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«Andrà via?» chiede Nâhid nel silenzio. La signora Engelhardt emette un suono lieve, sarcastico, e toglie il cucchiaino dalla tazza del tè. «Sei venuta per questo? Per queste tue idee assurde? Voi persiani siete un popolo di sognatori. Se me ne andrò?» La signora Engelhardt scuote la testa. «E dove vuoi che vada? Ma soprattutto, perché? Perché lui mi picchia? Da quando in qua questa è una buona ragione per lasciare un uomo, mia cara? È ridicolo. Il tuo uomo non ti ha forse mai picchiata?»

C’è tutto Cielo di sabbia (traduzione di Anna Ruchat, Keller, 2012) di Sudabeh Mohafez in questo fulmineo scambio che troviamo all’inizio di questa raccolta di racconti: Nâhid, una donna iraniana – la si intuisce giovane nonostante gli acciacchi dovuti alle molte gravidanze e alla grotta maleodorante dalla quale l’abbiamo vista uscire prima dell’alba, «in una nebbia intrisa di urina, catrame, immondizia» – si rivolge alla ricca signora tedesca per la quale fino a pochi giorni prima lavorava come governante, in un quartiere altolocato di Teheran. È stata licenziata in tronco, ma torna dalla ex padrona – la sua Khânom – perché ha da dirle un’ultima cosa: che c’è una violenza che si può tollerare e ce n’è una, molto specifica, che non deve essere tollerata in nessun caso. 

Stiamo ancora muovendo i primi passi dentro il primo dei sette racconti di Cielo di sabbia, «Davanti al trono di Allah», che è forse il più riuscito della raccolta di Sudabeh Mohafez, classe 1963, scrittrice iraniana emigrata a Berlino quando aveva sedici anni. In esso, difatti, convergono in modo più strutturato tutte le linee che, anche nelle altre storie, punteranno a un luogo preciso nel cuore e nel tempo: Teheran. E più precisamente la Teheran degli anni Settanta, quella in cui si può ancora camminare serenamente per strada, riunirsi in assemblea, fermarsi a scambiare battute coi vecchi amici (anche se uomini) o immergere i piedi stanchi (di donna) nell’acqua delle fontane. Quella città febbrile e vitale che è scomparsa con la Rivoluzione khomeinista.

Nâhid è analfabeta e così povera da non potersi permettere una casa, eppure ha le antenne perfettamente sintonizzate sul basso della città e coglie i primi barbagli del cambiamento. Attraverso i suoi occhi e le sue orecchie Mohafez ci racconta una città che sta accelerando la sua trasformazione, assieme alla sua gente. Nel lungo, estenuante cammino che, da quella sorta di caverna che condivide col marito e coi figli nell’estrema periferia cittadina, deve condurla «nel quartiere dove ha sede il Palazzo e dove stanno i ricchi», dove sta anche di casa la signora Engelhardt, Nâhid sembra risalire la città dal basso verso l’alto, scarpinare dal trambusto delle strade sporche e dei venditori ambulanti fino alle vie pulite e fiancheggiate da muri di cinta da cui sbucano acacie e melograni; un luogo dove «le meravigliose montagne sono così vicine che manca il respiro a guardarle» e al cui cospetto si sente benedetta da Allah. 

È insomma un doppio tragitto, il suo. Quello della cronaca della sua giornata e quello, più ampio, della storia del suo paese, a partire dalla «terra ricca sotto il vecchio ulivo nel villaggio dove Nâhid è nata trentun anni prima, e che appartiene a un altro mondo». A definire questa alterità sono alcuni segni piuttosto evidenti, come per esempio il «nuovo cinema con tre sale dove proiettano gli ultimi film dagli Stati Uniti e dall’Europa». Sullo schermo si vedono macchinoni e cocktail, uno stile di vita incoraggiato da Reza Pahlavi, lo scià che governa l’Iran dal 1941, e che sempre più incontra l’avversione dei giovani, insoddisfatti per i livelli di corruzione e un tasso di crescita che sale solo per chi è già in alto. 

Nâhid dà prova di un carattere mite e tollerante, ma non riesce a fidarsi di questi giovani che «vogliono provocare una rivolta e generare un nuovo ordine», poiché «non crede potrà essere migliore di quello presente». Non si fa abbindolare o forse, semplicemente, non ha più la forza di infervorarsi, nonostante tra questi giovani ci sia sua figlia Mariam, che legge libri in arabo, in persiano e a volte addirittura in inglese; libri che Nâhid non capisce ma che le sembrano pieni di rabbia e di «pensieri sul denaro, sul petrolio e sulla storia dei popoli». È tutto sommato fiera di questa ragazza intelligente e forte, con il chador così stretto intorno al corpo che ormai «sembra quasi un’uniforme», ma a volte preferirebbe che si cercasse semplicemente un lavoro come pensano tutte le madri a ogni latitudine. Le proporrà di prestare servizio come donna delle pulizie presso una delle signore europee che frequentano la casa della sua Khânom. Naturalmente, l’impiego servirà solo a suscitare nella figlia l’ennesima invettiva contro questi europei che «bevono caffè freddo e soffrono di emicrania» mentre le donne iraniane sfregano i loro pavimenti e soffrono la fame, come sua madre Nâhid. 

