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«La musica sentimentale ha un grande potere: ti riporta indietro nel momento stesso in cui ti porta avanti, così che provi, contemporaneamente, nostalgia e speranza» scriveva Nick Hornby nel remoto 1995 in Alta fedeltà (traduzione di Laura Noulian, Guanda, 1996), uno dei suoi libri più amati. Questa lezione sembra averla fatta propria Nicola H. Cosentino che, dopo Vita e morte delle aragoste (Voland, 2017), torna a scrivere di ambizioni, relazioni e fallimenti personali in un romanzo che ha moltissimo in comune con quello di Hornby, a partire dai temi e dalla copertina (vedi l’edizione Guanda del 2015).

Le tracce fantasma (minimum fax, 2022) è la storia di Valerio, chitarrista fallito di trentotto anni riciclatosi come critico musicale. O magari è un ottimo critico che un tempo perdeva tempo dietro alle sei corde. Difficile a dirsi, ma noi propendiamo per la prima ipotesi perché Valerio non sembra aver digerito che Giacomo Irrera, con cui suonava da ragazzo, sia diventato un cantante di successo. Irrera propone un pop leggero e sornione alla Tommaso Paradiso che sta a Valerio come un mosquito sound all’orecchio di un adolescente. La sua hit, Sempre festa, riecheggia l’incipit de La bella estate di Pavese. Fin qui niente di male, se pensiamo che persino De André ha cantato i versi dello scrittore piemontese ne La morte. Secondo Valerio, però, Irrera pecca di semplicità; andando avanti nella lettura si capisce che questa semplicità offende la sensibilità del critico quanto stuzzica l’invidia dell’artista. Valerio non è riuscito a realizzarsi proprio per eccesso di sofisticazione.

Come se non bastasse, Instagram gli propina la sua fidanzata ai tempi della scuola, Anna Milani, appena diventata mamma, ossia adulta. La notizia è l’indice sul tasto play che avvia il blues di Valerio, un crescendo di lagne che culminano in deliqui e stati di incoscienza triggerati dall’ascolto di certa musica che gli parla alla coscienza: Ivan Graziani per primo, seguito da Sting e reminiscenze dei Duemila.

Lui, in teoria, una ragazza ce l’avrebbe pure. Si chiama Mirella e l’ha conosciuta su Tinder benché abiti al piano di sotto dello stesso stabile. Si frequentano da due anni, o meglio dormono insieme e ormai lui sa persino in quale cassetto lei tiene i calzini. Nonostante tutto, anche solo l’ipotesi di tenere il suo mazzo di chiavi di casa di scorta lo mette in difficoltà. Avrà tutto il tempo di pentirsene quando le vedrà tintinnare in mano a un altro uomo.

Valerio e Anna, dicevamo. La storia fra loro è una sinfonia adolescenziale finita con una dissolvenza di quelle oramai fuori moda. Noi ne intuiamo la portata attraverso questi riverberi. Durante le misteriose trance musicali Valerio incontra Anna nel presente. Come una canzone in coda a un disco che non viene scritta sulla tracklist, dopo un silenzio durato anni ha finalmente la possibilità di svelare una parte di lei che gli era rimasta inaccessibile.

Lei, come l’Adelaide di Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi, «non è una ragazza, è un intero disco», in quel caso di Battisti. Anna sublima la frustrazione e il rimpianto per ciò che è stato e non sarà mai più nella vita di Valerio: è la grande occasione perduta, il tasto rewind che lo fa sentire perennemente in colpa e pregiudica gli ascolti del presente e del futuro. In fondo è stato lui per primo a non cercarla più. Anna rimarrà per sempre a incarnare l’inafferrabile bellezza che Valerio associa alla musica, e in virtù di questa condizione olimpica è l’unico personaggio che si sottrae alle sue critiche.

La storia di due personaggi che si cercano su piani simbolici di ricordo e sogno – un «lungo canale metafisico» lo chiama Cosentino – rievoca l’atmosfera di IQ84 di Haruki Murakami, un maestro delle commistioni tra musica e letteratura, ed è un altro puntello a cui si ancora Le tracce fantasma.

