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Cosa potrebbe mai andare storto nel tentativo di dare un’educazione meticolosa e puntuale alla propria figlia sin dalla più tenera età? A cosa servono le regole di una madre, se non a dare, tra le altre cose, delle linee guida per essere degli adulti capaci di inserirsi bene nella società?
Dare delle risposte a queste domande non è esattamente lo scopo di quanto segue ma si potrà trovarne traccia ripercorrendo la lettura de La buona educazione, romanzo di esordio di Alice Bignardi, edito da edizioni e/o nella collana Dal Mondo.

In questo romanzo ambientato nella Roma degli anni duemila ci viene raccontata la relazione tra una madre e una figlia che non sono affatto una madre e una figlia qualsiasi, sono Antonella e Lisa, due caratteri – da intendersi nella doppia accezione di personaggi e di esseri umani con dei tratti caratteriali ben definiti – la cui forza emerge con tutto l’impeto di un qualsivoglia disastro. Come spesso accade però, le calamità possono presentarsi in maniere profondamente differenti e soprattutto vengono affrontate, il più delle volte, in modi diversi e a seconda degli strumenti che si hanno a disposizione. Così ci si trova davanti la versione di Lisa che, a dieci anni dalla morte della madre, procede a ritroso nella ricostruzione dei suoi ricordi ma viene subito detto, in tutta onestà, che:

«Di lei e sua madre insieme ricorda vividamente solo il momento più triste della sua vita. Tutto il resto è vago. Un garbuglio di ciò che è accaduto e avrebbe voluto accadesse. Ormai non distingue più le due cose. Questa, infatti, è la storia della malattia di sua madre, non com’è avvenuta realmente, ma come la ricorda sua figlia. Sono due cose completamente diverse».

Una volta lette le premesse, passando da un breve capitolo al successivo, ci si ritroverà sempre più consci dell’enorme complessità che il rapporto fra Lisa e Antonella porta con sé. Questa complessità è sbilanciata, grava tutta su Lisa e lo si può notare quando viene detto che quella con la madre era appunto «Una relazione per lei totalizzante che doveva sembrare fuori luogo a lei quanto agli altri, a suo fratello e a sua sorella soprattutto». In effetti Lisa è del tutto consapevole della visione «mammacentrica» che ha della vita, ma in questo percorso – che si compone di episodi non necessariamente posti in un ordine cronologico – è lampante quanto abbia pesato il piglio materno sul modo in cui la figlia guarda al mondo e a sé stessa. Perché mentre Lisa accetta il fare melodrammatico di Antonella, quest’ultima riversa sulla sua primogenita diverse fissazioni declinate in un cospicuo numero di regole, portando la figlia a percepirsi come costantemente in difetto e, spesso, a vedersi solamente come «un povero orso ammaestrato con indosso un gonnellino rosa e in mano un ombrello visibilmente troppo piccolo per riparare un orso dalla pioggia […]». Questo povero orso però all’età di sedici anni parla già diverse lingue, ha girato il mondo, sa perfettamente come stare a tavola e organizzare delle feste impeccabili come quelle di Antonella che dalla sua casa bella in un quartiere brutto intrattiene i suoi ospiti e riesce a controllare Lisa tramite degli sguardi di verifica comportamentale concordati precedentemente.

Di questo proliferare di dettami, però, Lisa inizia a vederne soprattutto i limiti che sono figli primigeni della regola numero uno, quella che è sottesa a tutte le altre e che a sei anni – età nella quale la relazione fra le due sembra essersi cristallizzata, facendo di lei una spugna assorbi direttiva – non le aveva fatto sorgere chissà quale dubbio; questo insegnamento diceva che le emozioni profonde non andavano esternate in quanto, in tal caso, avrebbero reso vane le altre regole, perché ciò che si prova «[…] fa di norma schifo, fa senso, è una cosa sporca, umida e impiastricciata e sono tutti pregati gentilmente di tenersi per sé quelle chiacchiere avvilenti e di non affliggere una bella situazione di festa e allegria con un pensiero triste». Così, mentre madre e figlia trascorrono il loro tempo insieme, immerse nel traffico di Roma, ogni discussione davvero rilevante rimane taciuta, costretta alla gola da quella prima regola, lasciando a entrambe l’illusione che avendo sempre qualcosa da imparare, nel caso di Lisa, e insegnare, nel caso di Antonella, quel qualcosa fosse veramente importante. Se c’è infatti un altro grande protagonista di questo romanzo è proprio il non-detto. Le volte in cui leggiamo ciò che Lisa avrebbe voluto dire si è quasi capaci di intravederlo, come fosse un’ombra lunga, di quelle che non deforma né colpisce in pieno, ma lascia inalterato l’intorno, intatto, proprio come vorrebbe Antonella.

In questo modo, proseguendo nella lettura si potrà rintracciare un ammontare di non-detto che peserà quanto − se non di più −, lo stesso narrato fatto di piccoli stralci di quotidianità e aneddoti capaci anche strappare un sorriso, qualche volta dal retrogusto amaro. Sebbene emerga un’immagine di Antonella come di donna che non risparmia mai nulla alla figlia – dalle osservazioni sulle coscettone ai continui e assillanti moniti circa lo studio – Bignardi non punta mai il dito, anzi fa venire a galla tutte le imperfezioni di un amore materno anch’esso imbrigliato, puramente imperfetto ma con indosso il vestito buono che nemmeno la malattia, in prima battuta, riesce a sgualcire. La regola numero uno, infatti, è chiaramente un’arma a doppio taglio che, nel momento di massima difficoltà, colpisce entrambe spingendo Lisa a più di una fuga – diverse vacanze studio e l’università a Milano – e Antonella a covare rancore poi tramutato in rabbia e continui litigi. Dalle fughe però spesso si torna e anche Lisa lo fa, fino a che tornare diventa restare più a lungo ma soprattutto fino a che le accese discussioni non diventano pacificate «conversazioni mute».

Bignardi riesce nel difficile compito di fermarsi sempre a un passo dal crollo, lo fa utilizzando una lingua piana, quasi come raccontasse una favola – priva però della maggior parte degli elementi di quel tipo di narrazione, nulla di squisitamente fantastico né verità morale sottesa o dichiarata –, una semplice storia dove il cattivo è dentro, fortificato e alimentato dal proprio silenzio, finendo così per non essere affatto una favola né tanto meno semplice.

Alice Bignardi – classe 1990, romana che vive a Milano dove lavora presso un’agenzia di comunicazione – in questo suo primo romanzo spoglia il discorso sulla malattia, sulla morte e non ultimo sul rapporto madre-figlia, di quella retorica che spesso ci racconta la perfezione delle persone amate, e ricostruisce in maniera frammentaria, dunque più che verosimile, le tracce del vissuto che la memoria custodisce e lo fa cominciando dalla fine, ma soprattutto a partire dalle parole ricordandoci, sin dall’incipit, che:

«Mamma è una parola densa. Resta nell’aria. Occupa lo spazio che verrà riempito, come a dare più tempo di arrivare a chi viene chiamato. È un concetto che si comprende davvero solo quando è presente. Se assente, muore nel tempo che ci metti a pronunciarlo. Cade nel vuoto, come speranza, musica o torta. Parole come queste, se non le provi, non le senti o non le assaggi, restano così generiche da non significare niente».

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