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La depressione è una malattia semplice: con essa, la vita oscilla tra la luce e l’oscurità. La vita oscilla in Swing Low, ultimo romanzo di Miriam Toews (edito per Marcos y Marcos e tradotto da Maurizia Balmelli) e oscilla per Melvin, suo protagonista.

 «Da giovane oscillavo paurosamente tra l’idea che tutto importasse, che ogni parola, ogni azione, ogni compito fosse importante e l’idea che assolutamente niente lo fosse, che tutto fosse inutile».

Swing Low ha una copertina emblematica. Il suo disegno sembra rifarsi all’espressionismo di un bambino. Le linee, essenziali e morbide, contornano un uomo robusto che accenna un sorriso, ma che, nonostante tenga tra le mani una candela, rimane al buio; accanto a lui, una ragazza dai capelli lunghi prende appunti su alcuni fogli, sorridendo, mentre è illuminata da una luce di cui non si comprende l’origine.

Il prologo è raccontato in prima persona dalla stessa Toews, una delle due figlie di Melvin, al quale fu diagnosticato un disturbo bipolare in giovane età. Swing Low nasce come un dialogo padre-figlia: Miriam decide di aiutarlo a districare i suoi ultimi quarant’anni scrivendo appunti su bloc-notes. Dopo il suicidio dell’uomo, questi appunti sono diventati un libro.

Quando Melvin, a sessant’anni, si ritrova in un ospedale psichiatrico al limite delle forze, le cose appaiono disordinate e, per un uomo così metodico, perdere il senno risulta molto frustrante. Il depresso potrebbe dire che la sua vita è un completo fallimento e Melvin, in questo, non fa eccezione; eppure, la sua vita è stata tutto tranne che un fallimento. Nato nella cittadina canadese di Steinbach nel 1935, Melvin ha sempre mantenuto l’equilibrio:

«Il mio cervello è ancora bloccato. Volevo scrivere di me bambino ma… indietro, avanti, indietro, avanti, indietro… ingolfato».

Melvin pensa spesso alla sua vita come fosse un film, un film alternato al presente in ospedale, circondato da infermiere che lo assecondano e dalle figlie che lo rassicurano, ma spesso confonde i sogni per ricordi, come quelli che riguardano Elvira, la ragazza che è diventata sua moglie.

Elvira ha l’energia di un vulcano ed è disinteressata a mantenere l’equilibrio, a cominciare da quello delle loro famiglie. Lei e Melvin sono membri di una rigida comunità mennonita, oltre che cugini di secondo grado. Le dinamiche interne alla famiglia mennonita vengono dipinte con estrema oggettività dall’autrice, che le ha vissute sulla pelle. A diciotto anni, Miriam Toews è fuggita dalla sua comunità, mentre il padre vi è rimasto incagliato.

Si potrebbe improvvisare un’analisi sull’origine della depressione di Melvin nel moralismo bigotto di una famiglia composta da una madre alcolizzata, un padre depresso e il fantasma di una sorella morta poco dopo la nascita – per non parlare della sorella missionaria e del fratello medico in carriera, motivi di orgoglio. Quale sia il suo posto nel mondo, Melvin non lo sa, ma decide di non parlare a nessuno della sua depressione; semplicemente tace, ma non quando si trova in classe. Poco dopo il diploma, diventa insegnante di una scuola elementare: coi bambini è energico ed elettrizzante, insegnare è lo scopo che si prefigge quotidianamente e che, ogni settimana, si conclude con lunghe ore passate a letto, col benestare di Elvira.

Ogni azione è ponderata in base ai rischi che si potrebbero correre nel compierla: una lezione da autodidatta che Melvin impara all’interno di una gamma variegata di azioni, dalla più semplice alla più audace, come annunciare al vicinato l’arrivo della prima figlia, Marjorie. Il solo atto di fare qualcosa è valutato poi rispetto alle tracce di un recente periodo buio, che è più o meno sicuro di potersi lasciare alle spalle. Così, la sua vita riprende a oscillare, mentre quella degli altri appare incredibilmente stabile e fortunata.

Melvin ripercorre a tratti la genealogia di famiglia e scopre una curiosa similitudine con il padre. Dopo che questi, da giovane, ebbe passato tre mesi a letto per una crisi depressiva, diventò un produttore di uova. Il giovane Melvin aiuta il padre con la consegna delle uova e, nel frattempo, diventa egli stesso un uovo o così si immagina di essere: un oggetto protetto da una perfetta corazza, che si rivela fragile se non viene maneggiato con cautela, oppure uno scrigno ovoidale silenzioso che non proferisce parola e aspetta soltanto di infrangersi in mille pezzi.

«Da bambino mi sentivo la responsabilità di essere qualcuno che non procurasse altro dolore ai miei genitori. Pensavo di essere in grado di controllare la tristezza silenziosa di mio padre e l’alcolismo di mia madre evitando di infliggere alle loro vite ulteriori patimenti».

