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I cani maltrattati se ne stanno acciambellati in un angolo con le orecchie perennemente abbassate come se fossero appassite e quando si muovono lo fanno in silenzio, in difesa, convinti che tutto esista con l’unico intento di ferirli. Scappano dalla violenza, ma mai veramente, la mano che ritornano ad annusare è la stessa che li ha colpiti, il corpo verso cui tendono è lo stesso che si è dimenato per scacciarli. 

Nel romanzo di Inès Cagnati, Marie cresce con la consapevolezza di essere un fastidio. Rincorre ossessivamente una madre che se la trascina dietro per dovere, «Non starmi tra i piedi» si sente ripetere la bambina, mentre le sue «gambette veloci» cercano di raggiungerla nei campi dall’erba troppo alta. Génie la matta è una rincorsa incessante, un unico movimento da un personaggio verso l’altro, il bastonato che ritorna dal bastone, il maltrattato che non saprebbe sopravvivere senza la fonte del dolore. 

Tradotto da Ena Marchi per Adelphi, Génie la matta porta per la prima volta in Italia il nome di Inès Cagnati (1937 – 2007), autrice che affida alla propria scrittura la responsabilità di raccontare la povertà nella Francia rurale, dimensione ampiamente autobiografica. Le due protagoniste abitano in una cascina appartata tra i salici circondata da volpi che si lamentano per la fame, in un microcosmo semplice, povero, in cui l’una è la totalità dell’altra. Génie lavora nei campi e nelle fattorie del paese in cambio di pochi soldi o dei prodotti che ha aiutato a seminare e raccogliere. Dietro di lei, come un’ombra, Marie vive in funzione dei suoi spostamenti, la rincorre per il terrore di essere abbandonata e la aspetta «con il cuore che fa il matto» quando non le viene permesso di allontanarsi dalla cascina. L’infanzia della bambina diventa l’estensione della vita di Génie, il suo umore dipende dalle azioni della donna, la sua serenità dalla quantità di affetto consentitole. Riesce a recuperare fiato solo quando la vede rincasare, umida di sudore e muta per la stanchezza, solo quando di notte le può appoggiare il volto nell’incavatura tra collo e spalla, già con l’angoscia di saperla lontana la mattina seguente. 

Ecco allora che, sia strutturalmente che tematicamente, il romanzo si basa quasi del tutto sullo stesso movimento narrativo. C’è un affanno nella lettura che è lo stesso di Marie quando prova a raggiungere Génie, senza mai riuscirci per davvero. A ogni capitolo (tutti brevissimi) ci ritroviamo sempre al punto di partenza, in un gesto che non si esaurisce, ma che si ripropone fino a instillare una sofferenza latente, uguale a quella affidata da Cagnati alle protagoniste e che a volte si palesa in maniera così estrema da diventare commovente: 

Spesso piangeva, la sera, davanti al fuoco. I suoi occhi avevano assunto il colore delle lacrime. Diceva: 
«Non ho avuto niente, io».
Io dicevo:
«Hai me». 
Ma lei continuava a piangere. Allora credevo che non mi volesse. Volevo amarla ogni minuto della mia vita perché mi volesse, la seguivo dappertutto. Lei diceva:
«Non starmi tra i piedi». 
Ma io volevo amarla, starle sempre accanto.  

Questo tipo di amore ossessivo e dipendente cresce in Marie scena dopo scena, diventando il motore e il punto focale del romanzo. Ma la scrittura di Cagnati lavora di sottofondo anche in un’altra direzione: l’evidente mancanza di affetto da parte di una madre nei confronti di una figlia non può che essere un argomento stratificato e multiforme. L’indifferenza emotiva è il risultato di un trauma, e nello specifico, di uno stupro. Questa violenza non è mai davvero palesata, ci è data da intuire, così come ci rendiamo conto lentamente e a singhiozzi che l’appellativo “pazza” viene attribuito a Génie per aver preso una decisione incomprensibile alla mentalità del paese fatta di apparenze. Génie ha tenuto, cresciuto e alimentato il risultato di quello stupro, dando alla luce Marie, e nel farlo si è auto-destinata a una vita misera, ai margini, facendosi ripudiare dalla sua stessa famiglia e diventando oggetto di scherno ogni volta che attraversa una strada affollata. 

Impariamo presto a valutare quel «Non ho avuto niente, io» non più come un’attribuzione di responsabilità ingiusta e sproporzionata nei confronti di una figlia senza colpe, ma come lo sfogo di un’esistenza spaccata, e il «Non starmi tra i piedi» come il desiderio istintivo di allontanare i figli dalla propria bruttezza, il riconoscersi nel marcio e il bisogno di tutelare chi, di quel marcio, ne è vittima. 

La meraviglia di questo romanzo arriva quando realizziamo che non è la storia di una madre che non desidera una figlia, ma di una madre che ha desiderato una figlia fin troppo e che non sa dove recuperare gli strumenti giusti per amarla come un genitore dovrebbe amare la vita che ha messo al mondo. 

