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«Io avrei scambiato il mondo degli esseri umani con quello dei gatti randagi».

Con queste parole, alla sua prima incursione nel mondo della narrativa (il romanzo Tutti gli altri, edito da Tunué, 2014), Francesca Matteoni condensa già l’approccio all’esistenza che l’accompagnerà nelle sue opere successive.
Nel 2021, sette anni dopo, esce per i tipi di effequ la raccolta Io sarò il rovo. Fiabe di un paese silenzioso, in cui l’autrice si confronta di nuovo con la forma racconto.

La fiaba è la prima possibilità narrativa che si impara a conoscere, un momento che attraversa la vita di ognuno. Incontrando la fiaba scopriamo dentro di noi un vuoto che solo le storie possono riempire: si spalanca una fame, per alcuni resta appena languore, per altri diventa voracità.
Matteoni riesce a creare un libro che risveglia nel lettore quel senso di meraviglia conosciuto da bambini, realizzando un’opera che, come recita l’etichetta incollata sulla copertina, non ha età.

Prima di esplorare Io sarò il rovo, si può (tentare di) mettere a fuoco meglio la sua autrice. Francesca Matteoni è studiosa di folklore (ha pubblicato i saggi Il famiglio della strega per Aras Edizioni e Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi, sempre per effequ) e poetessa (la sua ultima silloge, Ciò che il mondo separa, è uscita nel 2021 per Marcos y Marcos). Tiene laboratori di poesia e di tarocchi intuitivi, collabora con “L’Indiscreto” e “Nazione Indiana” in veste di narratrice e saggista. Un suo contributo, in cui si confronta col rapporto tra piante sciamaniche come l’ayahuasca e l’ecologia, appare inoltre nell’interessante collettanea La scommessa psichedelica, uscito per Quodlibet nel 2020.

La produzione di Matteoni è una foresta di specchi e riverberi. Le poesie dialogano con la sua peculiare manualistica e tutto confluisce nelle fiabe splendenti e a tratti malinconiche di Io sarò il rovo. Le molte vocazioni dell’autrice si incontrano, anche gli elementi più distanti si mescolano, e ne affiora un libro singolare, di cui la sensibilità profonda della narratrice è il tratto più inconfondibile.
La raccolta si articola come un tragitto: più che a dodici fiabe il lettore va incontro a dodici tappe, un percorso che termina in una Discesa (non a caso titolo dell’ultima parte, non a caso scritta in versi). I racconti variano per lunghezza e tematiche, alcuni prendono il via dalla quotidianità di un io narrante nel quale è facile identificarsi, altri si proiettano dal primo istante in un mondo fantastico, opposto o parallelo al nostro. Alcuni sembrano quasi frammenti di ricordo, riflessioni improvvise, altri articolano una vicenda dalla struttura maggiormente canonica ma mai scontata, in cui la citazione dal folklore più classico non è pedissequa ripresa ma rilettura e interpretazione, come se si stesse decifrando un arcano, con i suoi simboli fissi passati attraverso la lente di chi enuncia il responso.

Il territorio narrativo di Matteoni si radica certamente nella tradizione di Andersen e dei fratelli Grimm, ma anche delle Fiabe un po’ da piangere di Calvino, senza dimenticare il patrimonio di Angela Carter e la sua Camera di sangue. Il racconto fiabesco viene dunque sviluppato ed espanso assimilando questioni femministe, antispeciste ed ecologiste. Mantenendo la potenza della voce che sussurra accanto a un fuoco, la dimensione incantata di Francesca Matteoni conserva anche la realtà attuale e tormentosa di chi sta narrando. Così i boschi si mettono in cammino alla ricerca di un torrente spodestato dall’impatto antropico, così i personaggi umani riflettono sulla propria specie – «Fra le montagne, luci di case che si infittiscono, poi strade, metallo e acciaio, connessioni di un popolo che crede di tagliarsi via dal pianeta» –, e ancora, anche un semplice pentolino si rivela la chiave d’accesso a un passato ancestrale in cui è facile perdersi, dove il rapporto con l’elemento magico non è ancora andato perduto.

