Skip to main content

C’è qualcosa di terribile nell’essere il messaggero, sei sempre contaminato dal messaggio.
Damon Galgut, La promessa

Con due finali alle spalle, nel 2003 e nel 2010, alla sua terza candidatura Damon Galgut ha vinto il Booker Prize – tra i premi letterari più prestigiosi al mondo, assegnato ogni anno al miglior romanzo scritto in lingua inglese e pubblicato nel Regno Unito o in Irlanda. Prima di lui c’erano riusciti solo due cittadini sudafricani (entrambi bianchi1 Questo potrebbe sembrare un dato superfluo. Il punto è che oltre a essere la nazione con la differenza economica più ampia tra classi sociali il Sudafrica è anche un paese in cui i bianchi sono una minoranza, e quindi il fatto che tutti e quattro i Booker Prize vinti da cittadini sudafricani siano andati a tre bianchi acquisirebbe un ruolo particolare se si volesse provare a indovinare da che parte è sbilanciata la nazione più ineguale del mondo., come Galgut), Nadine Gordimer e J. M. Coetzee2 Già che stiamo dando i numeri, Coetzee è anche il primo autore al mondo ad aver vinto il Booker Prize più di una volta, sono solo quattro gli autori che ci sono riusciti in tutta la storia del premio (dopo di lui, in ordine cronologico: Peter Carey, Hilary Mantel e Margaret Atwood) e nessuno è mai riuscito ad andare oltre la seconda vittoria (per ora)., e la vittoria diventa ancora più significativa se si pensa al fallace senso d’inferiorità culturale dell’ex colonia: il nuovo romanzo di Galgut non ha avuto recensioni su alcuna testata sudafricana in lingua inglese finché non è stata annunciata la candidatura ufficiale al premio. È il coronamento tardivo di una carriera in salita e iniziata molto presto.

In più interviste (eccone una) Galgut afferma di aver iniziato a osservare come uno scrittore all’età di sei anni, costretto a letto dal cancro. Ha esordito da diciannovenne e prima di scrivere l’opera che gli avrebbe fatto vincere il Booker Prize aveva già alle spalle otto romanzi pubblicati, di cui quattro tradotti in italiano: Il buon dottore (Guanda, 2005, trad. di Valeria Raimondi), L’impostore (Guanda, 2009, trad. di Silvia Piraccini), In una stanza sconosciuta (E/O, 2011, trad. di Claudia Valeria Letizia), Estate artica (E/O, 2014, trad. di Fabio Pedone). Concentratosi inizialmente su storie dal respiro più intimo, Galgut ha affrontato in modo sempre più diretto i problemi sociali e civili del suo paese, fino ad arrivare al suo ultimo romanzo, il più politico: La promessa (E/O, 2021, trad. di Tiziana Lo Porto).

A dare il titolo al romanzo è una promessa che Manie Swart fa alla moglie morente senza avere alcuna intenzione di rispettare la parola data. La storia inizia in Sudafrica, 1986, nel pieno dell’ultimo decennio di apartheid. Gli Swart sono una famiglia benestante, ovviamente bianca3E portano un cognome dall’ironia non particolarmente sottile: «swart» in afrikaans significa «nero»., hanno una bella casa e un grande terreno; sono Pa (Manie) e Ma (Rachel), il primogenito Anton, la figlia di mezzo Astrid e la tredicenne Amor. Nei suoi ultimi giorni di malattia (e anche in tutti gli altri, ma soprattutto nei suoi ultimi giorni di malattia) Rachel è stata assistita da Salome, domestica nera che vive in una casa piccola e fatiscente sul terreno degli Swart. Dal suo letto di morte, Rachel fa promettere al marito di donare la vecchia casa a Salome. Manie promette senza farsi troppi problemi – «i morti non vogliono niente», dirà più avanti –, vuole giusto fare contenta sua moglie, che tanto non potrà mai sapere di essere stata ingannata: da un certo punto di vista, è una bugia bianca4 A proposito di ironia non troppo sottile.. Il suo problema è che Amor, non vista, assiste alla promessa e la rivendicherà di fronte alla famiglia, chiedendo di realizzare l’ultimo desiderio di Rachel. La richiesta non viene accolta – è assurda – ma basta a far esplodere una volta per tutte i conflitti familiari, il risentimento, la rivalità, l’invidia e la frustrazione, e in quel momento finiscono gli Swart e inizia il romanzo.