Ci rendiamo conto, allora, che il bastone e il bastonato non possono essere racchiusi in una dicotomia netta, perché se Marie è vittima dell’anaffettività della madre, Génie lo è del mondo, di una società che ha stabilito per lei condizioni e mezzi, negandole la possibilità di identificarsi in altro che non sia la follia. 

In una quotidianità fatta di vesciche sui talloni, pareti tremolanti durante i temporali, paglia negli stivali per proteggersi dal freddo, Marie si consola con Rose e Benoît, rispettivamente una mucca cieca e un anatroccolo gracilissimo. La bambina si occupa di entrambi con l’impegno e le attenzioni che a lei sono sempre state negate, insegna a Rose a orientarsi nel terreno che circonda la casa, accompagna Benoît a bere dalle pozzanghere quando, agonizzante, inizia a perdere le piume, si confida con loro se la solitudine si fa troppo ingombrante. Cagnati riesce in questo modo a creare una sorta di stonatura, costruendo per Marie un’indole buona e ignara attorno alla quale incombe la cattiveria altrui. Attribuisce alla piccola protagonista un senso di cura innato in un mondo che avrebbe dovuto curarsi di lei, ma che ha fallito. E allora, quando perde le uniche fonti di respiro: i suoi animali, ma anche l’uomo che incontrerà da adulta e che le prometterà di portarla «nell’ombra azzurra delle spiagge, sulle dolci isole dove crescono i frangipani», l’ingiustizia si palesa nella sua forma più forte, per esaurirsi, poi, nell’impossibilità del riscatto.  

Tutto, in questo romanzo, urla. Nel senso che la scrittura di Cagnati traccia un confine tra il sopportabile e l’insostenibile, il comprensibile e il disumano, accompagna per mano i personaggi fino a questo limite e glielo fa attraversare, così che ogni gesto, ogni scena siano l’estremizzazione del significato che contengono. Quando la violenza subita da Génie si ripete su Marie da parte di un parroco, la bambina – che guarda il mondo senza ancora realizzare il sudiciume che contiene – prova esattamente l’opposto di quello che sarebbe normale provare, nella sua forma più assoluta: 

«E raccontavo la grande gioia che mi sentivo dentro, c’era qualcuno che mi vedeva, mi sorrideva, mi parlava con voce affabile. Mi ricordo di come volevo dire per bene tutto questo, la gioia nell’uscire dalla chiesa fiorita». 

Per raccontare il male più grave, Cagnati esaspera il sentimento opposto, così da farci sentire la violenza in maniera più intensa, perché invece di toccarla con mano siamo testimoni delle sue conseguenze, più gravi e insanabili della fonte stessa. Questa violenza, la cui forza narrativa rimane latente, si sfoga invece in un altro contesto: quello campestre, dove la scrittrice si lascia andare alle descrizioni più crude, come quando viene chiesto a Génie di uccidere gli animali di una cucciolata troppo abbondante: 

«In certe fattorie gattini e cuccioli li seppellivano vivi nel letamaio. Mi ricordo di cagne che cercavano i piccoli piangendo. Correvano da ogni parte, chiamavano, cercavano, puntando il naso, per ora intere. Alla fine si accucciavano in un angolo della casa e piangevano».

Per quanto sia una scena difficilissima, che crea quasi un senso di repulsione, riusciamo a intendere una giustificazione: questo tipo di brutalità fa parte della normalità della vita contadina che riempie le pagine del romanzo, non c’è motivo di dissimulare né di ignorare, soprattutto quando in quello stesso mondo una donna e una bambina vivono all’ombra dei propri traumi. È come se esplicando una violenza, Cagnati ci chiedesse di spostare l’attenzione su un’altra, quella vera, quella che ha inclinato due vite fino al limite, piantando un seme che sarà impossibile da estirpare e che diventerà radicalmente identitario nonostante il tentativo di scegliere diversamente. 

Génie la matta è la storia di due vite che si trascinano dietro una colpa immeritata, è l’ingiustizia nella sua forma più evidente, la rabbia per quanto sia semplice schiacciare fino a rompere. È il cane bastonato che non guarisce, il manifesto degli sconfitti e il ribaltamento della pazzia. 

Nell’intervista con Laurence Paton che segue il romanzo, Inés Cagnati dice «il matto è colui che ci rassicura su noi stessi. Ogni essere diverso da noi è matto, perché se siamo quello che siamo c’è una ragione. L’altro è matto perché noi siamo normali, e affinché noi possiamo esserlo. Ne è il garante».  Da qui, Génie non è altro che la persona sacrificabile e sacrificata per il semplice gusto di catalogare chi non si è stato in grado di comprendere. I maltrattamenti (emotivi e fisici) di cui le due protagoniste sono vittime derivano da un pensiero altrettanto violento: io posso farti male perché ho deciso che non vali quanto me, perché tu sei pazza e io no.            
Ed è solamente rimarcando e sfruttando questa pazzia che la società rivendica la propria normalità. Un gioco di potere deleterio che nessuno ha coraggio né intenzione di rompere, a discapito di due vite.

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