Tutte le storie sono percorse da un animismo acceso: un furetto è definito «piccola persona», in un aperto omaggio a Anna Maria Ortese, e in più di un racconto vi è un fluire costante da forma umana a forma animale. L’identità non è qualcosa di dato e monolitico, ma viene costantemente rimessa in discussione. Ragazzi vengono mutati in scriccioli, ragazze vivono dentro betulle, un corpo morto di rondine origina un uomo e una donna, in un ciclo infinito di trasmigrazioni. Quando in un racconto è presente il celeberrimo ‘viaggio dell’eroe’, Matteoni rende il cammino sempre malfermo, capovolto, incespicante. La figura altrettanto classica dell’‘aiutante’ è spesso a sua volta fallata, reticente. A differenza degli schemi consueti non c’è una netta separazione tra luci e ombre ma ogni ipotetica morale è lasciata a sfumare, come i chiaroscuri soffusi di un bosco. L’autrice racconta traumi e smarrimenti, rivestendoli con l’abbaglio del simbolico, sottolineando come le lezioni più importanti, quando si riesce a comprenderle, derivano spesso dal dolore:

«Ho un nome, ora. Quel nome che si guadagna dopo essersi persi e aver lottato nel mare di tutto il pianto dei vivi. Chiamami Cicatrice. Non sarò più il tuo vanto o la tua astuzia, sarò la tua memoria».

I protagonisti restano pieni di dubbi e domande, interrogativi così ampi che non possono trovare risposta, né distillare codici di comportamento e panacee narrative. Poche sono le affermazioni sicure, molte sono invece le frasi che si arrampicano in un punto di domanda e altrettante quelle che risuonano nella mente di chi legge. Il libro è un tessuto fitto di silenzi e di interrogativi.

«Ora che i corpi si ammalano, rifuggono il contatto, si affidano a maschere sintetiche invece che a vecchie maschere bestiali per la caccia, appare chiaro che le profezie non parlano di noi, che il mondo non parla di noi. Di che cosa parla il mondo?»

L’umano non è il centro del reale: lo spiegano i tempi interessanti in cui siamo immersi e lo spiega ancor meglio la fiaba. Ma l’umano può custodire la memoria, può essere molti mondi quando accetta di non esserne il nucleo, e questi mondi vengono esplorati in Io sarò il rovo con una lingua sapiente e lirica, che dalla Matteoni poetessa trae propulsione e bellezza. Racconti come Foresta d’ali, in cui una madre si ostina a proteggere la figlia dalla realtà esterna («Hai paura del mondo e fai bene. Non è un posto per te»), rimano con versi contenuti in Ciò che il mondo separa: «Mi fa scudo la strega/con le viscere aperte nella mia tazza./Bevo la figlia, una foglia d’orrore./Non è posto, là fuori, per una ragazza». Una pienezza di sensibilità che l’autrice dissemina in tutta la sua opera e che si ritrova in quest’ultima a raggiungere un momento culminante e trasformativo, non diverso dalle mutazioni subite o cercate dai suoi protagonisti.

Il sottotitolo della raccolta fa riferimento a un paese silenzioso e su entrambi i termini è opportuno soffermarsi. Paese è il luogo da cui si proviene, nel caso di Matteoni uno spazio di boschi e colline, ruscelli e volpi, dove il mistero è un patrimonio da custodire come un tesoro fragile. Il senso d’appartenenza ai luoghi e a sé stessi è parte del viaggio e viene conquistato solo attraversando lo smarrimento. Per quel che riguarda il silenzio, la scrittura tiene fede alla definizione: il lirismo della narrazione sembra bisbigliato, il ritmo scandito da assonanze e immagini leggere anche nei momenti più crudi in cui il conflitto è massimo: umano contro animale, umano contro vegetale, umano contro umano («Erano troppo giovani, ignari, pieni d’odio. Era la loro prima forma umana»). I temi enucleati sono molti e vasti, se ne rintracceranno probabilmente di nuovi a ogni rilettura, ma in tutti si infiltra la culla stessa della fiaba: l’infanzia, luogo in cui tra umanità e ferinità il confine è più tenue, luogo delle prime storie, tempo delle prime ferite.

«La pelle robusta degli anni cade quando si viaggia nel luogo d’origine: dev’essere per quelle spine che trovano sempre la via al sangue, anche se ci hanno punto molte stagioni prima».

Io sarò il rovo è un libro di cicatrici e del modo in cui è possibile trasformarle o lasciarsi trasformare da esse, un libro sul dolore dell’infanzia che finisce e sul tentativo di vivificarla attraverso le storie. Scandisce sentieri non battuti e magie inesplorate, in cui l’incanto ammansisce l’assioma al fondo del tempo che passa: «Crescere è sempre tradire».

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