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femina, femina, that wd / not be dragged into paradise by the hair
Ezra Pound, The Pisan Cantos

Shrieking city sun shiver in my veins
In flames I run
In flames I run
Nico, Nibelungen

«(…) ho avuto la mia visione»1Virginia Woolf, Gita al faro, Oscar Mondadori, p. 210 è la frase finale di Lily Briscoe e la frase che conclude Gita al faro di Virginia Woolf. Lily Briscoe, la pittrice in crisi con l’ideale di donna vittoriano, a suo agio in una dimensione solitaria e virginale, trascorre l’intero arco narrativo del romanzo cercando di dipingere il ritratto di Mrs Ramsay, modello di matrona vittoriana. Nelle sue riflessioni e nella sua ricerca di nuovi modi e linguaggi che le permettano di portare a termine l’opera come lei desidera davvero, pensa più volte al fallimento e al senso ultimo della sua arte e dell’arte in generale, mentre una voce maschile non smette di sussurrarle: «Le donne non sanno dipingere, le donne non sanno scrivere»2Ibidem, p. 50.
La visione arriva alla fine, dopo il fittissimo e drammatico passaggio del Tempo, dopo la guerra e la morte di Mrs Ramsay, dieci anni dopo Lily conclude il ritratto in assenza del soggetto principale. Procedendo dalla fine di un mondo vecchio, la visione trova realizzazione nella sua modernità.

Nel personaggio di Lily Briscoe sono sintetizzate preoccupazioni, necessità, impressioni che pur nascendo dall’interiorità di Woolf sono riconducibili a una intera generazione di artisti, e nello specifico di artiste che si fanno strada lungo percorsi fino a quel momento per niente o poco battuti. Tra queste spicca la poeta inglese Mina Loy. 

Loy condivide con Woolf l’anno di nascita (1882) e la nazionalità inglese, entrambe partecipano attivamente al discorso femminista e modernista, ma lo fanno in maniera molto diversa tra loro. Dalla biografia allo stile, è difficile renderle compatibili, e mentre Woolf è stata investita (e ridotta in certi casi a brandelli) dalla canonizzazione, il nome di Mina Loy ha dovuto faticare per essere ricordato nel discorso letterario, nonostante abbia ricevuto apprezzamenti ufficiali da parte di personalità come Gertrude Stein, Ezra Pound e William Carlos Williams. La sua visione che pure prende avvio dall’universo vittoriano in decomposizione, si sviluppa in un caleidoscopio così accecante da risultare insopportabile ai suoi contemporanei, mentre una vaga tensione al mascheramento la rende incomprensibile. Come ricorda Roger L. Conover, Loy non si piega mai davanti a nessuno, non scende a compromessi con gli elogi, non si fa intimidire dalle stroncature.

«La nostra persona è una porta nascosta per l’infinito / Strozzata dai rottami della tradizione»3Mina Loy, The Lost Lunar Baedeker, Rina Edizioni, p. 177.

The Lost Lunar Baedeker arriva ai lettori italiani grazie alla casa editrice Rina Edizioni che conferma il suo impegno nel riportare alla luce autrici di straordinario valore letterario cadute in colpevole oblio. Comprendendo un arco temporale che va dal 1914 al 1949, il libro raccoglie l’intera produzione poetica di Mina Loy integrata da alcuni importanti testi in prosa, tra cui il saggio La poesia moderna e il radicale Manifesto femminista. La traduzione è a cura di Marco Bartoli ed è presente il testo originale a fronte. La scelta di non tradurre il titolo è funzionale a mantenere intatta una precisa atmosfera: baedeker era infatti il modo in cui venivano chiamate un tempo le guide di viaggio. Come osserva Laura Pezzino nella postfazione, il libro è la guida lunare di Mina Loy, e da lei bisogna lasciarsi condurre.

Le poesie sono caratterizzate da una struttura non classica. Il verso per lo più libero e la metrica non ortodossa insieme con le numerose allitterazioni e assonanze producono un ritmo e una musicalità che la traduzione di Marco Bartoli riesce sorprendentemente a ricreare in italiano. I versi sono talvolta divisi al loro interno da ampi spazi, un espediente che permette di creare diverse situazioni poetiche, che sia una sospensione o una dialettica tra parole distanti. Nell’introduzione Conover riflette sull’effetto metrico ricercato da Loy, evidenziando l’abilità con cui riesce sempre a salvarsi dal disastro prosodico. È effettivamente notevole come lo scheletro irregolare e a tratti schizofrenico delle poesie riesca a rendere un risultato così coerente.

