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«Quando sono quasi morto, è stato il giorno più brutto della mia vita, ma anche il più bello», afferma l’alpinista Tomasz Mackiewicz, alias Tomek, nel film Verso l’ignoto. La scalata del Nanga Parbat di Federico Santini (2015), dopo uno dei tanti tentativi di ascesa. E continua: «Questa montagna offre tanti paradossi. Sono molto contento di non aver raggiunto la vetta, perché la vetta sarebbe stata solo cibo per il mio ego, io non voglio nutrire il mio ego, voglio solo controllarlo. Ora voglio passare del tempo con i miei bambini e con la mia famiglia, e concentrarmi sulla mia vita a valle». Il fallimento non era un fallimento. Il “successo” invece, ovvero il raggiungimento della vetta insieme alla compagna di cordata Élisabeth Revol, gli è costato la vita. Si sono aggiudicati la prima salita invernale per una via nuova, indicata da Reinhold Messner e Hanspeter Eisendle ma mai portata a termine fino a quel momento, neanche d’estate. Era il 25 gennaio 2018 e durante la discesa Tomek è stato costretto a fermarsi poco sotto la sommità della montagna, spossato dalla stanchezza e con i primi segni di cecità, così Tosco ne racconta la fine: «Sopravvisse soltanto Élisabeth, dopo aver fatto tutto il possibile per salvare anche Tomek. Purtroppo l’alpinista polacco si lasciò persuadere da Feri [creatura magica che appare nei suoi sogni, specialmente ad alta quota] e dal Nanga Parbat a restare per sempre lassù, accecato dal biancore della neve che bruciandogli gli occhi, forse, volle restituirgli almeno un briciolo del calore intenso con cui lui l’aveva sempre osservata, perfino in sogno». Là, tutt’oggi, risulta disperso.

Nanga Parbat: l’ossessione e la montagna nuda (66thand2nd, nella collana “Vite inattese”) di Orso Tosco fa anche questo, rimette in discussione il concetto stesso di fallimento e di “rispetto” della vita. Lo fa attraverso le vicende più importanti dell’alpinismo estremo legate alla “Montagna Nuda, la Montagna Mangiauomini, la Montagna del Diavolo”; e attraverso la letteratura, in un continuo alternarsi tra le due pratiche, della scalata e della scrittura, apparentemente agli antipodi, ma mosse da una spinta comune: l’ossessione. Sono proprio i fallimenti raccontati ad attirare l’attenzione del lettore, e le varie forme che questi assumono nella mente di chi li vive, di chi li racconta, di chi li legge. Partendo dalla celebre definizione di “conquistatori dell’inutile”, con cui Lionel Terray appellava gli scalatori, Tosco paragona l’alpinismo d’esplorazione alla filosofia Zen, le cui basi si fondano appunto sul culto dell’azione inutile. Le intenzioni delle odierne esplorazioni si alimentano dei più antichi tentativi e dei più antichi fallimenti, di altre epoche in cui il fermento per tali attività era altissimo. Ne parla Bill Bryson in Breve storia di quasi tutto, nel capitolo intitolato “La misura delle cose”: «Se si dovesse indicare quale sia stata la spedizione scientifica meno piacevole di tutti i tempi, difficilmente si riuscirebbe a trovarne una peggiore di quella inviata in Perù nel 1735 dall’Académie Royale des Sciences. […] Quasi all’improvviso le cose cominciarono a mettersi male, a volte in maniera addirittura spettacolare. A Quito, gli esploratori dovettero in qualche modo urtare la suscettibilità degli indigeni e furono cacciati dalla città da una folla inferocita e armata di pietre. Subito dopo, il medico della spedizione fu ucciso per un malinteso sorto a causa di una donna. Il botanico impazzì. Altri membri del gruppo morirono per le febbri o in seguito a cadute. Uno degli uomini più anziani della spedizione, un tal Pierre Godin, fuggì con una tredicenne e non fu possibile convincerlo a tornare». Anche in Nanga Parbat si narra dei numerosi tentativi fallimentari, della smania dei nazisti che, per confermare le proprie teorie pseudoscentifiche sull’origine degli ariani, hanno inviato numerose spedizioni sulla “montagna del destino tedesco”, a cui però la montagna stessa ha risposto con la morte: «Se il Nanga Parbat fu davvero la montagna del destino di una nazione, si trattò esclusivamente di un destino di sacrificio e morte. La divinità che abitava la cima più alta non voleva permettere a troppi scarponi di sporcare il candore delle sue nevi. Una persona soltanto, solitaria, avrebbe ricevuto il tanto agognato permesso. Ma senza svastiche, poiché nel mentre il Terzo Reich era crollato». 

