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Cosa sappiamo oggi di Leopoli?

Pochissimo, quasi niente. Nonostante gli ultimi mesi di cronaca l’abbiano cacciata a forza, suo malgrado, nella storia contemporanea. C’è qualcosa di amaro nel pensare che sapremmo distinguere all’istante lo skyline di Philadelphia da quello di San Francisco, ma faticheremmo a immaginare quello di una città che sorge praticamente a metà strada tra Vienna e Kiev. E che a entrambe le capitali deve una parte della sua identità; Leopoli oggi nell’ estremo confine occidentale della repubblica ucraina, ieri avamposto orientale dell’impero degli Asburgo. Senza contare il periodo passato nei confini della Polonia tra le guerre, in cui ha fatto in tempo a dare i natali a un certo Stanisław Lem.

Ex-asburgica, ex-sovietica, ex-polacca, Leopoli è una città dove si incrociano tanti passati ancora perfettamente visibili.
Jimi Hendrix a Leopoli, romanzo dello scrittore ucraino Andrei Kurkov (Keller, 2022) tradotto da Rosa Mauro, lo mostra alla perfezione. È un romanzo solidamente piantato nella contemporaneità (va precisato, una contemporaneità pre-bellica visto che il libro in originale è uscito nel 2012), privo di nostalgie o passatismi.
Una città dove si alternano caffetterie tardo impero, retaggio della cultura asburgica del caffè, e cortili in cui ruzzolano bottiglie di vodka, come nella migliore tradizione russa. Dove tutti o quasi sono ex qualcosa, a partire dai protagonisti del romanzo. Per esempio Arik, ex hippie attempato che non rinuncerebbe mai al suo stile di vita. Oppure il capitano Rjabcev, ex ufficiale del Kgb che cerca il perdono delle persone che ha spiato per una vita intera. Infine l’eccentrico Eži, ex parrucchiere, ex inserviente di sauna, ex imballatore e anche, per sua stessa ammissione, ex polacco.

«Non si può essere ex kagebešniki o ex comunisti, sono marchi che rimangono impressi nel corpo e nell’animo» rispose Eži, staccandosi dal cibo. «Invece in epoca sovietica mi è stato cancellato tutto ciò che avevo di polacco, a parte il nome e il cognome. In realtà, mi avevano proposto di cambiare anche quelli. Ecco perché sono un ex polacco!».

Gli unici personaggi a vivere davvero nel presente sono però due. Taras, un infermiere mancato che cura i calcoli renali scarrozzando i suoi pazienti in auto su strade male asfaltate, e Darka, la donna di cui si è innamorato, l’impiegata di un cambiavalute allergica al denaro.
I lettori di Kurkov di vecchia data riconosceranno la cifra stilistica dell’autore, fatta come sempre di grande ironia, un certo gusto per il surreale e una folla di umanità strampalata e tremendamente post-sovietica.

Il caso di Jimi Hendrix a Leopoli è tuttavia originale rispetto agli altri romanzi dell’autore. Perché più che dai personaggi, il centro della scena è occupato proprio dal luogo degli eventi, con il suo spazio urbano più e più volte chiamato in causa. Il cuore della trama, del resto, è proprio legato a Leopoli. Sulla quale improvvisamente appaiono stormi di gabbiani aggressivi e violenti, e dove l’aria improvvisamente odora di mare, nonostante la costa sia lontana centinaia di chilometri.

Uno dei protagonisti arriva persino a teorizzare che si tratti di un mare preistorico che scorre chissà quanto in profondità sotto Leopoli e pronto a risalire in superficie. Come se la città volesse rivoltarsi dalle fondamenta contro i suoi abitanti.

Un topos che riporta ai grandi classici della letteratura russa. Pensiamo al Cavaliere di bronzo di Aleksandr Puškin: una Pietroburgo devastata da un’alluvione e Evgenij, uno dei pochi superstiti, tormentato dalla statua a cavallo dello zar Pietro il Grande.
A Leopoli non succede nulla di così grave; gli attacchi dei gabbiani certo fanno paura, però si concludono spesso in episodi farseschi grazie all’aiuto di un veggente amante della tecnologia e di uno scrittore che va a caccia di un suo personaggio sfuggito dalle pagine, in un simpatico siparietto metaletterario.

