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«[…] The wide open spaces all around me
The moon and the stars up above
Nobody seems to want me
Or land me a helping hand
I’m on my way from Frisco
I’m going back to Dixiland
Though my pocketbook is empty
And my heart is full of pain
I’m a thousand miles away from home
Just waiting for a train»

Questa che avete appena letto è una strofa della canzone “Waiting for a train” che Josh Ritter – autore di Una grande, gloriosa sfortuna (NN editore, 2022) – ha scelto come prima traccia della sua playlist “Inspiration for the Great Glorious Goddamn of it All 1Great Glorious Goddamn of it All è il titolo originale del romanzo.” che potete trovare su Spotify.
La ragione per cui si è scelto di cominciare con una canzone non è quella di diffondere bei brani musicali, sebbene non sarebbe affatto un cattivo intento, ma risiede nel fatto che la musica riveste un ruolo centrale non solo per l’autore ma anche per il libro di cui si parlerà. Josh Ritter è infatti un cantautore statunitense con all’attivo diversi album musicali e – com’è possibile leggere nella sua biografia – «nominato fra i 100 più grandi cantautori viventi». Nelle sue canzoni ci racconta con occhi disincantati di un’America a cui è profondamente legato e che emerge, maestosa e temibile, nel corso di questo suo romanzo. Inoltre, le atmosfere evocate a più riprese durante la lettura, le canzoni citate e la prosa stessa dell’autore – che può essere considerata a tratti musicale – sono ulteriori mezzi narrativi che ci porteranno a Cordelia, piccola cittadina dell’Idaho, in cui si svolgono le vicende.

Voce narrante e protagonista è Weldon Applegate, un irascibile novantanovenne che, dal letto di ospedale in cui è costretto per mano del suo nemico giurato Joe Mouffreau, ci racconta la sua storia che si intreccia irrimediabilmente con quella del Terreno Perduto e della sfortuna gloriosa che questo pezzo di America selvaggia porta con sé. Questo appezzamento è, peraltro, tutto ciò che gli rimane del padre, e Weldon, sin da adolescente, si è ritrovato a dover lottare strenuamente per proteggerlo da quanti volessero sfruttarlo in maniera scriteriata.

Andando all’origine del male – che avrà una vera e propria personificazione in un comprimario, su cui ci soffermeremo più avanti – bisogna dire che, fino all’età di dieci anni, non ve ne era traccia, o almeno non manifesta. Il nostro protagonista aveva vissuto serenamente insieme alla madre e al padre Tom, appartenente a una famiglia di tradizione boscaiola. Una volta conosciuta la madre di Weldon – a Moscow, nell’Idaho –, Tom aveva deciso di non condurre più quella difficile vita ma di assecondare il volere della futura moglie perché «[…] quello del taglialegna, con tutti i pericoli, le assenze e le rinunce che comportava, non era certo il mestiere con cui mantenere una famiglia, se lo si poteva evitare. Promise di sposarlo a patto che dicesse addio ai boschi. Lui accettò, fece quel dannato giuramento. Non dev’essere stato facile; era la sola vita che mio padre, suo padre e il padre di suo padre avessero mai conosciuto». In questo modo gli Applegate divennero una famiglia e cominciarono a vivere in tranquillità gestendo l’Able & Able’s, negozio di proprietà dei suoceri.

Il destino però, per quanto si decida di respingerlo, è capace di scovarci ovunque ci troviamo. Può bussare delicatamente, spaccare la porta o persino strapparla via dai cardini e, in prima battuta, si limitò a bussare agli Applegate portando l’atto di proprietà del Terreno Perduto – descritto brillantemente nella nota della traduttrice Francesca Pellas come «dente aguzzo che si staglia come un vaffanculo alla forza di gravità» – con annessa l’ascia di proprietà del Vecchio Tom, il nonno di Weldon, insieme con la notizia della sua morte. Ciononostante, nulla riuscì a dissuadere Tom dal tenere fede al suo giuramento. A questo punto il destino decise però di spaccare la porta e questa volta lo fece servendosi della prematura morte dell’amata madre e moglie. È così che Ritter comincia a scuotere le esistenze dei suoi personaggi facendo in modo che il Terreno Perduto entri con forza nelle loro vite, con tutto il suo portato, fatto di una maestosità primordiale che – in un doppio movimento interno ai personaggi ed esterno, fisico e intricato come gli alberi che vi si trovano – si insinua fra le crepe aperte dal desiderio di tornare alla vita che il giuramento aveva interrotto. Questo movimento interno è rintracciabile nelle parole del piccolo Weldon quando, osservando il padre, dice:

«[…] si capiva che, da quando mia madre era morta, la foresta che si era disboscato intorno al cuore aveva cominciato a riguadagnare terreno. Da fuori non si vedevano i viticci di quell’altra esistenza intenti a riformarsi nei suoi vasi sanguigni, ma l’alito dei pini si percepiva nelle storie di taglialegna che mi raccontava per farmi addormentare».