Che cosa?
Salome non può diventare proprietaria della casa. Anche se Pa volesse, non potrebbe dargliela.
Perché no? dice lei, perplessa.
Perché sì, dice. È contro la legge.
La legge? Come mai?
Non dirai mica sul serio? Ma poi la guarda e vede che è serissima. Oh, santa pace, dice. Non hai capito in che paese vivi?
No, non lo ha capito. Amor ha tredici anni, la storia non l’ha ancora calpestata.
[…]
Ma perché? Dice. perché hai detto a Pa di dare a Salome la casa se sapevi che non poteva farlo?
Anton fa spallucce. Perché sì, dice. Mi sembrava giusto.
Ed è proprio allora, in minima parte, senza nemmeno esserne consapevole, che comincia a capire in che paese vive.

Ciascuna delle quattro sezioni che compongono La promessa è dedicata al funerale di uno degli Swart, le uniche occasioni in cui la famiglia si riunisce nell’arco di trent’anni. Come in una pièce5 Galgut ha studiato per diventare drammaturgo all’Università di Città del Capo e ha firmato diverse opere teatrali. Forse c’è una connessione fra questo dato e la struttura della trama di La promessa. Forse no., la scenografia è fissa (quasi tutte le scene si svolgono nei dintorni della casa familiare): la trama si sviluppa nel tempo più che nello spazio. In questo modo, Galgut ha occasione di giocare con lo sfondo e accostare il percorso del Sudafrica a quello dei suoi personaggi. Si sente l’ambizione di raccontare un paese attraverso una lente microcosmica, e l’autore non teme (anzi, probabilmente cerca) il confronto con i grandi romanzieri che hanno descritto la fine di una famiglia (primo fra tutti, Faulkner).

Sono le parole di Manie a generare il conflitto principale, ma anche Anton, il ragazzo che non riesce a sfruttare il suo potenziale e realizzarsi, personifica un’aspettativa disattesa; e ancora è una meta-promessa la scelta di Amor, che non può rinunciare all’idea di rispettare le ultime volontà di sua madre e che passa buona parte della sua vita a punirsi nel tentativo di espiare la colpa del padre (e la sua stessa colpa di essere bianca e discendente di colonialisti, ma su questo punto torneremo dopo). Il sentimento più esteso nel libro è un forte senso di delusione nei confronti di un futuro prefigurato ma mai raggiunto, e in questo senso la più falsa tra le speranze è quella del Sudafrica.

L’apartheid è finito, ecco, adesso moriamo l’uno accanto all’altro, in stretta vicinanza. È solo la parte del vivere che dobbiamo ancora risolvere.

Non è tanto un sogno che continua a sfuggire quanto un sogno che visto da vicino si rivela misero. Se la fine dell’apartheid e la presidenza di Mandela hanno portato a una società ancora ingiusta, corrotta e con enormi differenze sociali, l’idea che esista un modo per guarire il Sudafrica6 O il mondo, se è per questo. appare sempre più illusoria, delirante. La promessa non mantenuta è il concetto su cui si regge il romanzo, il simbolo della Storia sudafricana, eppure i personaggi di Galgut sono tutt’altro che allegorici.

