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Sebbene Antoine Volodine non sia propriamente uno scrittore di distopie o di fantascienza (anche se ha esordito in quell’ambito da giovane, nel 1985), i suoi luoghi apocalittici “da fine-mondo” hanno sempre un’atmosfera affascinante, immergendo il lettore costantemente nell’angoscia senza però far mancare mai il suo classico humour nero. E tutto questo avviene grazie ad un’ampia conoscenza della letteratura e alla capacità di mescolare generi diversi. La sua opera affonda così le sue radici nei generi letterari più disparati, come ribadito tempo addietro in una sua intervista:

«Amiamo i grandi autori classici di tutti i paesi, almeno quelli che conosciamo e di cui leggiamo le opere. Inoltre, molte letterature e movimenti letterari sono all’origine della nostra audacia nel prendere la parola: il realismo magico sudamericano, il surrealismo, la letteratura classica russa, la letteratura sovietica degli anni venti e trenta».

Anzi, secondo l’autore francese il suo post-esotismo non è un genere, e nemmeno una corrente letteraria, ma una sorta di edificio letterario in corso d’opera, che aspetta di essere terminato. Con il suo ultimo libro, Streghe fraterne, edito da 66thand2nd, lo scrittore francese riesce nell’impresa di ampliare e allo stesso tempo rinnovare la sua opera, poggiandosi sopratutto sulla sua abilità stilistica e sul linguaggio, come un autentico sciamano.

Lo sciamano del linguaggio

«Era così e basta, uno dei rari momenti in cui la parola crea una forma di tempo, e di spazio, insieme alla morte del tempo e dello spazio».

– Streghe fraterne

A differenza di Terminus Radioso, che veniva considerato un romanzo, e Black Village dell’eteronimo Lutz Bassmann, che veniva denominato narrat, Streghe fraterne viene descritto come Intrarcane. L’intrarcana, o in francese entrevoûte, è una particolare costruzione post-esotica, già vista peraltro in un altro libro di Volodine, Gli animali che amiamo. Consiste in due testi di diversa natura che vengono correlati da una “volta”, un’asse centrale che crea un anello di congiunzione. L’arco immaginario indica uno spazio chiuso, non accessibile a tutti, ma solo ad una cerchia ristretta. Questa sorta di cerniera fa in modo che si crei una struttura circolare. Aleggia così un’aria di eco, di ripetizione, ma anche di indeterminatezza all’interno di tutto il libro. In una vecchia intervista, la traduttrice italiana Anna D’Elia ha spiegato così la nascita del termine italiano:

«Il caso dell’ entrevoûtes è, poi, anche più complesso. Bisognava trovare un termine che contenesse una componente architettonica (l’arco, o la volta), che esprimesse un senso di ammaliante mistero (arcano) e che rimandasse a una cerchia esclusiva di iniziati (inter nos): “intrarcane” mi è parso convincente ed ha riscosso la generosa approvazione dell’Autore».

L’intrarcana non è quindi solo una mera costruzione stilistica, ma ha un significato di ampio spettro, di natura magica, onirica, come se fossimo all’interno di un bardo, uno stato intermedio tra morte e rinascita (non a caso una delle influenze più forti del post-esotismo è il Libro Tibetano dei Morti). Questo “sistema” viene spiegato ampiamente in Il post-esotismo in dieci lezioni:

«Suggerisce delle pratiche magiche, un misterioso incantamento e, allo stesso tempo, un’intimità musicale, fatta di intessuto onirismo, di reciprocità e condivisione; mette bene in luce la natura circolare di tale struttura, la sua curvatura semplice e solida. […] Leggere una raccolta di intrarcane corrobora la certezza post-esotica di essere “tra intimi”. […] Il campo letterario dell’intrarcana si apre sull’infinito: diviene insomma la destinazione di un viaggio, un porto per il narratore, una terra d’esilio per il lettore, un esilio tranquillo, fuori dalla portata del nemico».

