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Un documento divulgato nel 2016 da Roma Capitale (e facilmente reperibile online) dice che nella Città eterna: «La rete di illuminazione pubblica si sviluppa per 7.695 km, alimentando oltre 214.000 lampade (189.000 punti luce); in media, una lampada ogni 13 abitanti e un punto luce ogni 32 metri di strada. Dei punti luce dedicati al servizio, circa 11.000 sono rivolti all’illuminazione artistica, particolarmente importante in una città come Roma». Con un’altra facile ricerca, scovo un articolo del 2012 che riporta: «A Torino i punti luce installati sono 96.000; a Milano 138.364».

La quantità spropositata di punti luce disseminati per gli spazi urbani ed extraurbani è una delle tante riflessioni collaterali suscitate dalla lettura di Il censimento dei lampioni. Nel romanzo d’esordio di Carmelo Vetrano (pubblicato da Laurana nella collana Fremen, diretta da Giulio Mozzi), così come intuibile già dal titolo, il lavoro del protagonista è proprio quello di visionare una a una le lampade pubbliche per verificarne lo stato di efficienza e di conservazione.

Certo, la densità non è la stessa delle metropoli, dal momento che l’azione si svolge tra paesi di mare e campagna, in Puglia. Ma questi numeri comunicano anche un’idea immediata e simultanea dello stato di conoscenza generale e particolare: si sa esattamente quanti sono i lampioni distribuiti sul territorio, ci sono reti e mappe, ci sono contatori che corrono e conti da pagare, ma è necessario che qualcuno compia un esame autoptico sulle singole installazioni, periodicamente, ciclicamente, forse addirittura costantemente. Ed è un lavoro che non esaurisce in sé il proprio fine: i dati raccolti da un censimento del genere servono come punto di partenza preliminare per la manutenzione successiva, consentendo di stimare preventivamente i costi da sostenere per tutti gli interventi necessari in un secondo momento.

Questa natura di riepilogo dello status quo fa da specchio alla situazione di Sebastiano, il protagonista. Tornato in Puglia da Berlino, è venuto a firmare le carte della separazione dalla sua ex moglie, Magda, e per racimolare un po’ di soldi ha accettato il lavoro di pochi mesi offerto dalla società Electric Sole, ritrovandosi controvoglia al fianco del padre, Bruno. Tra i due non c’è affatto un buon rapporto, e non solo perché il padre aveva discutibili frequentazioni, in odore di Sacra corona unita, né solo perché i genitori di Sebastiano si sono separati quando lui era ancora un ragazzino: il macigno più grande che pesa nell’incomunicabilità tra i due è il fatto che da qualche mese Bruno ha una relazione proprio con Magda.

Pagina dopo pagina si percepisce la stanca ripetitività e insieme l’apparenza titanica del compito, a fronte dell’intrico delle strade ancora da censire: il padre guida il furgone, lo parcheggia come può davanti al palo della luce, lo stabilizza con dei fermi meccanici; il figlio sale sul cassone, si assicura al cestello, aziona il meccanismo che lo solleva fino all’altezza della lampada. Qui bisogna trascrivere ciò che si vede, lo stato di salute del metallo, della plastica, dei globi luminescenti, descriverne la qualità, la tipologia, il modello. Ogni lampione una scheda da compilare. A ogni scheda, Sebastiano prova sempre più forte la tentazione di lasciarsi andare a un’interpretazione, a una considerazione rinnovata di un oggetto che normalmente passa inosservato. È, in fondo, un principio gnoseologico sempre valido: là dove l’attenzione si posa, emergono particolari inaspettati.

Così, se dapprima la valutazione è schematica e insicura («Il lampione mi comunicava che non avrebbe fatto altro che continuare a essere sé stesso, mi sentivo insoddisfatto e non sapevo cosa scrivere»), lentamente l’aggettivazione si fa più libera e l’appunto registrato diventa una sorta di inconsapevole proiezione della propria interiorità (il corsivo è mio): «Condizioni generali buone ma struttura tremolante»; «Bordo spaccato. Materiale esausto». Crepe si aprono nelle campane di metallo che proteggono e sorreggono le lampade pubbliche, crepe si aprono dentro gli esseri umani, dentro le idee che gli esseri umani si fanno l’uno dell’altro. Faccio chiarezza: Vetrano non si lascia affatto contagiare da un animismo; non c’è, mai e giustamente, alcun tentativo di snaturare gli oggetti. Quello che succede è che proprio nella loro statica essenza di elementi del paesaggio questi lampioni catturano l’attenzione, si fanno interessanti.

La monotona quotidianità di Sebastiano è spezzata dall’incontro con Lisa, che ha la sua stessa indefinita insoddisfazione e lo stesso desiderio di partire: più che la concretezza di un’ambizione, ciò che li accomuna è un’incapacità di stare. Lisa è un’artista, crea collage con brandelli di frasi, e allora ci vuole poco perché anche le liriche considerazioni di Sebastiano sui lampioni diventino quasi dei versi, materiale per composizioni poetiche in cui, appunto, l’inquietudine dell’osservatore si riverbera negli oggetti interrogati dallo sguardo.
La scrittura piana di Vetrano, una prima persona semplice ma capace di accendersi in slanci lirici, accompagna le storie dei personaggi (la madre, il padre, Magda, Lisa), tutte contrassegnate dall’incapacità di entrare in comunicazione profonda, di individuare prima ancora che di perseguire i propri sogni. Ciò che rimane al termine della lettura è proprio questo senso di fissità, di immutabilità nel cambiamento. Via via che il racconto incede, ricordi e domande del protagonista si susseguono, intrecciando piani temporali differenti, tra infanzia, adolescenza, passato prossimo e remoto, in una sorta di resa dei conti con ciò che è rimasto alle spalle. E il cuore del romanzo è proprio in questo continuo, inesauribile interrogarsi: un compito ripetitivo, sfiancante, mai definitivo. Un censimento delle relazioni, destinato per natura a non chiudersi, a proseguire con un nuovo spostamento.

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