Dal dolore di una ragazzina che prova in tutti i modi a negare la morte della madre all’ipocrisia di un prete cattolico7 Tutti i funzionari religiosi in questo romanzo – ed essendo un romanzo fatto solo di funerali, di funzionari religiosi ce ne sono parecchi – sono personaggi spregevoli. La promessa è un romanzo profondamente realistico. che giura il falso «sul santo sangue di Cristo», la capacità dell’autore di rappresentare i pensieri di protagonisti e comparse è fenomenale, sia per gamma emotiva che per capacità empatica. Nonostante il ruolo giocato dalla Storia nella storia, La promessa non mette mai in secondo piano la propria funzione narrativa e rimane prima di ogni altra cosa un romanzo emozionante, intrigante e divertente, una saga familiare il cui maggiore punto di forza non è il messaggio politico né la trama ma, come in tutta la letteratura degna di questo nome, lo stile.

La voce narrante è elastica, si deforma per adattarsi alle atmosfere e ai personaggi in scena e si ricalibra ogni volta senza perdere l’orientamento. I quattro grandi capitoli non hanno alcuna interruzione interna, Galgut sposta l’attenzione da una persona all’altra come in un lungo piano sequenza e non contento lo fa anche sembrare facile, naturale. Eredita da Joyce e Woolf la gestione di punti di vista multipli attraverso il discorso diretto e indiretto libero; segue il modello di Barth e costruisce un narratore spassosamente autoconsapevole; spazia tra prima seconda o terza persona senza problemi, spesso nella stessa frase («Non gli sembra sbagliato aspettare che si allontani per alzarsi e andarsene in giro nel buio della notte, come se avessi bevuto da solo. Cosa che probabilmente hai fatto»; «Mai quando era viva ha avuto bisogno di Rachel come in questo momento e la sua assenza è come acciaio freddo che arriva nel profondo. Sapeva come raggiungere la parte più intima di me»); modella la realtà mentre la descrive («Ha un gatto rannicchiato in grembo. No, non lo ha, non c’è nessun gatto. Ma lasciamole almeno un paio di piante, che crescono verdi nei loro barattoli sul davanzale»); si rivolge direttamente ai suoi personaggi («Sei stato abbandonato nell’ora del bisogno, Alwyn, dov’è ora il tuo soccorso? Solo il giusto viene messo alla prova, ricorda! Se aspetti, l’aiuto arriverà») o al lettore («Questa mattina era viva, inspirava ed espirava, pompava sangue e incubava pensieri, una creatura con intenzioni, una leggera forma di eczema all’interno del braccio e una cena in programma con gli amici. Non diversamente da te, forse»). Galgut raccoglie lezioni di modernismo e postmodernismo e le aggrega in un’unica voce meravigliosamente coerente.

Il narratore finge di non essere onnisciente, è un falso umile. A volte sostiene di avere dei limiti («Il lungo corpo scuro è increspato di muscoli, una cicatrice rosa gli serpeggia sulla schiena. Nasconde una qualche storia personale, non lo conosco abbastanza da chiedere») o di essersi dimenticato di menzionare un dettaglio perché il lettore non lo ha chiesto; ma alla pagina successiva potrebbe entrare nella testa di un passante e raccontare tutto quello che pensa per poi spostarsi sul punto di vista di uno sciacallo e dopo ancora su quello di un fantasma (tutte cose che succedono davvero nel romanzo). La voce che ci parla è così libera e onnipotente da risultare ridicola quando afferma di non poter raccontare qualcosa. E forse proprio per questo è interessante osservare cos’è che Galgut sceglie di non sapere.
Dopo aver passato due pagine a concentrarsi sul vagabondare di un senzatetto che si fa chiamare Bob, l’autore si ricrede: «Perché ci sta oscurando la vista, quest’uomo sporco e cencioso, che chiede compassione usando un nome che non gli appartiene? Perché ci fa perdere tempo con le sue storie? Insiste molto per essere notato, quanto è egocentrico, quanto è egoista. Non dedichiamogli altro tempo». È ostentatamente snob, si concentra solo su personaggi che appartengono a una certa classe sociale. E chi è il più povero in un paese appena uscito da un regime segregazionista?