Il passato, per Melvin, è sempre pronto a ricordargli che avrebbe potuto fare diversamente; avrebbe potuto, ad esempio, scombinare l’apparente perfezione della sua comunità in un impeto di entusiasmo. La malinconia familiare ha sviluppato invece, in fretta, i caratteri di una disperazione condivisa: i sensi di colpa di Melvin nascono soprattutto dall’aver preferito un circolo vizioso di silenzio e quieto vivere al confronto di un dialogo rivelatore. Dunque, cos’è la depressione? È un potere, ed è assai simile al potere del diniego e della finzione. Nonostante si senta simile a un uovo, Melvin non perde tempo a comprendere quale sia l’origine della sua depressione; ci ragiona sopra, certo, ma ciò non gli impedisce di buttarsi nel mondo, per quanto spesso sia difficile risalire a galla.

«Ho pensato a una cosa. Troverò il bandolo di questo casino scrivendo. Raggirerò me stesso».

La narrazione di Toews persevera nel marcare i tratti claustrofobici della comunità mennonita, talmente avvinghiata all’indottrinamento religioso e alla modestia dei costumi che Elvira e Melvin risultano fuori posto per motivi estranei al seminato del provincialismo da cui provengono: la prima, infatti, è esuberante e vitale e non intende accontentarsi di essere donna di casa e chiesa, come vorrebbe la comunità; il secondo, invece, è portatore di un’indolenza scomoda in un luogo in cui l’uomo dovrebbe per natura essere un cardine incrollabile. Se Melvin è un cardine, però, lo è solo perché ciò gli permette di oscillare, a quanto pare sempre più in basso. L’arrivo della seconda figlia, Miriam, peggiora il suo sconforto per motivi non attribuibili all’affetto che nutre nei suoi confronti, ma che trovano alcune corrispondenze nella depressione del padre, che era stato a sua volta affetto da depressione. La volontà di epurare le influenze del passato si scontra con la consapevolezza di una disperazione presente, che potrebbe diventare tangibile.

«Nella mia testa le due fazioni in guerra avevano raggiunto un accordo precario, coi generali dei rispettivi eserciti di Mania e Depressione che si sporgevano oltre il grande spartiacque della mia mente devastata e si stringevano la mano».

Potere del diniego e della finzione. Melvin lo conosce bene e tenderà perlopiù a inventarsi colpe o ad aggrapparsi alla rabbia di essere rimasto irretito nel vischioso liquame di un abisso; d’altro canto, potrà godere di solide, seppur rare, esperienze che somiglieranno a una sequela di personali assoluzioni.

La vita di Melvin non ha niente di rocambolesco, è una vita tipo fatta di lavoro e famiglia, un ordinato orticello recintato in una città di provincia dove ci si aspetta che accadano poche cose e tanto basta a lui come alla moglie, che reagisce alle fisime del marito con sorrisi di comprensione e, talvolta, di rassegnazione; la cittadina di Steinbach può elevarsi a prototipo di arretratezza o di consapevole distacco da un mondo che, invece, non smette mai di correre, sebbene anche lì, prima o poi, i cambiamenti si facciano sentire. E allora, ci si chiede se la depressione si adagi sul sentimento dell’immobilismo o di un più intimo desiderio di scuotere le fondamenta di una vita altrimenti piatta.

«Era la metà degli anni Settanta e perfino Steinbach, seppur lentamente, stava cambiando coi tempi. Il che mi ricorda una barzelletta: Quanti mennoniti ci vogliono per cambiare una lampadina? Risposta: Cambiare?»

Anche se Melvin appartiene a una comunità che accetta con religiosa rassegnazione il male in una vita che sarebbe potuta essere più gentile, appare giusto riconoscere i suoi sforzi per non abbandonarsi del tutto alla disperazione; ciononostante, si potrebbe considerare il caso opposto, cioè che sia la depressione a chiedere alla persona di abbandonarsi a essa. Nei momenti di grande sconforto, cioè quando l’unica cosa da fare risulta non fare proprio nulla, bisognerà attendere che quel momento sia passato e la marea si sia abbassata. Toews non intende dipingere il padre coi tratti di un eroe sopravvissuto alla depressione, in primo luogo perché non c’è niente di eroico nel sopravvivere a una malattia: si può scegliere di combatterla o no e qualsiasi accanimento terapeutico è di per sé un male che non legittima alcun principio etico; secondariamente, perché Melvin è sempre stato un sopravvissuto e, raggiunti i sessanta, decide di andarsene dal mondo nell’unico modo per lui possibile.

«Nella buia casa della depressione non ci sono finestre da dove vedere gli altri, solo specchi».

E se la depressione fosse guardarsi troppo in profondità? E se, d’altro canto, non si potesse fare a meno di specchiarsi in questa profondità? Quando anche Elvira mostra i primi segni della vecchiaia e Melvin inizia a essere circondato dai nipoti, questi desidera soltanto essere immerso nell’oscurità, perché qualsiasi manifestazione di lievità e di bellezza è una tortura, così come l’angoscia di non sapere se scegliere la vita o la morte, nonostante facciano paura entrambe.

Melvin si toglie la vita un giorno soleggiato di maggio. Di qualunque natura sia stata la sua scelta, il suo, adesso, è un meritato riposo. E di qualunque natura sia la luce che rischiara la ragazza dai lunghi capelli sulla copertina, ha ricevuto una verità che perdura: «Le parole non hanno potuto salvare mio padre, ma la sua fede di una vita nel potere della letteratura e della scrittura continuerà a vivere».

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