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Durante una puntata del 1963 di Tribuna elettorale, il fondatore del Partito Comunista d’Italia Palmiro Togliatti ha pronunciato delle parole destinate a diventare storiche: «Il ritmo di lavoro nelle officine è diventato così intenso che esaurisce un uomo nel corso di non molti anni. Ma è accaduto come per le api dell’amaro verso col quale Virgilio accusava i profittatori dell’opera sua, ricordate: “Voi fate il miele, oh api, ma sono altri che lo godono”».

Sono fame (Pidgin, 2022), il secondo romanzo della modenese Natalia Guerrieri, classe 1991, dopo l’esordio Non muoiono le api (Moscabianca, 2021), è la storia di un esaurimento. La protagonista Chiara è una delle «rondini» di Envoyé, un’azienda che offre servizi di delivery in stile Glovo o JustEat. Trasferitasi nella capitale non meglio definita di un Paese altrettanto fumoso per inseguire un sogno comune a chiunque voglia di lasciare il nido paterno, Chiara diventa preda del ritmo alienante di una metropoli tentacolare, costretta da un lavoro da rider a tempo pieno che la allontana dai propri obiettivi quanto dalle persone che ha intorno. Nel corso di circa duecentocinquanta pagine la vediamo saettare con la sua bicicletta su e giù per strade e vicoli per portare cibo che non potrà mai permettersi di mangiare; e quel cibo si affatica a portarlo a persone dallo stile di vita irraggiungibile per la protagonista, lavoratrice sottopagata in un mondo privo di un vero ascensore sociale. Fra palazzoni che colano disperazione, incontri con personaggi poco raccomandabili e tentativi di conquistare il proprio spazio vitale nel minuscolo sgabuzzino affittato in un appartamento condiviso con altri tre fuorisede, assistiamo al lento processo di annichilimento cui Chiara va incontro: quell’esaurimento di cui parla Togliatti nel discorso del ’63.

Chiara ha ambizioni letterarie: come molti dei laureati in lettere vorrebbe lavorare in una casa editrice (e aggiungerei: come accade a tutti noi umanisti millennial con velleità letterarie la sensazione dominante è che per riuscirci sia necessario lavorare gratis). Quello che avrebbe dovuto essere un lavoretto saltuario, qualcosa di temporaneo, quasi a indicare un nuovo modo di essere professionisti nell’epoca dei social, delle app e delle start-up, si rivela però essere una trappola. Costantemente seguita dall’occhio inquietante di Mario, il referente di Envoyé che la spia ovunque come un Grande fratello, Chiara arriva a dedicare tutto il suo tempo al lavoro per racimolare pochi euro al giorno. Così pochi che a volte non coprono neanche le spese di riparazione di una bicicletta – la stessa che dovrebbe usare per lavorare. Come i rider del mondo reale, le rondini di Envoyé non si relazionano col datore di lavoro attraverso un contratto da dipendenti, bensì come libere professioniste: in questo modo il costo del mezzo di trasporto – il suo acquisto, la sua manutenzione ecc. – non è a carico della società bensì del lavoratore. Il cosiddetto rischio d’impresa è tutto trasferito all’esterno, ma le rondini – e i rider – prendono comunque una paga misera.

Leggendo le pagine di Guerrieri ci si può sentire in colpa. A qualcuno (chi scrive questo pezzo, per esempio) potrebbe venire da chiedersi quante volte, spinto da una pigrizia invincibile, accudito dalla propria casa calda durante le notti d’inverno, abbia ordinato cibo su un’app di delivery mentre fuori veniva giù il diluvio universale, senza pensare al povero Cristo costretto a mettersi in viaggio su una bici o sul proprio motorino solo per andare a consegnargli una pizza. L’autrice ci invita a guardarci intorno e a considerare aspetti che non stavamo considerando, a notare cose e persone che di solito vengono ignorate, e per farlo descrive con grazia e abilità una situazione nera e labirintica. «Pedalo più in fretta per allontanarmi dai palazzi alti e grigi, dall’immondizia, dai corridoi vuoti in cui nessuno apre la porta, dal buio fetido senza lampioni che si espande come un morbo». Le azioni quotidiane si reiterano giorno dopo giorno in una spirale sempre più stringente: Chiara non fa altro che pedalare, pressata dai messaggi sempre più invadenti di Mario, costretta ad arrivare sempre più lontano, a tornare a casa sempre più tardi. Ogni giorno Chiara deve fare i conti con la sua immagine allo specchio, che man mano le restituisce un volto sempre più deperito e abbrutito. La cifra di questo romanzo non sta nei colpi di scena o nell’imprevedibilità della trama quanto appunto nella ripetizione. La vita di Chiara si trasforma sempre più in una catena di montaggio di cui lei è un piccolo ingranaggio insignificante. Le promesse vengono tradite, prima in modo subdolo e poi sempre più palese, fin quando la ragazza si abitua al nuovo status quo e non ha più la forza per reagire.
La claustrofobia ci assale perché – soprattutto nelle parti descrittive – ogni parola è pesata per trasmettere questo senso di sconfitta. Con una generosità di aggettivi che a volte è quasi esasperata, Guerrieri qualifica persone, strade, palazzi, piste ciclabili donando loro un’atmosfera decadente. Le persone sono maligne, dunque, le strade sporche, i palazzi grigi, le piste ciclabili divelte e piene di erbacce. Parafrasando un noto verso della Bibbia 1 Romani 8:28 , in Sono fame tutto concorre al male. È un male persistente, dal disegno imperscrutabile, che non è nelle singole persone e non è neanche il male soprannaturale dei film horror. È un male sistemico, qualcosa che si è infiltrato nei capillari del nostro ordinamento sociale e morale. La mancanza di gentilezza, di tatto, di altruismo rinvenibile nel romanzo è un tratto tipico di un certo tipo di umanità che più che conseguenza del sistema in cui viviamo sembra esserne la causa. Guerrieri mette in scena una rappresentazione del capitalismo come manifestazione radicale – forse la più evidente, in quanto sistemica e nascosta in ogni aspetto del vivere in società – della volontà di supremazia e della violenza dell’essere umano.
Il male di Sono fame è un male a cui siamo abituati, peggio: è il male che si è fatto abitudine, consuetudine. È un male che non vediamo più perché ormai fa parte di noi.
E per questo fa tanta più paura.

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