Varrebbe la pena morire anche solo per inseguire il sogno? Se lo chiede l’autore in una delle parti più perturbanti del racconto: «Pochi, davvero pochi sono coloro i quali riescono a sopportare la pressione causata dall’inseguimento di un sogno quasi irraggiungibile. Poche categorie umane rientrano in questa ristretta famiglia. Gli alpinisti e i poeti sicuramente». È bene dunque rivolgersi prima di tutto a loro, ai poeti, e tra i numerosi rimandi ce n’è uno che riguarda proprio il sogno, quello del poeta olandese Pierre Kemp: «Certe notti seguo una luce gialla / fino a una porta azzurra con scritto: SOGNO. / Non la apro di mia mano / e non mi accoglie una donna / perché io vi compri dei sogni. / Eppure i miei sogni li ho sempre pagati. / Alla notte non devo niente». Nello stesso capitolo la storia più affascinante sembra essere quella di una rinuncia, o di chi a poche decine di metri dalla vetta si è posto la stessa domanda, valutando se continuare a vivere o morire coronando le aspirazioni di una vita. La protagonista è l’alpinista italiana Tamara Lunger, che a settanta metri dalla cima ha trasformando il fallimento nella «più grande dimostrazione di forza di tutta questa colossale avventura»: rendendosi conto delle proprie condizioni fisiche si è privata della conquista del Nanga Parbat, lasciando il sogno ai compagni di cordata: Moro, Txikon e Sadpara.

Ma «La vera sfida dell’alpinismo va oltre la mera conquista di una vetta, e ha spesso a che fare con la capacità di privarsene pur sapendosi degni di raggiungerla. Tamara Lunger, con il suo gesto, donò a quella prima, storica ascesa invernale un capolavoro di umiltà, che se possibile la rende ancora più unica e speciale». 

Orso Tosco racconta le imprese degli alpinisti sul Nanga Parbat trasformandosi nel “terzo uomo”, un uomo di neve, che non sente il freddo né soffre per la mancanza di ossigeno in prossimità degli ottomila, nella zona della morte, dove la vita umana non è sostenibile nel lungo periodo. Sì perché il “terzo uomo” non è umano, non dà consigli né risposte agli esploratori, li osserva in lontananza e tiene loro compagnia, si ferma quando loro si fermano, muore quando loro muoiono, ma non gioisce quando conquistano la montagna, perché la meta è solo metà del viaggio. Lo sa bene Reinhold Messner, che nel giugno del 1970 raggiunge la cima del Nanga Parbat scalando la parete Rupal, insieme al fratello Günther, ma al ritorno, «Costretto a testimoniare la scomparsa del fratello e incapace di accettarla», vaga per giorni in quel territorio ostile. «Sprofonda in un dolore tale che perfino la morte non riesce a raggiungerlo. Soltanto la sua voce trova spazio, soltanto la sua voce si intromette: folle e selvaggia si spalanca alla ricerca di risposte che non possono giungere, folle e animalesca; simile all’ululato di un lupo, dialoga con vecchi e nuovi fantasmi, si accartoccia nel pianto, nei grugniti». Il terzo uomo è anche un letterato, prende appunti e costruisce biblioteche, forse egli stesso esce da un libro. Chi è costui? Si chiedeva T.S. Eliot in The Waste Land: «Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? /Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme / Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca / C’è sempre un altro che ti cammina accanto / Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato / Io non so se sia un uomo o una donna / – Ma chi è che ti sta sull’altro fianco?»Esce da un libro per entrare in un altro libro, forse un’altra epopea degli sconfitti, questa volta alla conquista del Polo Sud, la storia di Robert Falcon Scott e degli uomini che insieme a lui perirono tra il 1911 e il 1912, raccontata da Filippo Tuena in Ultimo parallelo (Il Saggiatore) con il sostegno dell’uomo invisibile, un miraggio, come espediente letterario. Orso Tosco riesce a riportare il lettore, grazie alla sua sensibilità o a quella dei tanti autori citati nel testo (Saba, J.Roth, Eliot, Sereni, Celati, Kafka, Burroughs, Brodskij, ecc.), negli stessi labirinti di ghiaccio nascosti dentro i grandi romanzi, da Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre di Christoph Ransmayr allo stesso Ultimo Parallelo di Filippo Tuena, ricostruendo per tappe le ascese al Nanga Parbat. 

Le scorciatoie diventano un «pauroso ghiacciaio verticale tempestato di valanghe»; il ritorno a casa è ostacolato da muri di neve e vento: «La neve è polvere che si fa ghiaccio duro e poi ancora polvere. Il vento scava nel ghiaccio, impone firme e ideogrammi leggibili che possono durare un attimo appena o più a lungo della vita di un uomo. L’aria è percorsa dal luccichio dei cristalli di neve». Sul Nanga Parbat «Le leggi e le costrizioni del mondo appaiono lontane, lontanissime». Orso Tosco diventa quello stesso miraggio, si fa angelo custode degli alpinisti, così vicino a loro, eppure così distante, come ci confessa nell’ultimo personale capitolo del racconto, dove l’ascesa alla vetta sembra essere un impulso sconosciuto: «Questo per dire che la mia montagna, prima ancora di essere montagna è una postura, uno sforzo che il mio corpo compie dirigendosi verso il punto cardinale sbagliato». Ma non è soltanto la maggiore predisposizione dell’autore al mare, è anche la chiusa di un discorso più ampio, che se potesse essere messo in scena avrebbe come teatro la montagna; come personaggi principali musica, arte, letteratura, poesia, e come plot la scalata verso il nulla, una conquista dell’inutile: «Bisogna avere una mente d’inverno, ecco, e bisogna avere freddo da molto tempo, dal tempo che più di tutti conta, quello dell’infanzia, per non pensare alla pena racchiusa nel suono del vento, e per non avvertire il nulla che ci circonda senza sosta, come un cacciatore incurante e instancabile. Il nulla che è, e che va conquistato, di metro in metro, con le dita più dure della roccia, più fredde del ghiaccio».

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