Il valore dell’opera di Loy è stato spesso offuscato dalla portata leggendaria che ha caratterizzato la sua vita. Scappa giovanissima dalla rigida famiglia che le concede un’istruzione ma non la libertà di cui ha bisogno, va a vivere in Francia e si unisce alla bohème, va a vivere in Italia e si unisce al futurismo, intrattiene relazioni intime con Filippo Marinetti e Giovanni Papini, si trasferisce in America e frequenta il gruppo della rivista d’avanguardia Others diventando «la bella della festa di gala della Poesia Americana»4Roger L. Conover, Introduzione a Mina Loy, The Lost Lunar Baedeker, Rina Edizioni, p. 5.. Nel 1917 il New York Evening Sun la definisce la personificazione della Modern Woman.È amica di Marcel Duchamp e di Carl Van Vechten. Si sposa due volte, il primo è un matrimonio di convenienza che termina con il divorzio, il secondo è a Città del Messico con il grande amore della sua vita, Arthur Cravan, poeta e pugile svizzero che tira a campare con i soldi delle scommesse e che scompare in circostanze mai chiarite, venendo inghiottito anche lui dal mito, lasciando Loy incinta e psicologicamente distrutta. Di quattro figli avuti da tre uomini diversi ne moriranno tragicamente due. La sua leggenda la accompagna in vita, in giro si dubita della sua reale esistenza. Lei rincara la dose con un gioco di dissimulazioni: «Per rimanere sconosciuta, il rischio che scelsi fu di farmi – poetessa».

Loy compie un peccato imperdonabile. Vive in un’epoca e in un ambiente in cui donne con il suo corpo e la sua libertà possono aspirare a essere muse, invece lei scrive e pubblica poesie, si afferma come artista, lavora a una voce e a uno stile, ricerca un ritmo personale. Piega la lingua inglese ai suoi intenti sperimentali senza svuotarla, può usare un lessico basso e sporchissimo ed elevarlo al massimo grado dell’eleganza stilistica. Sa essere profondamente lirica e crudelmente ironica, la sua poesia è sia intima che politica. Scrive di lutto e sesso, di parto e questioni di genere, di amore e noia. Ogni verso riflette una vasta e vivida gradazione di immagini. Loy possiede una moltitudine di visioni, e non si lascia mai possedere da visioni altrui.

Apologia del genio suona in questo senso come una poesia rivelatrice della sua consapevolezza:

(…)

Siamo i pagliacci sacri
che si nutrono di vento e stelle
e delle polverose pasture della miseria

Le nostre volontà si modellano
sopra bizzarre discipline
al di là delle vostre leggi

Potete partorirci
o sposarci
le possibilità della vostra carne
non sono il nostro destino—

La corazza dell’anima
ancora splende—
E siamo ignari
quando confondete
un’effimera
usura con la possessione

(…)

Come notato da Pezzino, questi versi non hanno nulla di apologetico, nonostante il titolo. È una delle tipiche dissimulazioni di Loy. È qui rivendicata una alterità precisa, rispetto alle leggi sociali e a quelle della carne, entrambe istituite da uomini; il noi della poesia non può essere incastrato dalla disciplina, può essere ferito, ma non può essere posseduto.

La frequentazione della scrittrice con l’avanguardia futurista è funzionale al suo bisogno di sperimentazione, ma la misoginia fondante del movimento e principale caratteristica dei suoi leader, non può in nessun modo essere digerita da Loy che quindi supera e ridicolizza futurismo e futuristi. Marinetti e Papini diventano nei suoi componimenti Raminetti e Bapini, e il loro machismo così come il loro tronfio patriottismo entrano nel mirino della scrittrice che non ha paura di ridere di bandiere tricolori sventolate e di trasformare lo stesso vate D’Annunzio in Gabrunzio.

Esiste un tipico idillio italiano che da sempre gli stranieri amano immaginare e acquistare e che gli italiani sono contenti di esportare e vendere (e così si spiega il successo di un certo recente cinema italiano a Hollywood). Ma Loy non è interessata a nessun idillio e non è una Lucy Honeychurch, piuttosto rovescia l’atmosfera da cartolina alla Camera con vista. «Non posso immaginare / Niente di meno rispettabile / Di una prolungata invalidità in Italia / Dietro l’indicazione / Di un medicastro inglese». Nelle sue poesie sull’Italia le arance sono teste rotte e le persiane fanno da cornici a macabri scenari, i maschi si nascondono vergognosamente dal barbiere, mentre le ragazze diventano bestie selvatiche o si ammalano di tubercolosi. E se dell’Italia e degli italiani trasforma l’idillio in incubo, della Francia descrive l’atmosfera putrescente da funerale. I caffè parigini sono camere mortuarie, i grandi magazzini del Louvre sono popolati da occhi di vetro e bambole impiccate al soffitto. «Di che colore saranno stati i vostri corpi / L’ultima volta che li avete smessi». Loy solleva superfici eleganti e mostra l’anima marcia di tutto quello che si vuole sia perfetto.

