Il 21 settembre 2021 il personaggio Matteo Trevisani morirà. È quanto è riportato su un albero genealogico speditogli per mail da un indirizzo sconosciuto, una mappa che percorre la storia della sua famiglia e risale alle fronde più antiche.
Il 15 settembre 2021 lo scrittore Matteo Trevisani consegna alle librerie il suo ultimo romanzo, Libro del sangue, una storia che ha per protagonista il suo alter ego su cui pende la profetica sentenza di morte; l’indagine in cui è immerso naviga nel mare del simbolico.
Lo scrittore non è nuovo a questo genere di approccio: anche l’esordio, Libro dei fulmini, aveva per protagonista un suo omonimo, che avrebbe poi fatto una breve apparizione anche nel successivo Libro del Sole. Mai come in questa terza opera lo sdoppiamento di autore e personaggio oltrepassa il mero gioco metaletterario e si rivela elemento cruciale dello svolgimento narrativo. Il meccanismo si innesta anche nella realtà al di fuori dalla pagina scritta e finisce per infestarla al punto che ci si chiede se davvero ci sia un Trevisani più vero dell’altro. L’autore mette in scena una storia incalzante, che parte da un mistero (perché quella data di morte? è possibile scongiurare una predizione tanto funesta?) e inizia spalancarne altri man mano che la ricerca del protagonista avanza nel tempo e nello spazio. In una dinastia segnata da naufragi e morti in mare aleggia lo spettro di un mostro, una balena spiaggiatasi realmente sulla costa di Fermo nel 1735 e divenuta emblema (e minaccia) per l’intera stirpe dei Trevisani.
«È stato questo, il seme dell’albero: sapere dove si origina la maledizione, quanti ne sono morti, a chi questa famiglia ha fatto così male. Chi si sta vendicando. Se ce lo meritiamo, oppure no».
Per rispondere a questa domanda Matteo mette in pausa la sua vita romana, la sua esistenza di padre e marito, e torna a un passato in cui era allievo di genealogia presso Alvise, riallacciando relazioni dimenticate e ritrovando passioni antiche, prima fra tutte quella dello studio delle famiglie. Libro del sangue è infatti anzitutto il ritratto della vertigine genealogica, lo sconcerto che assale chi si rende conto di quanto immenso sia l’albero che ci affratella tutti, quanto lontano, nel passato e nel futuro, si intrecci il sangue delle stirpi umane. «In quanti abitate, dentro di me?», si chiede Matteo all’inizio della storia, compiendo un’evocazione che ha i tratti della seduta spiritica, e i morti rispondono. La presenza degli avi è un’incursione costante e lirica, con brevi pagine in corsivo in cui se ne sente la voce, ora singola, ora unisona. Come nella tradizione della tragedia classica il coro osserva, onnisciente e sapiente, le azioni scandite dal destino dell’eroe mentre eredita e consuma la propria nemesi.
Ma Matteo non è solo una figura dalla sorte segnata: è anche, come il suo duplicato del nostro mondo, uno studioso, e di uno studioso è con ogni evidenza opera questo libro. L’elemento della ricerca predomina su quello prettamente “giallo” del volume, fagocitandolo e facendone l’espediente per dare sfogo ai labirinti della genealogia. Come i due romanzi precedenti, anche Libro del sangue è un testo iniziatico, in cui la dimensione del simbolico e dell’esoterico non sono orpelli ma nodi, e il percorso di apprendimento è il principale tragitto della storia. Giuseppe, l’avo di Matteo che incontra la balena arenata sulla spiaggia, «corse verso il mostro, perché voleva imparare a pensarlo» e allo stesso modo il protagonista si getta in pasto al mistero più fitto, perché più del pericolo e del desiderio di scongiurare la morte è cruciale per lui il bisogno di sapere. La balena d’altronde è un mostro non casuale: miraggio, figura dell’ossessione letteraria per eccellenza, è quell’alterità assoluta con cui bisogna fondersi, lo specchio in cui scrutarsi per potersi riconoscere:
«Non sapevo più chi ero, se il mostro che mi guardava o io che venivo guardato, e la voce che mi parlava dentro non aveva più nessun nome, ma era la voce di qualcun altro e il tempo che vivevo non era vero ma finto, era un finto tempo in cui ero andato a incastrarmi da solo».
