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Un uomo poverissimo si arricchisce per effetto di un sortilegio perturbante; un gruppo di esploratori intraprende la pericolosa scalata di un banale pezzetto di legno; un gigantesco carrarmato inesistente semina distruzione per un mondo immaginario; in una società dove sono ammessi soltanto santi, gli uomini si dedicano a imprese impossibili e suicide. Cosa tiene assieme i tredici racconti contenuti in Grazie Chanchúbelo di Alberto Laiseca? Nulla apparentemente, se non forse il sospetto di trovarci davanti a un novelliere allucinato, macabro e divertentissimo, à la Landolfi. E forse lo è – ma solo in parte. Perché dietro la facciata di pastiche si nasconde una scoperta che getta una luce fosca sulla letteratura di tutto il Novecento.

A partire da un certo punto, che si può identificare orientativamente con gli anni Quaranta del Novecento, i libri di racconti diventano sempre più simili a musei, pensati con lo scopo non di catalogare la realtà ma di provarne l’inesistenza. E lo sforzo dello scrittore di racconti, sempre più vicino alla figura del collezionista, non si dirige più verso la trama, il personaggio, lo stile, ma consiste nel creare e raccogliere mondi inconciliabili, popolarli di personaggi fantasmatici, piegarli a leggi che sono di volta in volta, e spesso nel corso dello stesso racconto, fantastiche, magiche, meravigliose, surreali, assurde, grottesche. È il caso di Borges, Manganelli, Kiš, ma anche di Alberto Laiseca, maestro nascosto della letteratura argentina e oggetto di un vero e proprio culto (che ha visto tra i suoi adepti Soriano, Piglia, Fogwill, Aira, Pauls, Fresán e altri). Oggi Laiseca torna nelle librerie italiane nella traduzione di Loris Tassi grazie a Wojtek, che continua la sua riflessione ininterrotta sul fantastico e sulle sue potenzialità critiche e narrative nel contemporaneo.

In patria il nome dello scrittore è legato all’impresa monumentale di Las Sorias, horror fantascientifico di oltre milletrecento pagine dall’avventurosa vicenda editoriale. Il romanzo (termine qui quanto mai riduttivo) parla dello scontro tra tre fazioni, i Soria, la Tecnocrazia e l’Unione Sovietica, che si disputano il mondo. Come nella Trilogia di Valis di Philip Dick, l’intero universo si rivela una guerra tra principi opposti che ne minacciano l’unità e insinuano in ogni piega del reale il sospetto di un demiurgo folle che manipola la narrazione e la psiche dei personaggi. Il racconto di questa lotta infera si dirama in un numero vertiginoso di direzioni, in una vera e propria divagazione infinita, che tocca tra le altre cose l’epica, il romanzo erotico, l’apologo zen e il trattato d’arte. Alternando, come scriveva un suo lettore d’eccezione, Witold Gombrowicz: «il circo, il lirismo, la poesia, l’orrore, la lotta, il gioco…».

Attorno a questa lisergica Mille e una notte, in grado di fagocitare ogni forma letteraria della tradizione, gravitano le altre opere di Laiseca, che condividono con Las Sorias l’intento metafisico e il camuffamento giocoso: Matando enanos a garrotazos (1982), Poemas chinos (1987), El jardín de las máquinas parlantes (1993) e appunto Gracias Chanchúbelo (2000). Analogamente a Las Sorias, esse aggregano al loro interno, senza l’illusione di una struttura, i materiali più eterogenei, e contribuiscono tutte a dar vita a quella che possiamo chiamare un’enciclopedia dell’aberrazione, una Wunderkammer rovesciata degna di un incubo di Athanasius Kircher. Questo incubo ricorrente è precisamente la cornice in cui si svolgono i racconti di Grazie Chanchúbelo.

Nei racconti e nelle interviste, lo scrittore indica la sua letteratura con la categoria di «realismo delirante», genere, per altro, inventato da Alberto Laiseca per Aberto Laiseca. Ma in cosa consistere il «realismo delirante» rispetto al realismo magico o al fantastico tout court? Un’ipotesi è che il «realismo delirante» di Laiseca abbia a che fare con il rapporto della conoscenza umana con il Male. Per capire in cosa consista questo «delirio» ed entrare nella poetica dell’autore, non esiste modo migliore che leggere il racconto eponimo Grazie Chanchúbelo, probabilmente il più ambizioso e riuscito del libro.

Julío Esteban González è uno scrittore di vent’anni con l’ambizione di scrivere il più grande capolavoro della letteratura di tutti i tempi. Per ora è semplicemente «un mediocre», buono solo a produrre, apparentemente senza volerlo, «imitazioni, mimetismi, plagi» di grandi opere letterarie. Il  torbido personaggio di González è poi l’unico praticante di un rito efferato quanto inspiegabile. Dall’infanzia, González compie dei sacrifici rituali in onore dell’«Antiessere» – una creatura indefinibile, di cui si sa solo che ha le sembianze di una donna e che è ostile agli dèi Egizi, che con l’Antiessere sono segretamente in lotta per la salvezza del ragazzo. Un giorno, González si sente rivolgere una richiesta d’aiuto a Bastet, Dea protettrice dei Gatti. La Dea appare con al seguito un gatto tigrato dal nome Chanchúbelo, suo figlio. Chanchúbelo, dice Bastet al ragazzo, gli farà compagnia negli anni successivi, assistendolo nella creazione del suo capolavoro, ma a una condizione: «La tua richiesta è stata esaudita: in un lasso di tempo accettabile scriverai un capolavoro. Ma niente è gratis in questo mondo e nemmeno nell’altro. Tutto ha un prezzo […] Nessuno potrà leggerlo o sapere che esiste».