Adeguando il piano narrativo a quello storico-politico, Galgut ignora, zittisce i personaggi neri. Non li sente, non li vede. Le uniche volte in cui leggiamo i loro pensieri ci arrivano per eufemismi, sono censurati. «Non è sempre possibile accontentare due bianchi contemporaneamente», pensa Lexington, l’autista degli Swart, quando il bianco che sta trasportando prova a sparlare dei suoi datori di lavoro. E questa frase è l’unica volta in tutto il romanzo in cui siamo davvero dentro al punto di vista di una persona nera in Sudafrica. Come Lexington non è libero di esprimersi ed è costretto a nascondere quello che pensa, così il narratore si limita a un’analisi superficiale delle vite e delle emozioni dei personaggi neri. Non è un caso che il peccato originale del romanzo, la promessa da cui parte tutto, sia una promessa fatta da Manie a Rachel. L’unica persona la cui vita verrebbe davvero influenzata da quanto promesso è Salome, ma lei non è neanche in scena in quel momento. Non sappiamo come si sente a vedersi negato il riconoscimento che la sua datrice di lavoro avrebbe voluto darle. Non sappiamo cosa pensa di Amor, che combatte affinché la promessa venga mantenuta. Non lo sappiamo perché non viene mai davvero presa in considerazione, dal narratore come dagli altri personaggi. Anton chiede a Manie di regalare la casa a Salome, ma lo fa solo per metterlo in difficoltà, per puro scontro padre-figlio. Amor si sforza per far mantenere la promessa, ma agisce per affetto nei confronti di Salome, la persona che l’ha cresciuta, o perché non sopporta che l’ultimo desiderio di sua madre rimanga inesaudito?

Oltre a essere un potente stratagemma letterario, l’omissione dei pensieri di Salome da parte di Galgut è una forma paradossale di rispetto. Un modo di ammettere i propri limiti storici e riprodurli in letteratura. Chi non riconosce i propri limiti, invece, è Amor.
Appena ne ha la facoltà, Amor si allontana dalla famiglia in un gesto implicito di protesta; tornerà per i funerali successivi, e ogni volta chiederà debolmente di regalare la casa a Salome per poi autoesiliarsi di nuovo e tornare a un silenzio decennale. A cosa serve una strategia del genere, se non a guadagnare la consapevolezza autoconsolatoria di aver combattuto dalla parte del bene? Amor crede in quello che fa, combatte per qualcosa; da un punto di vista puramente morale, è l’unico personaggio positivo tra i protagonisti del romanzo. Ma quanto è inutile la sua austerità? Quanto sterile il suo senso di colpa? I suoi gesti sono vuoti, come le parole di suo padre.

Ma quando le parole le vengono dette ad alta voce, lei non ci crede. Chiude gli occhi e scuote la testa. No, no. Quello che le ha appena detto sua zia non può essere vero. Non è morto nessuno. È solo una parola. Guarda la parola, lì sulla scrivania come un insetto capovolto, senza alcuna spiegazione.

La promessa parla dello svuotamento di valore, ancor prima che di senso; per questo prende il titolo da un atto linguistico, da un segno e non da un significato. È la parola data, non una casa, a occupare il centro della narrazione, così come il peccato originale di Manie è nei confronti di Rachel e non di Salome. È un romanzo sulla distanza tra verità e linguaggio, sulla capacità di mentire e mentirsi per riscrivere la propria storia; è una bugia raccontata benissimo, e come tutte le buone bugie assomiglia a qualcosa di vero.

Sei un ramo che sta perdendo le foglie e un giorno ti spezzerai. E allora? Allora niente. Altri rami riempiranno lo spazio. Altre storie si scriveranno sulle tue, cancellando ogni parola. Anche queste.

Note[+]

21 Comments

Leave a Reply