Nel giro di pochissimi anni, la crisi che già si respira in questo racconto peggiora, con un aumento della dell’inflazione e della polizia che ne monitora gli effetti fra la gente, fino alle prime proteste degli intellettuali, presto seguite da quelle delle componenti religiose. Il 1979, infine, con la fuga dello scià e il ritorno di Khomeini a Teheran, segnerà la nascita della Repubblica Islamica e del corpo delle Guardie rivoluzionarie, i pasdaran; un risultato assai diverso da quello auspicato dall’ampio movimento di studenti, nazionalisti, religiosi e comunisti che si era opposto alle politiche del monarca filoccidentale. 

Vengono in mente, rispetto a questo scarto tra aspettative rivoluzionarie e realtà, alcune scene di Persepolis, film d’animazione del 2007 basato sull’omonima graphic novel autobiografica di Marjane Satrapi. La famiglia della fumettista e regista, da sempre in lotta per il trionfo del proletariato iraniano a costo di morti e detenzioni, accoglie con giubilo la fuga dello scià che preannuncia una nuova giustizia, ma ben presto dovrà fare i conti con un paese devastato dalla sanguinosa guerra contro l’Iraq, in un contesto sempre meno laico e sempre meno vivibile, specialmente per le donne. In quel caso, e vien fatto di pensare in molti altri, la famiglia finisce decimata e sparpagliata per il mondo.

A leggere Cielo di sabbia, invece, le somiglianze tra la protagonista del primo racconto e la sua autrice, Mohafez, si fermano alle fondate preoccupazioni per le sorti del paese. Allo scoppio della rivoluzione, infatti, la madre dell’autrice, berlinese, decide di fare ritorno in Germania, con una partenza improvvisa che non dà tempo alla figlia di elaborare il distacco, e che produrrà in lei un senso di sradicamento evidente in tutta la futura produzione artistica. È stato gettato, così, il seme di una nostalgia insanabile che da allora le impedisce di sentirsi sia pienamente iraniana sia pienamente tedesca. In fondo, almeno in questo si tratta di due traiettorie simili: è lo stesso senso di mancata appartenenza vissuto dalla giovane Satrapi trapiantata in Austria dopo la rivoluzione, che ritroviamo trasfigurato narrativamente sempre in Persepolis. Mohafez, da Berlino, elabora la distanza dalla terra avita conferendole una dimensione quasi onirica, e sicuramente «altra». Una madre tedesca, un padre iraniano, e una lingua in comune, il francese, portano questa assenza su un altro terreno. Se la Berlino dei racconti è una città immersa nel presente, l’Iran, viceversa, resta fermo nel tempo, un luogo mitico da cui si è esiliati per sempre, con la sua Teheran olezzante di fiori e sovrastata da montagne immense, che finiscono per apparire come un miraggio persino tra la bruma della Sprea, come avviene nel secondo racconto, Sedimento. Qui il monte Damāvand, «la corona di Teheran» con i suoi seimila metri di altezza, si materializza sull’acqua, «e la sua cima ricoperta di bianco risplende più radiosa del sole di Berlino la sera». In questa visionaria passeggiata berlinese, alle pendici del monte «scorre la Sprea che sta ai miei piedi, e una punk del gruppetto accampato davanti al Tränenpalast vuole scroccarmi una sigaretta». 

Il confine tra fantasia e realtà, al limite del surreale, sfuma con una certa naturalezza anche in altri racconti. Così la protagonista dell’ultima storia, Lea, ricoverata in ospedale in Germania, si rasserena solo al ricordo del viaggio nel deserto che ha fatto da bambina, con tante lune che «nuotano nella notte» e il firmamento a illuminare la strada come un «vassoio luccicante di puro argento». Una traversata anche «quel saltabeccare, frettoloso e divertente perché avventato, da una lingua all’altra […] come se le parole fossero rose appesantite dal polline, e chi parla nient’altro che un’ape» che, in Luoghi, riporta la mente della protagonista a Teheran, lasciando il posto alla fatica di trovarsi in un luogo, la Germania, in cui «le parole non si sono fatte trovare per molto tempo» poiché «qui non crescevano sugli steli, e nemmeno sugli alberi, sui cespugli o sugli arbusti», tanto che, per resistere alla distanza, si consola coltivando un giardino «pieno di gelsomini e di calore e di nuvole».