«In qualche modo un giorno l’opera era sul mio tavolo. Era un libro con la copertina rigida e nera, senza nessuna scritta all’esterno, di circa settecento pagine. L’unica copia». Così il ragazzo invita un amico per leggere e commentare la sua nuova, straordinaria creazione. L’amico sfoglia il libro con aria perplessa e lo restituisce a González: un libro completamente bianco è una trovata interessante, ma già vista. Il nostro scrittore si rende allora conto che la sua opera crea un paradosso: dove lui legge «un capolavoro assoluto, in senso etico, estetico, mistico e pratico», gli altri non vedono che una pagina bianca. Così ci riprova: invita cinque amici, e visto che nessun altro se non lui ha la facoltà di leggere l’opera, sarà lui a leggerla ad alta voce per loro. Ma andando avanti nella lettura, si accorge che gli amici di distraggono facilmente, non riescono a seguire il filo del discorso. Sono affascinati dalla musica ma non capiscono le parole: «Significato? No, nessun significato. Sembrava una lingua organizzata, molto antica. Tipo il babilonese, il sumero o l’ittita. Ma le parole no, natural­mente. Non si capivano. È una lingua vera, quella che hai usato?». La lingua in cui è scritta l’opera sembra dunque l’egizio. Potrebbero essere stati direttamente gli dèi a comporla, per poi passare a Gonzalez la conoscenza della loro lingua.  

Lo scontro tra la prospettiva terrena di González e quella sovrannaturale di Bastet pone una serie di interrogativi sulla realtà letteraria che abbiamo davanti; si apre un ventaglio di possibilità che, per quanto assurde, godono tutte della stessa surreale credibilità. Può darsi che González si sia inventato tutto – ma si cadrebbe così nella classica ipotesi del narratore inattendibile, per altro messa in crisi dai giudizi degli amici, che confermano che il libro sia stato scritto “realmente”. O forse è stata la Dea, aiutata dal figlio Chanchúbelo, a scrivere l’opera – ma se accettiamo questa lettura sarebbero ancora molti gli elementi del racconto a dover trovare una giustificazione: il fatto che l’autore compie inavvertitamente plagi perfetti di opere che non ha letto, ad esempio, oppure la strana pulsione omicida che lo spinge a cacciare e torturare animali. Nessuna delle due ipotesi è sufficienti per orientarci tra le maglie di una realtà impazzita, dove una sorta di vuoto di senso impedisce agli uomini di controllare le forze sovrannaturali che agitano il mondo.

Nel «realismo delirante» di Laiseca dunque ogni presupposto che guida la conoscenza umana salta fuor di sesto, mostrando il funzionamento di un cosmo attraversato dal caos e dell’occulto, in cui un principio disgregatore ha smontato il meccanismo formale della realtà. Come nei Pseudodoxia epidemica di Sir Thomas Browne, il Male assume le sembianze non di una figura maligna ma di un errore gnoseologico che invalida ogni tentativo di distinguere la realtà dall’errore. Questo, più di ogni patente pastiche, è il cuore del libro. Cos’è la storia dei libri di racconti del Novecento se non questa accusa metafisica contro la visione semplice e unanime del mondo?

Prima di tutto, bisogna diffidare della letteratura fantastica. Nella formulazione classica di Todorov, il principio del fantastico consisteva nel contrasto irriducibile tra due logiche alternative, quella verosimile e quella inverosimile: l’effetto del fantastico è quello di produrre una sospensione dell’incredulità tale che per noi diventa impossibile affidarci completamente all’una o all’altra dimensione. Pur mettendola in crisi, e anzi proprio per questa ragione, il fantastico presuppone un’idea positivista e meccanicista della realtà. In Laiseca, questa idea di mondo si complica infinitamente: non c’è la rassicurante dicotomia tra verosimile e inverosimile che reggeva il fantastico tradizionale. La realtà e la finzione sono i due momenti di un’unica dialettica: dentro il fantastico c’è la realtà, che al suo interno nasconde ancora del fantastico, in una spirale ontologica.

Il «realismo delirante» di Laiseca non si limita a inscenare il reale nel fantastico (come nel realismo magico sudamericano), né il fantastico nel reale (come nei racconti di Cortázar, che pure sono un modello dichiarato di Laiseca). L’autore si spinge nei territori ultimi della letteratura fantastica: come se calcando le orme vuote di Borges finisse per perdersi nel vasto e inospitale mondo di Dick e Lovecraft, dove il fantastico non è l’opposto della realtà, ma la conseguenza della sua logica portata allo stremo.

Chi legge i racconti di Laiseca non faccia l’errore di volere individuare giusto e sbagliato, vero o falso, reale o fittizio. Ciò che l’autore ci chiede è precisamente di pensare un’idea di mondo capace di accogliere il paradosso, in modo non molto diverso da quanto suggerisce la fisica contemporanea. Mai ridurre, mai interpretare, mai «violare il dispositivo di sicurezza dell’immaginazione», come ci consiglia uno dei suoi personaggi. Con Laiseca, la letteratura rivendica il suo ruolo di allegra sabotatrice di ciò che esiste e liquida ogni tentativo di comprensione, che ha sempre qualcosa di mercantilistico e merceologico. Per quanto possa suonare enfatico, Gracias Chanchúbelo rimette al centro del discorso il dibattito sulla funzione primaria della letteratura, che forse non è quella di descrivere la realtà, esprimere sentimenti o consolare dal dolore, ma di sfidare la nostra idea di realtà esaurendo il campo dei possibili.

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