Si dice che la canzone perfetta sia caratterizzata dalla giusta dose di prevedibilità e sorpresa, insomma, quello che ti aspettavi ma un tantino diverso. Un po’ come questo romanzo, un mash-up in cui il noto e l’ignoto sono continuamente rammendati attraverso l’ironia, vera sezione ritmica in Le tracce fantasma.

Prima di tutto per il modo in cui viene presentato Valerio: è un ex ragazzo stanco e sciatto sul cui volto l’amarezza non lascia il posto alle rughe. È uno che non sa godersi le cose, non sa sentire una canzone e basta: lui ci deve ragionare sopra. Emerge appena tra accordi di chitarra, stralci di canzoni, verità esistenziali offerte in dono dagli altri personaggi. Critica di mestiere ma non prende decisioni. La sua vita è in ciò che non dichiara; non parla mai con sincerità, la sua casa racconta più che altro le scelte che non ha fatto. Se Rob Gordon, il protagonista di Alta fedeltà, poteva snocciolare una top 5 per ogni argomento, Valerio ha per tutto una qualche playlist (vedere per credere il QR alla fine del libro, un tocco di transmedialità già sperimentato da Feltrinelli e Morellini). Anche la descrizione della scena musicale milanese ben si presta a uno sguardo disincantato: porte girevoli per artisti usa-e-getta e al contempo una pratica metafora della società ai tempi dei social. In fondo parliamo di «un mondo di merda ossessionato dalla reputazione e dagli assoli».

Ma il personaggio che meglio riesce a tirar fuori la visione ironica delle cose di Valerio è suo nipote. Alfredo costringe il protagonista a fare i conti con il tempo che va a un ritmo più veloce del suo. Scappato di casa per sostenere i provini di X Factor, il ragazzo chiede allo zio di ospitarlo a casa sua, d’altronde Valerio non ha mai smesso di abitare nel quartiere universitario. Già che c’è, gli chiede un consiglio professionale, in qualità di critico musicale, sulla canzone che ha composto per il provino. Valerio fatica una volta messo davanti alla realtà del confronto generazionale nel ruolo di adulto (in cui si ritrova senza volerlo, com’è ovvio). Si interroga se sia meglio incoraggiare Alfredo nel suo sogno o convincerlo a mollare prima di bruciarsi, o prima di fare la sua fine cioè un gran buco nell’acqua. Si intuisce un senso di protezione verso il ragazzo, un sentimento genuino e per una volta del tempo presente, che stona con ciò che è diventato Valerio, o piuttosto fa stonare il trentottenne amareggiato e la sua incurabile nostalgia.

I dialoghi zio-nipote sono i migliori del libro, anche se in alcuni punti rischiano quasi di sabotare il romanzo. Nello specifico Valerio, parlando della canzone che ha scritto il nipote, sostiene che le citazioni nel testo secondo lui risulterebbero ignote a molti suoi coetanei e avrebbero l’effetto di “mine inesplose”. Boomerang, diremmo noi, visto che la stessa cosa può essere detta della maggior parte della playlist di Le tracce fantasma, composta da canzoni e artisti sconosciuti agli adolescenti del 2023.

Al contempo, l’ignoranza di Valerio per le nuove forme musicali (trap e compagnia) mostra i limiti e le sfide del critico musicale che ascolta il presente con il passato nelle orecchie. Ciò che è pop e attuale in un attimo si fa retrò e nostalgico, e quelli come lui restano bloccati in un tempo in cui erano giovani e spensierati. Un disco rotto, come quello sulla copertina.

Se Valerio razzola male, riesce comunque a predicare bene. È proprio nei dialoghi con Alfredo che Cosentino inserisce una delle battute più adamantine del protagonista: «Potenzialmente stai parlando a qualcuno che ancora non è nato. Ai tuoi figli. La tua canzone deve arrivare a loro».

