vaghe aspettative del genitore.

Sulla sua parabola aleggia un sentore di predestinazione, nel quale egli stesso avverte l’odore di un tranello («Ho sempre la sensazione che il giorno prepari una trappola»), o più semplicemente di una suggestione.

Anche della Sacra Famiglia rimane ben poco: Giuseppe è un falegname taciturno e benevolo, che acconsente al matrimonio riparatore per salvare l’onore di Maria (rimasta incinta in circostanze non meglio indagate), ma che un giorno volterà le spalle al focolare domestico senza troppe spiegazioni, e soprattutto senza mai confermare a Gesù i racconti sulla sua nascita.

«Mio padre che faceva i miracoli con il legno, con le sue mani onnipotenti, che aveva sgrossato dalle radici ogni animale della Creazione per il mio divertimento – sarebbe bastato un alito per infondere la vita a quei giocattoli – si era perso nell’eternità. Mai più, in nessun luogo l’avrei incontrato. Mai più avrei potuto chiedergli: perché mi hai abbandonato».

L’allegoria del legno tornerà, con tutte le implicazioni del caso – spauracchio della croce incluso – a testimonianza di una prospettiva che incrocia sempre il dato materiale col simbolo. Così come tornerà il tradimento, altro topos del libro, e il raddoppiamento di vicende e nomi, fuori e dentro la pagina.

Volte le spalle alla madre, Gesù parte per Gerusalemme, dove spera di rintracciare Giuseppe e s’imbatte invece in un suo omonimo, anch’egli falegname, che gli offre un rifugio e un impiego da apprendista. Come accadeva quand’era piccolo e si recava nella grande città per santificare le feste ebraiche, la brulicante realtà urbana lo seduce e lo distrae. Il progetto di cercare il padre passa presto in secondo piano e l’iniziale Telemachia volge all’avventura pinocchiesca, in un florilegio di rivolgimenti e incontri che avvicina il romanzo più ai feuilleton ottocenteschi che non ai racconti evangelici.

Dal cugino e compagno di giochi Giovanni, nel quale s’intravede la vocazione del futuro Battista, all’inedito Barabba, padrone di un circo itinerante, a cui il giovane Gesù si aggregherà, sedotto dal fascino di una danzatrice velata, fino a Lazzaro e Giuda nell’ironico ruolo dei salvatori. Guidato da una lingua vivace ed elegante Calaciura combina spunti evangelici, affresco storico e sociale e pura invenzione romanzesca, costruendo un inaspettato ma credibile retroscena della parabola gesuana.

Occorre però ancora sottolineare come a raccontare questa storia sia in fondo un trentenne disilluso, e in un certo senso compiuto, assolutamente ignaro che la sua vita (forse) sarà fonte d’insegnamento e ispirazione per i secoli a venire. Il tema non è sottrarre Gesù alla sua dimensione divina, ma tenere la trascendenza in una forma ancora indecisa, custodita nel silenzio enigmatico di Maria.

Uno dei pregi di Io sono Gesù sta proprio nel collocarsi in questa zona d’ombra, che ci appaia e ci avvicina alla figura del Figlio per antonomasia, che vive come tutti il confronto con la propria ipotesi di grandezza e pare sfiorire gradualmente di fronte allo sgomento della propria “qualunquità”. Uno di noi, che cerca il senso non nella volta celeste, ma nei ricordi della propria gioventù animosa e pura, nelle prepotenze dell’Impero, nelle siccità inspiegabili, nelle asperità del paesaggio palestinese, negli snodi imperscrutabili del legno, figura immediata della natura nella sua plasmabilità e durezza inconoscibile.

Calaciura supera l’imbarazzo spirituale della nostra epoca e trova una nuova postura per attingere alla storia più formidabile di tutti i tempi, uno spazio narrativo immenso, non solo per il suo significato, costruzione successiva, ma soprattutto per le sue lacune e i suoi misteri.

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