In Streghe fraterne dunque abbiamo a che fare sostanzialmente con un trittico. Nella prima parte, l’unica che potremmo definire come un racconto tradizionale, chiamata Teatro o morte, assistiamo all’interrogatorio di Eliane Schubert, attrice di teatro, da parte di un interlocutore sconosciuto, che reprime severamente ogni tipo di empatia («Non facciamo troppe inutili descrizioni. Non c’è bisogno di questa gamma di colori. Soltanto i fatti»).
Eliane è l’ultima sopravvissuta della Gran Nidiante, una compagnia teatrale che vagabondava in un territorio desertico e sconfinato, simile a quella Seconda Unione Sovietica post-apocalittica di Terminus radioso, prima di essere assalita e decimata da alcuni briganti. In questa regione il teatro sembra essere l’unica forma d’arte rimasta, anche se in una forma ancestrale, simile ad un’«umile cerimonia di tipo sciamanico». Soltanto le donne della compagnia potevano prendere la parola durante i loro spettacoli. Dopo esser state imprigionate tutte dai briganti, vengono rese schiave, vittime di orribili stupri ed esecuzioni sommarie. Elaine rimane così l’unica custode di questo testo teatrale oscuro, una Cantopéra (altra costruzione post-esotica), o meglio alcuni stralci, chiamati “vociferazioni”, ereditate tempo prima dalla nonna e dalla madre. Come già visto nelle precedenti opere post-esotiche, queste figure di donne, spesso anziane, sono rivoluzionarie, attiviste, unite dalla solidarietà, dall’indipendenza e dal radicalismo politico, che giocano il ruolo non secondario di educatrici o formatrici ideologiche.

Volodine nel 2004 ha realizzato una Cantopéra con il musicista Denis Frajerman, seguita poi dall’incisione di un disco, Vociferations. L’autore francese dice di essersi ispirato al “canto-pop”, ovvero una musica pop della regione del Guangdong (Canton, Macao, Hong Kong). Riguardo la Cantopéra, Volodine afferma che si tratta «un’opera musicale-letteraria, esclusivamente vocale, fatta di sussurri e grida, maledizioni e consigli rivolti alle crisalidi per favorire la loro rinascita e la loro vendetta, ma prima della loro estinzione in un sonno immortale».

Arriviamo alla seconda parte, composta da 343 di queste “vociferazioni” distribuite in 49 capitoli (7x7x7. Il 49 è un numero che si ritrova spesso nel post-esotismo, in quanto sempre nel Libro tibetano dei morti quarantanove sono i giorni che separano l’uomo dal momento della sua morte a quello della rinascita). Questi enunciati, raccolti e enumerati, sono spesso politici, densi di una retorica rivoluzionaria, e incitano alla resistenza, alla lotta. Nel loro insieme formano così una sorta di poesia, amara ma allo stesso tempo musicale. Le “vociferazioni” di Volodine sono ispirate a sua volta dalla traduzione della raccolta Slogans (2004) di Maria Soudaïeva, una sciamana siberiano-coreana conosciuta a Macao (per chi non lo sapesse, Volodine è stato anche un traduttore, per lo più di romanzi dal russo e dal portoghese). Su Franceculture c’è una breve biografia della Soudaïeva, da cui forse trae spunto o rende omaggio Streghe Fraterne:

«Maria Soudaïeva è nata nel 1954 a Vladivostok. Di padre russo e madre coreana, ha vissuto in Corea, Cina e Vietnam. Soffre giovanissima di disturbi psicologici accompagnati da visioni caotiche, è stata spesso ricoverata in ospedale. Fu durante questi soggiorni che scrisse una parte importante della sua opera poetica. Irritata dalla deriva mafiosa della Russia post-sovietica, ha cercato con il fratello di aiutare alcune prostitute dell’ex estremo oriente sovietico che volevano sfuggire ai loro magnaccia. Si è suicidata nel febbraio 2003. Nessun testo su di lei è stato pubblicato in Russia. Le sue poesie, composte da frasi allucinatorie, sono state tradotte in francese con il titolo Slogans, tradotto dal russo da Antoine Volodine, pubblicato da L’Olivier nel 2004».