Fedele all’idea rappresentata dalla prima poesia della raccolta e cioè che «Le cose addomesticate / Non hanno immensità», mette in campo un lessico eccessivo per ritrarre situazioni e soggetti al limite. Come in Lady Laura in Boemia, in cui presenta una sontuosa donna al comando di una massa felicemente perduta sfruttando vocaboli da liturgia cattolica e arrivando a un’atmosfera sordidamente blasfema: «Questa badessa-prostituta / presiede / Masse del Jazz / dispensa la comunione nei gin-fizz / —bacia e maledice / dagli abbracci fuori commercio / di un moncherino di Pittsburgh».

Harriet Monroe dopo averla letta e conosciuta di persona ne ammira la notevole bellezza rimasta intatta nonostante le gravidanze e si domanda: «come può una persona così bella essere tanto spietata nel rivelare le proprie brutture, essere tanto sarcastica nei confronti dell’amore?»5Ibidem, p. 1. Il rimprovero di Monroe conferma i pregiudizi e le letture superficiali a cui è stata soggetta l’opera di Loy. Dietro le atmosfere squallide, il linguaggio barocco e le bizzarrie surrealiste si nasconde uno sguardo poetico che attraversa la materia delle cose. Loy si sporge sull’abisso e sperimenta nuovi modi per raccontarlo. Se è sorprendente per una donna del suo tempo scrivere di sesso e tematiche scabrose in maniera così sfacciata, non è mai un’operazione fine a se stessa. Quella dello scandalo è solo una delle sue tante maschere.

Sono in particolare le liriche raccolte in Songs to Joannes che suscitano reazioni indignate. Stravolgendo nella sua personale chiave modernista il concetto di poesia d’amore, Loy va a fondo con la biologia degli istinti e dei corpi, riflettendo sull’uguaglianza di genere all’interno della coppia e sul piano sessuale, implorando di mantenere una individualità nel rapporto amoroso: «Non lasciare che ti capisca / Non comprendermi / Oppure potremmo rotolare insieme / Spersonalizzati / Identici / Dentro l’orribile Nirvana / Me te — te — me».

I pericoli che le relazioni costituiscono per la libertà della donna sono un leitmotiv nell’opera di Loy. Nella prima strofa de L’effettivo matrimonio, tramite il dinamismo plastico di una metafora riesce a riprodurre l’insostenibile normalità della routine matrimoniale: «La porta era una cosa assurda / Tuttavia attraversabile / Quotidianamente ci passavano attraverso / Era questa la forma». Tra le quattro pareti di un interno borghese, i ruoli di genere sono sviscerati con ironia spietata. Il marito è raffigurato nella biblioteca come suo naturale habitat, mentre la moglie è ovviamente in cucina «Dove lui con molta cortesia la teneva», perché donna e dunque «un’istigazione alla reazione dell’uomo / Dal palpabile al trascendentale / Irritante e calmante della sua fantasia».

Ritorna qui il tema dell’irritazione già presente in Parto, in cui però ad avvertirla è la donna che partorisce e che non può ricorrere ad alcun calmante, e l’uomo è ovviamente escluso, liquidato in tre versi come meschino e irresponsabile per natura. È una poesia incredibilmente dura, in cui diversi espedienti metrici e retorici riflettono la lacerazione fisica e mentale provocata dall’esperienza del parto, una lacerazione riprodotta dagli spasmi dei numerosi enjambement e dagli spazi bianchi che spezzano il verso. È un’esperienza accostata al bestiale tramite la raffigurazione di una falena morta che depone le uova o ancora di più tramite l’impersonificazione con una gatta:

(…)
Io sono la gatta

Sale dall’in-conscio
L’immagine di una piccola carcassa animale
Coperta di vespe
—Epicurea—
E attraverso gli insetti
Mareggia quella stessa ondulazione di vita
Morte
Vita
Conosco ogni cosa
Riguardo
            Il dispiegarsi

Viene qui riconosciuta e amplificata la vicinanza alla morte che caratterizza l’atto di dare la vita, privato così di ogni tipo di retorica fasulla.