La percezione della temporalità è un altro tema centrale di Libro del sangue. Se il cuore del volume sono i morti, gli innumerevoli avi da cui tutti discendiamo, se «tutte le cose parlano al posto dei morti» ma contemporaneamente «una sola è la voce dei morti», uno solo è anche il loro modo di esperire il tempo. Nell’esistenza oltre la vita non sussistono né passato né futuro, ogni cosa accade sempre, in una simultaneità perenne che annulla persino il concetto di discendenza: l’albero può crescere contro ogni logica in tutte le direzioni, in un fiorire di paradossi. La freccia retta del tempo dei vivi si spezza contro il tempo circolare dei morti, e ogni cosa è all’istante saputa. È con questa speranza che Matteo interroga i propri avi, mentre l’ostacolo di respirare ancora gli preclude ogni possibilità di conoscenza completa.
A differenza dei protagonisti dei suoi primi libri, il Matteo che corre sulle tracce del sangue compie la sua ricerca non per sé stesso, ma per spezzare una maledizione destinata a colpire, dopo di lui, suo figlio. La sua è anche una storia di paternità, del senso di mortalità che arriva insieme alla consapevolezza di aver generato – «il primo sentimento, la vergogna e il senso di colpa per la generazione». La genitorialità è un momento in cui ci si confronta in maniera più intensa con la morte ma anche con la possibilità di ingannarla, continuando a esistere in chi ci succederà: la vita del figlio diventa più importante della nostra e allo stesso tempo la contiene. È sì per sete di conoscenza, ma soprattutto per salvare questa vita, che il viaggio di Matteo inizia e per la prima volta si decentra. Il protagonista si sposta dalla sua città d’elezione, la Roma di cui i Fulmini e il Sole cantavano elegie, e la lascia indietro, per ritrovare le proprie origini prima nelle Marche e poi ancora più lontano: come l’immensa famiglia degli uomini, la storia si sparpaglia fino a incrociare le terre remote dell’Africa.
Con questo libro Trevisani sigilla in una trilogia i due precedenti, che trovano così ulteriore compimento e unione. Le tre storie restano indipendenti ma si parlano tra loro, riecheggiano nell’incontrarsi fortuito dei personaggi, nella struttura che ne ricalca i punti chiave (un enigma, un maestro, una prova in cui occorre oltrepassare sé stessi) rendendoli ritornelli di un unico canto.
Leggerli in ordine è osservare al microscopio l’evoluzione di un autore che prende consapevolezza della propria voce e solidifica la propria prosa. Trevisani riesce più che mai a infondere una consapevolezza linguistica profonda al suo personaggio, fino a raggiungere una scrittura luminosa e spontaneamente conscia di sé stessa, di ciò che desidera raccontare e del modo in cui intende farlo.
È con questa cognizione che Libro del sangue porta all’estremo uno dei doni più inestimabili offerti dalla scrittura: l’espansione letteraria della vita. Trevisani intreccia i rami reali del proprio albero, fatti storici accaduti e documentati, alla mitologia e all’invenzione più pura; e conferma così l’originalità della propria voce autoriale, perché una voce è anche le vicende che si sceglie di raccontare e il modo in cui le si tesse insieme.
«Studiare la famiglia era quello: studiare il mondo, perché la genealogia è uno dei modi attraverso cui la realtà esplica se stessa».
Il terzo libro di Trevisani è una presa di coscienza dello scrittore che è stato e soprattutto di quello che vuole essere. Al doppio movimento verticale – discendente nel primo volume, ascendente nel secondo – subentra adesso un tragitto orizzontale, il percorso di chi ha compreso che ogni famiglia è una narrazione pervasiva, che si espande all’infinito e che all’infinito può essere esplorata.
Dopo aver attraversato la tempesta di folgori e la tempesta solare, ammiriamo adesso l’albero; si spalanca immenso alle nostre spalle e ci attende paziente nel futuro, ma è solo un’illusione: dal mare si leva un’altra burrasca e la balena non smette mai di inghiottirci.
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