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«Si accorgeva, ad esempio, che un luogo continuava ad ossessionarlo, e sapeva benissimo che quello era un sintomo inequivocabile. Che cosa è un romanzo infatti se non l’invenzione di un luogo?». Questa citazione non viene dal libro che trovate indicato nel titolo, né da uno qualsiasi dei testi di Edgardo Franzosini. La citazione viene da Proprietà perduta di Franco Cordelli, un libro pubblicato nel 1983 che, detto molto sommariamente, affronta e riassume, in tutte le loro contraddizioni, le esperienze del Festival dei Poeti di Castelporziano del 1979 e della replica dell’anno seguente nella più ordinata cornice romana di piazza di Siena, a Villa Borghese.

Cosa c’entra Edgardo Franzosini, un riparato scrittore milanese, classe 1952, autore di pochi ma significativi libri (che a una prima occhiata è facile rubricare tra le biografie), con Franco Cordelli, romano del 1943, romanziere e intellettuale tra i più attivi degli ultimi cinquant’anni? Nulla, apparentemente. Eppure, proprio quella citazione di Cordelli non accennava ad allontanarsi dalla mia testa durante la lettura di Sul monte verità; e in generale altre volte, accostandomi a Franzosini, a quella prosa così preziosa e sorniona, imperturbabile ma appassionata, non smettevo di pensare a un rapporto tra questi due scrittori, a una vicinanza dovuta non tanto a soluzioni stilistiche o a qualche forma di prossimità tra i soggetti su cui lavorano, quanto all’atteggiamento problematico, non scontato, con cui si rapportano alla parola scritta e in particolare a quella specifica forma di scrittura che è il romanzo.

Il Cordelli dei libri sui poeti, in particolare, si è fatto sentire con più urgenza. Perché se è vero che in ogni suo libro, dall’esordio di Procida al più recente Una sostanza sottile, una riflessione sul genere romanzo è sempre stata messa in atto (riflessione che negli anni si è articolata anche in libri di natura esplicitamente saggistica: due su tutti Partenze eroiche e La democrazia magica), questo è valido soprattutto per quei testi che si muovono ai limiti del genere, mescolando la narrazione al saggio, la memorialistica al reportage, piegando la prosa a diverse soluzioni e chiamando in causa le possibilità stesse del romanzo, genere ibrido e disponibile alle contaminazioni più di qualsiasi altro. E questi testi sono appunto quelli dedicati ai poeti: il già ricordato Proprietà perduta ma anche Il poeta postumo, del 1978, cronaca, documento o resoconto delle esibizioni poetiche che hanno avuto luogo al Beat 72 di Roma nella primavera del 1977. Sono libri che partono da un dato reale, vissuto dall’autore, che tuttavia si diverte a giocare con sé stesso, col suo nome, con il limite che separa vero e falso, finendo non solo con l’interrogare il senso di questi eventi, il ruolo o il limite della poesia in un dato momento storico, ma anche il valore che ha la parola romanzesca di fronte alla strade della finzione, richiamandosi a certe esperienze statunitensi – viene in mente il Norman Mailer delle Armate della notte – e decisamente in anticipo, qui in Italia, su qualsiasi proposta legata all’autofiction o ad altre sue declinazioni. Non è un caso che in entrambi i titoli compaia il nume tutelare di Vladimir Nabokov: Proprietà perduta è il libro di Sebastian Knight nella Vera vita di Sebastian Knight, mentre nel Poeta postumo, tra le quattro citazioni in esergo, quella del russo suona piuttosto emblematica: «Realtà: una delle poche parole prive di significato senza virgolette». E in questo discorso, in un orizzonte più esplicitamente romanzesco, si inseriscono anche due romanzi di quel periodo: Le forze in campo del 1979 e I puri spiriti del 1981, ma rischieremmo di andare troppo lontano.

Anche Franzosini, che spesso si è occupato di persone realmente esistite, vissute ai limiti della società e segnate da abitudini davvero fuori dall’ordinario, si pone il problema della realtà e della narrazione. Sul Monte Verità, originariamente del 2014 ma recentemente riproposto dal Saggiatore, porta nel frontespizio, sotto al titolo, una dicitura che non ammette repliche: “Romanzo”. Ma si tratta di un romanzo nel senso che comunemente attribuiamo al termine? No, ovviamente. Ancor più interessante, allora, è l’avvertimento che si trova nella pagina seguente: «I protagonisti di questa storia sono persone, se non proprio tutte, per la gran parte realmente esistite. Le circostanze nelle quali agiscono sono invece assolutamente immaginarie».