Nel Manifesto femminista Loy dichiara a grandi lettere che la maternità esclude la donna da qualsiasi altro ambiente che non sia quello in cui l’uomo e la società maschilista la recludono. La sua provocatoria soluzione è la rimozione sistematica e chirurgica della verginità: «Il falso valore attribuito a una donna e identificato con la sua integrità fisica—è un appiglio troppo facile—che la rende letargica attraverso l’acquisizione di intrinseci meriti di carattere tramite i quali ottenere un valore concreto». E se le donne possono e devono essere quello che vogliono, al di fuori della netta e degradante classificazione in madri e amanti, questo non le rende uguali agli uomini,  al contrario, è fortemente evidenziata la sostanziale differenza tra i sessi. La scrittrice esalta le diversità e rifiuta una piatta e comoda uguaglianza.

Per Loy l’individualismo è una questione vitale, emerge tanto nei suoi saggi quanto nelle sue poesie. L’unico momento in cui sembra cedere è nelle poesie che dedica a Cravan. Ne I morti introduce per la prima volta un noi lirico gonfio e sentimentalmente compiuto: «Ci scindiamo in Pienezze». È forse la più autentica poesia d’amore della raccolta, la tragedia della mancanza pulsa di un dolore sordo. «Le tue città sepolte nella digestione dei nostri stomaci / Lampioni che balbettano nelle nostre cavità oculari». Versi come questi suonano più che modernisti.

È interessante la somiglianza che Pezzino evidenzia tra Loy e il punk di Patti Smith, in particolare per quanto riguarda Hot Cross Bum, che insieme a Lungo la Terza fa emergere la predilezione dell’autrice per il mondo dei diseredati sullo sfondo di una New York underground. Entrambe le poesie sono raccolte nella sezione Privilegi della povertà (1942-1949) in cui risalta l’influenza di una certa cultura americana ancora sotterranea. Loy percepisce infatti nuovi respiri artistici, anticipando in certi casi tendenze che si affermeranno qualche decennio più tardi. La rappresentazione di acidi scenari metropolitani attraverso cui si trascinano ombrosi reietti possiede estetica e vibrazioni alla Urlo di Allen Ginsberg, mentre la metafisica di alcune sue liriche precedenti ricorda il migliore songwriting americano degli anni Sessanta. In Baedeker Lunare per esempio, un gusto decadente si unisce a un’atmosfera surreale, immagini allucinate sono galvanizzate da un lessico eccessivo ma mai pesante. Loy si immerge in una materia pericolosamente fitta e riesce a fare fluttuare ogni singolo atomo, riemergendo poi illesa, contemporaneamente eterea e terrena. «Butterata di personificazioni / la fossile fanciulla dei cieli / cresce e cala———». 

Nell’introduzione, Conover ricorda che nel 1921 Ezra Pound riconobbe pubblicamente Loy, Marianne Moore e William Carlos Williams come i poeti più interessanti d’America. Ma è dunque una poeta americana? Nonostante l’ostilità di gran parte dell’ambiente intellettuale, Loy sembra trovare negli Stati Uniti i nuovi stimoli di cui ha bisogno, e da appassionata apolide è a suo agio nel cosmopolitismo delle metropoli statunitensi. Nel saggio La poesia moderna sostiene che «era inevitabile che la rinascita della poesia dovesse giungere dall’America», sottolineando l’importanza del parlato, del ritmo poetico e dell’esperienza individuale. In alcuni casi sembrano più intuizioni da  beatnik che riflessioni di una inglese nata nel 1882: «Potreste pensare sia impossibile evocare il nesso d’espressione che intercorre tra i poeti moderni più intellettuali e un adolescente slavo che dopo aver speculato su un lotto di mandarini all’ingrosso sta ora cercando di venderli in un mercato al dettaglio lungo la First Avenue».   

Loy si porta dietro l’ingombrante bagaglio del vecchio mondo post-vittoriano, assorbe come una spugna le avanguardie europee e le rielabora nella sperimentazione dei suoi versi, fa lo stesso con le avanguardie statunitensi e poi va ancora oltre, intercettando i lampi della controcultura. Non è mai camaleontica. Resta fedele al suo incandescente nervo interno, è sempre riconoscibile sia che parli del monotono acciottolato di Firenze, dei lugubri caffè di Parigi o delle strade al neon di New York. Quando si legge Loy non sono necessarie mappe, è lei a fornire tutti gli strumenti fisici e metafisici utili a perdersi e ritrovarsi.

The Lost Lunar Baedeker restituisce ai lettori la bellezza di una voce che non ha mai smesso di parlare alla letteratura occidentale. Mina Loy continua a essere nuova, continua a disturbare e a meravigliare. Conover considera l’effetto della sua poesia alla stregua di una possessione. Non si esce illesi dal suo itinerario lunare, si sente la necessità di seguire ancora la scia lattiginosa, tornare indietro nel nucleo della poesia, nel centro del Nulla, in cui le ferite della carne sono luminose e ogni dissoluzione è una promessa di immensità.

Note[+]

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