L’unità di spazio-tempo allora si sfalda, salta e si moltiplica, così come l’identità della protagonista, che però, di racconto in racconto, conserva intatta la radice persiana della sua cultura, rinvenibile, oltre che nei temi, anche e soprattutto nel tono salmodiante della narrazione e nell’inflessione favolistica che non può che ricordare una rivisitazione in chiave moderna delle Mille e una notte. La voce che si leva in questo strappo tra luoghi del presente abitato e luoghi del passato abbandonato è dura e poetica, e riesce a trasmettere, oltre il velo di nostalgia, la continua ricerca del riscatto. Mohafez cerca di tener vivo il ricordo di un mondo non ancora perduto del tutto, almeno fintanto che resta vivido nelle sue parole; non è un caso che un’altra delle sue raccolte si chiami Tieni vivo il ricordo del volo (traduzione di Stefania Ceraolo, Beatrice Mereghetti e Anna Ruchat, Ibis edizioni). In qualche modo, è lo stesso ricordo che aiuta a sopravvivere anche i personaggi dei suoi racconti – madri, figli, reduci di un passato brutale e spesso pieno di botte, vittime di sopraffazioni patriarcali e culturali – e ci riesce capovolgendosi in orizzonte, in linfa vitale per il qui e ora, ovunque esso sia.

Nemmeno il ricordo, tuttavia, basta a Sudabeh Mohafez per sentirsi davvero a casa nella sua nuova patria. Dopo gli studi universitari di musicologia, anglistica e scienze dell’educazione, ha diretto per alcuni anni una casa-famiglia e collaborato con organizzazioni che si occupano della prevenzione della violenza su donne e bambini, argomenti nodali nei suoi racconti. Deve aver continuato tuttavia a sentirsi un’estranea, tanto da trasferirsi per alcuni anni a Lisbona, dove finalmente trova un po’ di pace nell’ambiente poliglotta della capitale portoghese. I suoi scritti cominciano ad apparire su antologie e riviste dal 1999, e Mohafez si misura con romanzi e racconti, ma anche con alcune pièce teatrali. Il suo talento, però, viene riconosciuto pienamente solo nel 2004, con la pubblicazione di Wüstenhimmel Sternenland, che arriverà in Italia nel 2012 con il titolo Cielo di sabbia (scelta, bisogna dirlo, non troppo felice, specie se si pensa che il titolo è identico a quello scelto da Einaudi per consacrare il ritorno del romanziere americano Joe R. Lansdale solo un anno prima, nel 2011). Grazie ai suoi lavori vincerà l’Adelbert-von-Chamisso-Prize nel 2005 e più avanti il MDR-Literaturpreis e l’Isla-Volante Literature Prize per il blog letterario Zehn Zeilen. In Italia, a ogni modo, resta un’autrice poco conosciuta, che vale la pena di iniziare a leggere e tradurre di più. Cielo di sabbia è un libro esile, ma in poco più di cento pagine riesce a consegnarci l’immagine di una donna aggrappata a un mondo amato dove non si può più vivere, o almeno non si può vivere liberamente se si è donne, se si è scrittrici, se non si accetta di rannicchiarsi sotto la cappa asfissiante del fondamentalismo religioso. Una lettura, dunque, che forse oggi può ambire a ricoprire qualcosa di più di una mera funzione consolatoria. Non solo le cose morte possono essere cantate, sembra dirci questo libricino, ma anche quelle che sono rimaste vive da qualche parte – in un’infanzia, in una donna che scrive, in un popolo oppresso – e che attendono solo di essere chiamate col loro nome per esistere ancora.

Nel 2023 continuiamo a leggere di giovani iraniani che stanno pagando con la vita il loro desiderio di vivere in un paese libero dalla dittatura e dalla segregazione di genere, stavolta nell’ambito della protesta scoppiata all’indomani della morte di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia religiosa nel settembre 2022 perché non indossava correttamente l’hijab, il velo obbligatorio. L’Iran di oggi è un paese in subbuglio in cui è un doloroso esercizio rincorrere la lista di arresti ed esecuzioni: basta avere vent’anni e pubblicare un video in cui si balla in una piazza di Teheran per farsi dieci anni di carcere, con l’accusa di «incoraggiare la corruzione e operare contro la sicurezza nazionale diffondendo propaganda contro la Repubblica Islamica».

Non tutti, lo sappiamo bene, avranno la possibilità, come Mohafez, di trovare la salvezza oltre i confini iraniani, eppure pare che ci sarà un’altra generazione che condividerà con lei lo stesso senso d’esilio pur vivendo a casa propria, a cui toccherà patire ancora la differenza tra il paese del cuore e quello della realtà. Il Damāvand, allora, andrà forse a cercare anche loro, manifestandosi in un paese straniero o nella cella di un carcere, per ricordare a chi l’osserva l’Iran che fu e quello che dovrà essere.

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