Non avendo più sua moglie, ma soprattutto a seguito di una visita all’Able & Able’s da parte di Peg Ramsey – abitante di Cordelia che sapeva bene come ammaliarli con i suoi racconti (non che in tal senso fosse richiesta chissà quale maestria) – gli Applegate presero la decisione di trasferirsi nella cittadina che prometteva loro un’inebriante «epopea indiavolata». Tom avrebbe lavorato nell’emporio rimasto vacante e Weldon avrebbe aiutato Peg nel suo negozio da barbiere, non si sarebbe così infranto il giuramento né ci si sarebbe spenti lentamente come stava avvenendo dietro il bancone del negozio, per Tom, e fra i banchi di scuola, per Weldon. Se fino a questo momento era stato il destino a rincorrere i nostri protagonisti adesso è il tempo delle scelte a prendere maggiore rilevanza. Nonostante il punto di vista della narrazione sia soltanto uno, sono diverse le circostanze che in questa storia parlano per bocca del nostro protagonista – sia nel presente della narrazione, dunque dal letto d’ospedale in cui si trova, o nella foschia dei boschi, Weldon dà voce anche a quanti vivono e hanno vissuto quegli stessi luoghi –, poiché non c’è nulla come un posto che può incrinare l’animo e la voce. Se poi quel posto è il Terreno Perduto che «non era soltanto un appezzamento di terra ma un monito terrificante e supremo della mortalità degli uomini», tutto comincia ad assumere un tono sinistro, quasi malevolo, di fronte al quale non si può rimanere inermi. Il male – cui abbiamo fatto accenno all’inizio – sa essere infatti ancora più ostinato del destino perché si affaccia nelle esistenze altrui in una maniera spesso subdola, in questo caso Ritter gli dona un volto, due spalle enormi e l’«inspiegabile dote» di capire da che parte cadrà un albero e lo ammanta di un’aura che assume il peso della mitologia, Linden Laughlin: «il più grande taglialegna mai esistito». Attorno a questa imponente figura – con la sua «risata cavernosa e antica, piena di robusta e scintillante malvagità» – e a un’altra, quella esile e magica di Sohvia – la Strega, che a Cordy vive con gli Applegate – l’autore infonde al romanzo quel misticismo che è possibile ottenere quando Destino, Male, Bene, Violenza, Morte e Chiaroveggenza si mescolano e danzano insieme.

Tom e Linden decidono di tentare la fortuna, mettendo insieme una squadra composta dai migliori taglialegna rimasti per diboscare il Terreno Perduto che «più che un’eredità è una malattia, una cosa che si busca, come l’influenza o una maledizione». Questa seconda scelta porterà alla morte dello stesso Tom e costringerà Weldon a prendere decisioni molto più grandi di lui, che gli riserveranno cospicue dosi di dolore e crudeltà. Saranno questi i compagni di viaggio della sua vita, lo plasmeranno e lo renderanno rude proprio come la corteccia di un albero, ma a loro si affiancheranno oltre a Sohvia, anche Peg, Annie e le sue bottiglie di Sogno – bevanda alcolica da lei prodotta che non pochi problemi causerà a Cordelia durante gli anni del proibizionismo –, Bud Maynard con i suoi film muti che insieme ad altri memorabili personaggi faranno di Weldon un uomo capace di riconoscere la magnificenza della natura, di piegarsi a essa, quando necessario, ma che al contempo gli permetteranno di non perdere mai la propria dimensione umana.

Una grande, gloriosa sfortuna è un viaggio nell’America più impervia, nella quale umano, naturale, divino e soprannaturale combattono a suon d’ascia e fluitazioni, in cui l’asperità di un terreno diventa quella della vita del nostro protagonista. Un terreno di scontro tra il mondo nuovo che è ormai alle porte e quello degli ultimi taglialegna. Weldon Applegate, dal suo letto di ospedale, rimane ben consapevole di quanto sia difficile fidarsi persino della propria memoria, perché lui sa come funziona; sa, per esempio, che Joe Mouffreau «è il massimo esempio della capacità che ha la memoria di far apparire le cose migliori di come sono», è conscio che non è lo stesso per tutti i ricordi, altri «rimangono nitidi anche quando tutto il resto si annebbia, quando si trasforma in un’ombra lunga che si perde nella foschia della leggenda e nella fottuta irrealtà». La sua voce è forte e aspra e, sebbene per la maggior parte del romanzo si faccia eco di violenza e bruttura, riesce anche a essere delicata, finanche dolce, come quando racconta del suo sguardo posato “sull’angolino colazione” della sua roulotte, nella quale, grazie alle tendine «La luce che filtra da lì sembra dorata, dà l’impressione di avere il tramonto in casa a tutte le ore. Ci si sente bene anche solo a stare seduti nella poltrona in soggiorno e a guardare verso quell’angolino». Questo romanzo è come una partitura musicale in cui spicca la voce di un uomo che ha fatto tutti i conti che doveva con la propria vita senza lasciare alcun debito. Ritter ha creato così un personaggio che tiene «lontana la malinconia con le parolacce e le bevute» e che Pellas è riuscita perfettamente a rendere, fiduciosa che – ci si conceda in chiusura questo piccolo gioco di parole – per nostra grande e gloriosa fortuna lo si potrà sempre ritrovare tra queste ispirate pagine.

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