Nel suggerimento c’è un giudizio implicito verso i padri: il suo, ipocritamente borghese, all’età di Valerio aveva ottenuto ciò che voleva – quello che volevano tutti, per dirla con Francesco Piccolo. Lui, invece, a quasi quarant’anni ancora non ha impostato una rotta alla sua vita. In questo semmai assomiglia al padre di Anna, un non suocero che ha abbandonato la famiglia quando lei era una bambina per inseguire il sogno mai avveratosi di una carriera da attore.

L’agnizione del libro sta tutta qui: Valerio si domanda, forse per la prima volta, cosa abbia davvero da dire a suo nipote. La risposta è racchiusa in due perle di saggezza sapienziale: «la nostalgia è una terra sterile» e «niente, specie ciò che è bello, ci appartiene davvero». Ossia, se non avrai successo avrai bellezza – e goditela, sembrerebbe aggiungere, per una volta senza indulgere in citazioni.

Tuttavia, per tutto questo profluvio di ironia il romanzo rimane un po’ schiacciato su una geremiade da leggere attraverso un filtro schiettamente estetizzante, come un assolo lunghissimo, un virtuosismo che soddisfa a pieno solamente chi lo suona. Le scelte stilistiche, d’altra parte, non ammettono fraintendimenti, e non si contano i riferimenti alla letteratura confessionale maschile (il già citato Hornby, l’O’Connor de Il gruppo), alla poetica del rimpianto (di nuovo, La bella estate di Pavese). La narrazione è in terza persona ma focalizzata su Valerio, un fuori tempo sincopato tra azioni e pensieri. I capitoli si estendono in flashback di anni, giorni o di poche ore e le riflessioni si elevano in argomentazioni esistenziali mentre la parola si fa suono nel linguaggio e nei caratteri tipografici. Per la gioia del malcapitato redattore i dialoghi sognati perdono le virgolette, le frasi assumono la punteggiatura dei testi delle canzoni, tra le sillabe delle parole spuntano le scale musicali. I botta e risposta si trasformano in stringhe in chat, trascrizioni di messaggi vocali e di programmi radiofonici.

Quando è andato a ritirare il Nobel, Kazuo Ishiguro ha ammesso di aver pensato spesso che avrebbe voluto scrivere una scena che suonasse come la voce di un cantante. Si riferiva alla particolare nota emotiva che la voce umana riesce a trasmettere. Ecco, Le tracce fantasma non ha un’unica voce, ma fra i tanti artisti citati nel romanzo Cosentino riserva un posto d’onore a Ivan Graziani. Il chitarrista, in particolare, fa da sottotesto della condizione esistenziale di Valerio (non a caso è la seconda traccia nella playlist del libro, la prima che lo manda in trance). È una canzone che parla di desiderio, abbandono e rimpianto. È l’eco pop de La bella estate, un cantautorato di nicchia che piace a Valerio, che forse piaceva un tempo anche al suo antico sodale Giacomo Irrera. Proprio Giacomo, nelle prime pagine del romanzo, confessa di cantare per l’esigenza di riavere indietro le cose che ha amato. I due, alla fine, sono più simili di quanto non sospettino. L’artista e il critico, chi suona e chi ascolta, si muovono sullo stesso pentagramma secondo metriche diverse. Questa è l’acqua – pardon, la musica.

Il blues di Valerio, tra uno svenimento e l’altro, attacca con lo stesso obiettivo e lo persegue per la bellezza di 391 pagine. Si giunge a un bridge inatteso (featuring Anna) e un fade out finale in cui la nostalgia cantautorale incontra il realismo trap e il passato di rimpianti si rimargina al presente.

La musica sentimentale ha davvero un grande potere, come scrive Hornby, e Cosentino lo esaspera per neutralizzarlo. La nostalgia di Valerio assume le frequenze del mosquito sound, diventa un sibilo al quale diventa insensibile nel momento in cui sceglie di essere un adulto.

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