I due piani narrativi che portano avanti la storia, quello del narratore che dice “Io”, che inizia e conclude il libro, e quello di Else Beer (l’ultima monteveritiana), la cui voce occupa la maggior parte del testo, ricostruiscono la vita di Alceste Paleari, l’eremita del culto della noce di cocco giunto presso il Monte Verità nel 1917 e lì trovato morto sedici anni dopo, con la testa sfracellata accanto alla palma oggetto della sua devozione. Non si trovano molte notizie su di lui, dichiara subito Else, intervistata dal narratore a proposito di questo bizzarro individuo. Nel lungo racconto che segue, emergono però diversi dettagli sulla sua vita: lo studio della musica e del ballo, le circostanze che lo hanno portato a conoscere Else, il legame con la massoneria, l’incontro con Alister Crowley, fino alla scoperta del luogo che dà il titolo al libro. Realtà e finzione, ripensando all’avvertimento riportato poco più sopra, sono mescolati a un livello indeterminato. Chissà quali sono i personaggi realmente esistiti e chissà fino a che punto le circostanze sono immaginarie. Perché il Monte Verità esiste davvero. Si trova in Svizzera, sopra Ascona, nel Canton Ticino, e davvero è stato il luogo in cui è stata fondata una comunità che ospitava individui anche molto diversi tra loro: utopisti, seguaci di un proprio culto o gente semplicemente desiderosa di uscire dalle convenzioni dell’esistenza borghese per abbracciare un regime di vita lontano da ogni stereotipata consuetudine. Fino a che punto è reale la testimonianza di una persona, Else Beer, su un’altra persona, Alceste Paleari, che pare confondersi tra gli abitanti del Monte Verità? E quando una cosa, o un essere umano, viene solo immaginata, magari nella vividezza di quei prodotti incredibilmente avvolgenti della nostra mente quali sono i sogni, può avere un suo peso materiale nella realtà? Verrebbe da rispondere di no, per pura logica, ma questi enti possono comunque guadagnare una loro vita nell’immaginazione, nel parlato, o magari nello scritto, tra le pagine di un libro ad esempio, un po’ come accade al misterioso Alceste Paleari, forse reale forse no, ma ormai presente nella comunità del Monte Verità, nelle parole della fantomatica Beer o quanto meno tra le pagine di Franzosini (e viene ancora in mente Proprietà perduta, sia per la citazione che apre l’articolo che state leggendo, «Che cosa è un romanzo infatti se non l’invenzione di un luogo?», sia per quest’altra: «Solo la finzione giustifica la verità, anche la verità mancata: sogno, rivoluzione o vita che sia»). In un importante passaggio, una persona ricorda l’invenzione di Demian da parte di Herman Hesse (uno dei protagonisti del romanzo DemianStoria della giovinezza di Emil Sinclair): per molto tempo si è creduto che il modello fosse Gustav Gräser, tra le personalità di spicco del Monte Verità, salvo poi scoprire che alla base di tutto c’è un uomo con cui Hesse è venuto alla mani in un suo sogno. Una fantasia, quindi, «più simile a un’ossessione che a un gioco».
Gli affezionati lettori di Franzosini restano più che volentieri avvolti da questa inestricabile dialettica tra sogno e realtà, tra verità e finzione, perché conoscono bene le storie a cui sono stati abituati dal loro scrittore. Sanno che gli uomini evocati di volta in volta, da Bela Lugosi a Rembrandt Bugatti, dal Picassiette di Raymond Isidore e la sua cattedrale al Johann Ernst Biren del Mangiatore di carta (forse il suo capolavoro), sono realmente esistiti; sanno che la meravigliosa prosa che li chiama in causa, ironica e partecipe, consapevole della sua abilità ma priva di autocompiacimento, pur prendendosi libertà di tipo romanzesco e utilizzando schemi narrativi, arriverà a mettere a fuoco quell’elemento centrale, originario, che ha reso questi individui tanto unici da farli diventare Vampiri, artisti inimitabili, mangiatori di carta o vittime del potere (così Giuseppe Ripamonti, fonte essenziale di Manzoni per I promessi sposi e protagonista di Sotto l’ombra del cardinale, che subisce le ingiustizie del tutt’altro che santo e perfetto Borromeo, anch’egli di manzoniana memoria).

Sul Monte Verità cambia prospettiva, spinge con maggiore intensità sul potente strumento del romanzo mettendo ancor più in crisi il limite tra scrittura biografica (che dovrebbe tendere al vero) e scrittura narrativa (che teoricamente abbraccia la finzione). Forse meno emblematico e perfetto rispetto ad altri titoli, ma certamente più coraggioso e disponibile nell’interrogare limiti e prospettive che si aprono nello sconfinato campo della letteratura.

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