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«Ci riconosciamo tra noi di borgata dall’aspetto, dal doppio taglio, dalla capezza, da come portiamo i pantaloni o quale tuta indossiamo. Ma la puzza fa la differenza. Quella non sbaglia». Questo passaggio, posto a pagina 56 del romanzo Se bruciasse la città (Giulio Perrone Editore, 2021, pp.240), in un momento in cui tutto deve ancora accadere, segna una sorta di dichiarazione d’intenti di Massimiliano Smeriglio, ex deputato e attualmente in carica come europarlamentare. In quanto romano de Roma, infatti, lo Smeriglio autore di narrativa tratta della sua città natale e lo fa non attraverso i fasti del centro bensì tramite gli occhi di chi vive in periferia, in quelle borgate dove tutto si mescola, dove l’ambiente urbano incontra quello rurale, e dove persino concetti come il bene e il male si fanno più fumosi.

Italiano? Pizza, pasta, mafia

La prima insidia da scansare quando si vuole raccontare un ambiente ben preciso e lo si vuole fare in maniera corale, parlando di un noi che messo in bocca a un personaggio sa quasi di plurale maiestatis, è la trappola dello stereotipo: se è pur vero che il luogo comune trae origine da fatti concreti, altrettanto vero è che attribuire a tutti gli elementi di un dato insieme caratteristiche simili comporta il grande rischio di banalizzare le somiglianze e appiattire le differenze – che comunque persistono – facendo confluire tutto in un’unica massa magmatica. Da qui ad affermazioni come noi italiani siamo scansafatiche mentre i francesi hanno la puzza sotto al naso il passo è sempre molto breve. Smeriglio ha invece il talento per riuscire a evitare questa falla. Racconta infatti di una Roma sporca, viscerale, farabutta, sempre utilizzando questo noi collettivo, ma quando poi scende nel dettaglio e l’analisi passa da sociologica a psicologica, ecco che i singoli personaggi acquistano dimensione e spessore. Alcuni restano legati allo stereotipo, è vero, ma a un livello in cui è inevitabile proprio perché composto da tratti comuni a una determinata cerchia di esseri umani. E dunque il piccolo criminale che vive in periferia e campa di espedienti ha, quasi necessariamente, un trascorso di povertà, mancata istruzione e opportunità sprecate; ma guardando la vicenda dal lato opposto, sono proprio la povertà, la mancata istruzione e le opportunità sprecate a determinare la nascita del piccolo criminale che vive in periferia. Smeriglio, nel raccontarci la sua versione della borgata romana, fa proprio questo: ci racconta di un mondo che è così – e che vive a due passi dallo stereotipo – proprio per determinate cause. Fra le quali non può mancare la situazione socio-politica romana nello specifico e quella italiana in generale: la politica, che difficilmente può non essere presa in considerazione quando si parla di povertà, sfruttamento e criminalità, viene chiamata in causa da Smeriglio senza entrare troppo nel dettaglio – d’altronde non può, vista la sua professione, fare nomi e cognomi – ma ciò che viene narrato è comunque sufficiente per consentire al lettore di comprendere la visione d’insieme delle cose.

La globalizzazione del mercato criminale

Interessante, a livello di trama, è la coniugazione fra passato e presente. Laddove gli eventi del 1994 richiamano un immaginario che inevitabilmente si associa al romanzo di De Cataldo e alla correlata serie televisiva Romanzo criminale, quando arriviamo nel presente del 2014 allo spaccio e al controllo delle piazze – fondamenta della malavita romana, che del controllo di un territorio enorme e frammentato ha fatto il proprio fil rouge – viene affiancata l’economia delle piattaforme, quel business che di fatto ha consentito a colossi come Amazon e Facebook di imporsi in un ambiente globale. L’idea geniale di Meri, sorella del protagonista Marco detto “il Tibetano” e nipote del co-protagonista Roberto detto “Shangai”, è semplice ma in grado di cambiare la prospettiva di vita degli abitanti della borgata: se si vuole uscire dalle lotte di quartiere, abbandonare la povertà e dire addio a un’esistenza che si divide fra la strada e il carcere, l’unica soluzione è rendere legale un business che di legale non ha niente. Ecco dunque che la borgata, con i suoi enormi spazi inutilizzati, i suoi capannoni abbandonati e i suoi abitanti che campano alla giornata, diventa una enorme Srl a cielo aperto. Il passato confluisce nel presente e, come una vecchia macchina rimessa a nuovo, ciò che bisogna fare è dare una mano di vernice e cambiare i pezzi che non vanno.

Inutile sottolineare che, anche quando le cose si fanno con le migliori intenzioni, in un ambiente come quello della malavita romana si calpesta i piedi a qualcuno. Il rilancio della borgata è dunque l’occasione per la nascita di una nuova faida, ed è proprio l’idea di Meri a dare il via a una nuova escalation di violenza. C’è da dire che in questa seconda parte del romanzo, quando l’occhio si sposta dalla borgata all’intera città e la lotta si fa letteralmente senza quartiere, Smeriglio mostra il fianco a una narrazione un poco semplicistica. La trama nelle ultime pagine si indebolisce, a tratti si sfilaccia, e a salvare dal disastro intervengono le premesse narrative raccontate fino a quel momento che, come solida fondamenta, mantengono in piedi una struttura altrimenti traballante. Sembra quasi che in questa parte del romanzo sia mancato il coraggio di arrivare fino in fondo e sia prevalsa piuttosto la necessità di un nostalgico E vissero (quasi) tutti felici e contenti. Forse il romanzo avrebbe necessitato di qualche pagina in più, nella quale si sarebbe potuto approfondire uno sviluppo di trama più coerente e complesso. O forse, abituati come siamo alla violenza e al nichilismo delle grandi storie di malavita, quasi ci si aspetta un epilogo nero e si storce il naso quando questo non avviene.

Se bruciasse la città è in conclusione un romanzo noir dai toni corali che affronta i temi classici della vendetta e della redenzione. Lo fa trapiantandoli nella realtà quotidiana di una Roma che fin troppo spesso emerge nei notiziari quale luogo ormai infestato dalla criminalità, quasi una terra di nessuno nella quale le operazioni dei malavitosi ricordano le scorribande dei barbari verso la fine dell’impero romano. Proprio come nel quinto secolo dopo Cristo, anche qui vediamo la nascita di un nuovo ordine sulle ceneri di quello vecchio. Migliore o peggiore, saranno i posteri a deciderlo.

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