La Cantopéra di Terminus Radioso

Si arriva così alla terza parte, se vogliamo ancora più di difficile comprensione ma anche il punto più alto del libro, con invenzioni lessicali, liricismi, parole arcane, enumerazioni barocche, ed è composta da una sola frase di 100 (!) pagine in terza persona. Una frase senza punti che trasmette un senso di non-fine. Il titolo è “Dura Nox, sed Nox”, e anche qui il termine latino nox si presta a molte sfumature: oltre alla traduzione letterale “notte” può indicare “tenebre, “oscurità, “sonno eterno, “morte, “mondo dei morti e così via. Il protagonista, anche qui, è pressoché sconosciuto, e più che umano, sembra essere un essere polimorfo o uno spirito, quasi divino (capace di riemergere da un esilio di «dodici volte dodicimila anni»): può entrare e uscire sia da corpi diversi, uomini o donne, sia all’interno di sogni altrui. I lettori più attenti di Volodine ricorderanno poteri soprannaturali simili al personaggio dell’orco Soloviei di Terminus radioso. Ma in Streghe fraterne quest’essere è profondamente abietto, che commette stupri, incesti, omicidi e unisce l’onnipotenza, potendosi reincarnare e resuscitare all’infinito, all’orrore dei suoi atti.

Il tormento e l’angoscia trasuda da queste pagine, ma Volodine come detto è capace anche di inserire anche in questi passaggi una sfumatura buffa, ironica piuttosto che un atteggiamento parodiante, caricaturale, tanto da inserirsi lui stesso nel testo insieme ai suoi sodali: «le quartine di poeti post-esotici che un tempo Volodine, per pura gelosia meschina, aveva sottaciuto».

Tra veglia e sogno

«[…] si finisce in un universo di mezzo, in un qualcosa dove tutto esiste in maniera potente, dove nulla è illusione, ma dove, allo stesso tempo, si ha l’inquietante sensazione di essere prigionieri dentro un’immagine e di spostarsi in un sogno alieno, dentro un Bardo in cui si è come alieni, intrusi assai poco simpatici, né vivi né morti, in un sogno senza via d’uscita e senza tempo».

Terminus radioso

«…prima aspettò che intorno a sé si levasse un’oscurità spessa, poi». E’ la frase conclusiva di Streghe fraterne, che che si chiude con un sussurro, un bisbiglio prima del silenzio, del vuoto. Ma Volodine sembra indicare che la parola è il motore di ogni cosa, che sopravvive a tutto, abita nel silenzio e si genera e si rigenera indipendentemente dal tempo. Un’eterna quiete e un movimento perpetuo. Nel mezzo sembra esserci questo stato intermedio, fatto di sonno e veglia, realtà e sogno, vita e morte, chiuse tutte in un cerchio eterno. Il bardo di cui sopra, appunto. Gli impulsi terreni si sovvrappongono alle immagini oniriche, la solidarietà fra un collettivo di donne, da cui prende il titolo l’opera, fa da contraltare alla violenza e all’individualismo maschile.

Streghe fraterne ripercorre tutti i temi cari al post-esotismo: sappiamo infatti che questi autori dissidenti hanno combattuto per rovesciare il sistema economico. Dopo la loro sconfitta, sono stati tutti imprigionati, condannati al silenzio. Volodine e gli altri raccontano della fine del capitalismo, delle successive rivoluzioni fallite e delle varie catastrofi di questo mondo post-apocalittico, dove ciascun individuo non sa se è vivo o morto. La condizione di prigionia torna più volte, così come quello dell’eterno vagabondare senza meta. Un salto nel vuoto, dove la società torna ad uno stato primitivo, quindi privo di politica, dove l’io prevale al Noi (cosa che disdegnano i post-esotici, che dichiarano che «ogni narrazione post-esotista è frutto di un sogno “collettivo”. Ogni ambizione personale si annulla nel volere collettivo»). Da questa reclusione nascono i loro racconti, in forma orale prima, quasi sussurata fra di loro, e poi in forma scritta, grazie a dei fogli clandestini, di cui Volodine è il portavoce. Ed è da questi capisaldi che Volodine costruisce la spirale infinita del libro, che come il suo movimento genera «una letteratura che viene dal nulla e va verso il nulla».

Seguendo la sua bibliografia, Streghe fraterne è il 43esimo di 49 libri (sempre 49, sì). Volodine afferma che raggiunto quel traguardo, tutti gli autori post-esotici poseranno la penna e rimarranno in silenzio. Sicuramente i suoi lettori auspicano il contrario, poichè come Streghe fraterne ci insegna, questo sonno immortale potrebbe essere troppo duro da sopportare…

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