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«Sono concentrato, ho solo quell’attimo esatto. I lembi di pelle si staccano, attraverso i vestiti si vede che la pelle è lacerata dal mio taglio dritto e si apre come il sipario rosso di un teatro. Inspiro. So che sta per accadere».

Il protagonista del romanzo è un professionista del post-mortem: incidendo i cadaveri dei suicidi è in grado di catapultarsi nei loro ultimi istanti. Se il lettore è persuaso, per un mero principio di verosimiglianza, a considerare metaforicamente lo scavo anatomico, da subito deve accettare che il gorgo mentale in cui il narratore lo trasporta è assurdamente reale. In questa seconda dimensione, a cui si accede scavando portali di accesso sui corpi, il protagonista della storia è un aruspice impotente che tenta di salvare i suicidi poco prima del gesto più estremo.

Il romanzo inizia con un incastro di microsequenze che seguono il narratore in uno dei suoi casi. Fino a qui La ferita (Alessandro Polidoro Editore, 2021) dà l’impressione di essere un giallo fantascientifico che attira il lettore con gli espedienti tipici del genere: un attore principale apatico e tenebroso, dotato di capacità ultraumane, e una concatenazione di scenari differenti che si articolano in una struttura a episodi. Tutto parte da una stanza spoglia e asettica da cui il protagonista attende di essere contattato per un nuovo incarico: già da questo primo elemento è palese la tentazione cinematografica di Leone, che qui instaura un ambiente cupo e minimale, dove emergono perturbanti sensazioni sonore in un silenzio intermittente. Il principio che guida il racconto è sempre quello della sottrazione: se la stanza si configura come una bolla estranea al mondo esterno, priva di dettagli e dimensioni, così il tempo è tutto assorbito dal dialogo interiore del protagonista, in un flusso costante e interrotto soltanto dagli squilli improvvisi del telefono.

Da sempre impermeabile alla sofferenza, qualcosa cambia quando le indagini iniziano a incidere direttamente sul vissuto del protagonista: la scrittura si fa labirintica, chi legge deve accettare di perdersi e abbandonare le pretese della letteratura più rassicurante, perché Leone mira a riallacciarsi alle opere che indagano il “male oscuro” (direbbe Berto) della depressione. La narrazione cede il passo al ragionamento, asfittico e al contempo illuminante, dato che la tavolozza adoperata oscilla nella costante alternanza tra buio e luce, bianco e nero: colori acromatici e privi di sfumature, che escludono qualsiasi scelta mediana tra la vita e la morte. Chi rifiuta la vita lo fa pienamente, con una lucidità che lascia inermi, ed entrare nel suicida dà seguito a una serie di visioni che rimandano il senso di un gesto inaccessibile. A una parvenza di comprensione ci si può avvicinare con la rilettura degli autori, tutti suicidi, che sono citati nel corso del romanzo: Leone forma il proprio coro funebre chiamando a raccolta Levi, Pavese, Woolf, Hemingway, Morselli e Yukio Mishima, le parole dei quali riaffermano la morte come scelta ineluttabile.

Un altro tributo evidente, seppur sottaciuto, è quello a Dante: a termine di uno dei suoi casi il protagonista porta via con sé un piccolo albero di pietra, che durante il romanzo cresce fino a invaderne la casa nei capitoli finali; nel XIII canto dell’Inferno, com’è noto, i suicidi sono tramutati in piante, la forma di vita più semplice e indifesa, in contrapposizione al complesso congegno umano che i dannati hanno rifiutato dandosi la morte. Nel romanzo di Leone l’albero, ai cui rami (secondo Dante) ogni suicida appenderà il proprio corpo dopo il Giudizio finale, indica il principio di un male misterioso e imperscrutabile che cresce progressivamente e di cui si individua il principio nello smarrimento della propria coscienza. A compensare la paralisi emotiva del protagonista,che si riflette su tutti i personaggi descritti, i simboli disseminati nel corso della storia offrono una possibile chiave interpretativa.

Davanti al cadavere di una donna riverso tra petali e piante in un negozio di fiori, il narratore si chiede: «prima l’albero di pietra, poi questi fiori; difficile non trovare collegamenti, anche se forse sono solo immaginari e, non di meno, esistono». L’immediata rimozione (di zeniana memoria) sollecita il lettore ad affinare lo sguardo. Ricorda Il linguaggio dei fiori di Bataille, che aveva osservato come la marcescenza a cui è destinato ogni elemento vegetale indichi, a discapito della bella forma, l’esistenza a monte di una parte corrotta e orrenda, che torna alla luce solo al termine della vita. La scelta dei suicidi non sarebbe, quindi, nel romanzo di Leone, il risultato di forze esterne o di un malfunzionamento improvviso, ma la realizzazione finale di un germe insito nell’organismo umano: non è questo il senso dell’albero di pietra che cresce fino a distruggere la stanza del protagonista, l’unico luogo in cui potesse ritenersi al sicuro? Rintanarsi in sé stessi non basta a salvarsi dai mali del mondo: anzi è proprio ripercorrendo la storia degli altri, cioè riconoscendosi in un’umanità in costante lotta con la sofferenza, che si schiuderà il segreto più intimo del protagonista. Giungerà così l’ultimo squillo del telefono, finalmente la chiamata per sé: «Alzo la cornetta ma c’è silenzio dall’altra parte».

La materia inorganica appartiene solo all’albero in pietra, che cresce immagazzinando i traumi finalmente espulsi, mentre la sostanza corporea di chi narra, via via fino all’ultima pagina, evapora nella voce che ricorda il proprio segreto inconfessabile. Leone riflette sul disturbo depressivo mediante un discorso lucido e razionale, quasi slittando verso ambizioni ora scientifiche ora filosofiche. Le divagazioni sul tempo e sul contagio patologico che investe gli uomini formano una struttura malleabile inscritta in un chiasmo, il «dolore nero» della vita (raffigurato nella dura fissità della pietra di cui si compone l’albero) contrapposto alla dimensione luminosa della morte. La ferita è un itinerario onirico nella solitudine tradotto in un linguaggio enigmatico e affascinante: una storia che, rifiutando una struttura lineare, si può sfiorare soltanto.

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