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«Ignoriamo il senso del drago,

come ignoriamo il senso dell’universo».

Jorge Luis Borges

C’era una volta un bestiario bizzarro. Nel bestiario c’erano anche una fiaba e alcune favole. E segnali di fumo portati dai piccioni, omicidi transitivi, uomini derubati, uno scorpione e un bambino insieme, un convento medievale, un architetto che progetta poesie perché come scrisse Cortázar «la poesia non è un merito umano, ma una fatalità che si sopporta». E ancora, la moglie di un boia che strofina via il sangue rinsecchito dagli abiti da lavoro del marito, istinti di sopravvivenza legati a un palo, una bugia grande quanto l’angoscia di un bambino, una donna che trasforma animali in bestie che si credono principi, passeri che si credono fenici, gru di carta che credono nell’anima, un altro finale di Terminator 2, Alfred e Batman.
Può sembrare un elenco delirante di fatti e concetti, ma è solo una parte di ciò che racconta l’autrice argentina Gilda Manso in Flora e Fauna. Si tratta di una raccolta di racconti e microfinzioni arrivata in Italia con la traduzione di Antonella Di Nobile nella collana Orso Nero di Wojtek Edizioni che, nel 2020, aveva già pubblicato della stessa autrice Luminosa – un romanzo sulla maternità che ha molto in comune con La figlia unica di Guadalupe Nettel portato nelle librerie lo stesso anno da La Nuova Frontiera.

In Luminosa Manso si era confrontata con una struttura narrativa rodata – un canonico romanzo –, ma in Flora e Fauna sceglie una strada più complessa. Si tratta di un insieme di quattro raccolte di microfinzioni, ognuna delle quali costituisce una sezione del volume: “Primitivo ramo di orchidee”, “Matrioska”, “La stagione dei cinghiali” e “Inediti”. Se il racconto è una forma di per sé rischiosa e chi la sceglie è cosciente del labilissimo equilibrio tra detto e non detto che dovrà domare a ogni costo, il microracconto ne è l’esasperazione: non si tratta più soltanto di padroneggiare la regola dell’iceberg, ma di ridurne la punta – ciò che in un racconto è esplicito – a poche righe, a un’unica frase. Il testo viene raschiato, ridotto all’essenziale, fino allo stremo. La microfinzione è un azzardo: qui il risultato è straordinario.

Manso decide di spingersi oltre rielaborando e mettendo in discussione generi e forme cari alla letteratura latinoamericana (il fantastico, l’onirico), a quella classica (le favole di Esopo e di Fedro, ma anche i miti greci e latini), fino ad arrivare alla narrativa occidentale a noi più vicina. Tutto questo provando e riprovando, con l’unico obiettivo di trovare la forma esatta, perfetta. Insomma, se Queneau avesse letto Manso le avrebbe di certo stretto la mano.

«L’uomo minuto che vive da sempre dentro l’orologio di sabbia e l’uomo non così minuto che vive da sempre dentro il ventre della balena hanno qualcosa in comune: entrambi credono che ciò che vedono sia tutto il mondo».

Nei circa settanta microracconti che compongono la raccolta ci sono alcuni temi che ricorrono e che sembrano cari all’autrice: la vecchiaia, l’incomunicabilità, la morte, l’essere donna e ciò che la società pretende, i disturbi psichiatrici, il suicidio.

Sarebbe impossibile riassumere in questo spazio tante microtrame, ma vale la pena accennare almeno ad alcune di esse. In «L’altra fauna» l’autrice immagina il destino dei passeggeri dell’altra arca di Noè, quella che non è sopravvissuta al diluvio universale privando l’umanità dell’esistenza di cani unicorno viola, uccelli azzurri con tre teste ed elefanti dotati di una sobria proboscide a forma di scimmia. «Spaventapasseri» è una riscrittura del Mago di Oz: terrificante, disturbante, di certo non più una fiaba della buonanotte per bambini e bambine. In «Gulliver nel paese della mia vasca da bagno» i ruoli – e le stature – dei protagonisti si invertono: il gigante di Swift si è trasformato in un lillipuziano insolente, viene fuori dallo scarico della vasca da bagno e si arrampica sul corpo della donna proprietaria del bagno stesso; il motivo della visita è semplice: la richiesta di non gettare più la candeggina nello scarico, una pratica molto pericolosa per la sua incolumità. In «Mitologia» si narra di un cristianesimo gettato in pasto ai falsi dèi del consumismo e di ideali estremisti; alla fine dell’uomo non resterà che «un occhio e un po’ di coscienza», e cesserà di esistere perché le divinità da lui create non crederanno in lui – anche se a proposito della coscienza non sarei così sicura. «L’invenzione perfetta» racconta invece di un uomo che riceve a casa un prototipo di donna-robot: si chiama Rose, ha i capelli neri, pulisce, parla di politica in maniera superficiale, chiede di tanto in tanto come stai, e poi un giorno ammazza il cane perché ha osato urinare sulle tende linde del soggiorno. L’invenzione perfetta o quasi, un paradosso ma non troppo. C’è anche la storia di un novello barone rampante che si crede Peter Pan: un bambino di nome Javier ritrova la sua ombra in cima a un albero mentre beve «due dozzine di chinotti». In «Stagione invernale» una ragazza si suicida per stare dietro alla moda, la moda dei corpi senza vita. «I lettori incastrati», infine, è un omaggio ai maestri che Manso ha scelto:

«Un lettore di Borges gira l’angolo e si scontra con una lettrice di Cortázar […]

Ed entrambi restano incastrati nelle proprie rispettive vite, aspettando che arrivi infine uno scrittore estraneo e imparziale a benedirli con un punto interrogativo o con un incoraggiante punto e virgola».

Si parla spesso di uniformità, di coerenza tematica e stilistica come unità di misura nella valutazione di un testo riuscito o meno: in Flora e fauna mancano l’una e l’altra. Ciò che tiene insieme le microfinzioni che ne fanno parte è lo sperimentalismo messo in pratica sotto la sacra guida di Borges e Cortázar. In uno dei testi, «Racconto con drago cattivo», si legge che «ciò che caratterizza una persona o un drago non sono le sue doti ma l’uso che ne fa». Le doti narrative di Manso sono innegabili, ma quello che impressiona è la sua capacità di plasmare – di plasmarsi – e di prendersi gioco dei dogmi della scrittura. Sovvertire, ribellarsi, andare oltre sempre e a ogni costo. E come in «Racconto con drago cattivo» sono i contadini del regno a bussare alle porte del castello per convincere il re che tenere imprigionato il povero drago non servirà a tenere altrettanto lontano il fuoco dal raccolto, allo stesso modo, anche in letteratura non sempre adeguarsi – a adagiarsi – ai dettami comuni dà risultati soddisfacenti. Arrivare un giorno a esserne consapevoli significa domare la scrittura. Forse anche il fuoco. È allora che il drago (o la letteratura) volerà libero tra i campi, e non si sentirà più la nenia del suo pianto. Fatta eccezione per quelle volte in cui darà fuoco a piccoli cespugli di rami secchi, senza volerlo.

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