In tutto questo, Jimi Hendrix non va oltre il titolo del libro e sparute evocazioni. A Leopoli non c’è mai stato, e nemmeno ci si è avvicinato visto che i suoi tour europei non hanno mai superato la cortina di ferro. Per gli hippie impenitenti di questa periferia estrema dell’impero bolscevico, tuttavia, è rimasto un mito. Un Messia rivelato ed eternamente atteso. Venerato persino attraverso una macabra reliquia: la mano destra del grande musicista, fatta recapitare clandestinamente in Urss, sepolta in un cimitero di Leopoli e oggetto di un pellegrinaggio annuale di tutti gli hippie locali. Che non sia la sua vera mano, in fondo, è un segreto di Pulcinella. Lo sanno i vecchi fan che vanno a onorarla e lo sa lo sventurato Rjabcev, capitano del Kgb in pensione, un uomo alla perenne ricerca del perdono da parte delle persone che ha pedinato per anni. Un modo, forse ingenuo, per fuggire da una solitudine atroce.

Perché le vite dei personaggi, non di rado felici, si incrociano spesso tra loro lungo il romanzo. Eppure, sembra che a Leopoli siano tutti profondamente soli. Vivono soli, in condizioni materiali appena sopra la soglia di povertà, si sostentano con sussidi o espedienti. Quello con più prospettive di tutti, se così si può dire, è Taras con il suo business improbabile di medicina alternativa contro i calcoli. Sembra che nessuno abbia davvero voglia di provare a cambiare qualcosa. Anzi, tutti sembrano accettare la propria vita come se fosse ineluttabile, con un fatalismo degno dell’Urss brežneviana.

Il racconto però non risulta mai cupo o grigio, anzi. Nel tono generale, Kurkov dà il meglio di sé, riempiendo di vivacità e bislaccherie vite normalmente attraversate da un quotidiano anche meno che ordinario. Il risultato complessivo delle vicende è divertente e anche un po’ fiabesco.
Nel modo in cui il piano del reale e quello del fantastico si mischiano è impossibile non vedere un po’ in controluce l’eredità di Bulgakov e del suo Il Maestro e Margherita.

A un livello più profondo, qui è Leopoli che tiene banco, costringendoci a familiarizzare con la sua geografia e la sua toponomastica, portando in modo quasi olistico i protagonisti a incontrarsi, a interagire, a incrociare i propri destini e a trovare qualcosa che li faccia guardare avanti con rinnovato ottimismo. Sarà forse la sua storia, o l’aria che si respira, a rendere plausibili agli occhi dei personaggi quegli eventi che esulano con forza dalle possibilità del reale. Che si tratti di gabbiani assassini, marinai sfuggiti dalle pagine di un romanzo, o calcoli renali dal colore perlaceo e dagli inaspettati poteri curativi.
Nonostante il clima generale sia più che godibile, non ci troviamo di fronte al romanzo migliore di Kurkov. Diversi dialoghi appaiono affrettati e innaturali e lo sviluppo di uno degli intrecci, quello di Taras e Darka, sembra accelerare goffamente per concludersi in tempo con la fine del libro. La fittissima rete di riferimenti alla realtà ucraina e leopolitana non deve poi avere reso facile la vita alla traduttrice, Rosa Mauro, che rende splendidamente i passaggi narrativi più fluidi del romanzo, ma deve cedere molte volte all’onere della nota quando Kurkov ammicca a personaggi ed eventi semplicemente impossibili da riconoscere per i lettori occidentali. A chi approccia per primo l’autore ucraino, il consiglio è di iniziare la conoscenza da altri suoi romanzi certamente più ispirati.

Jimi Hendrix a Leopoli resta comunque un libro che vale la pena leggere perché restituisce un grande calore e momenti di tagliente ironia sullo sfondo di uno spazio, quello ucraino, che oggi è occupato da immagini molto più dure e di cui probabilmente non ci libereremo mai.

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