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C’erano una volta, in un regno lontano, regine invidiose, genitori che abbandonavano i propri figli, strane pozioni salvifiche, vecchie rugose con brutti nèi sul naso e re tutt’altro che magnanimi. 

C’erano una volta le fiabe dei fratelli Grimm. 

Purtroppo la versione originale delle loro storie è stata tramandata scevra del «loro originario aspetto grottesco e crudele sostituito da un immaginario piatto e banale. Un atto di stupida depurazione alla quale, molti anni dopo, avrebbe contribuito un ambizioso disegnatore statunitense (Walt Disney) […] che ripulì le fiabe originali da ogni elemento che potesse disturbare la morale e potesse ostacolare le vendite, trasformando i cruenti racconti della tradizione orale in qualcosa di simile alla birra analcolica». Per fortuna poi è arrivato Iván Maureira Ortiz con il suo Non leggere i fratelli Grimm (traduzione di Claudia Morazzi, Edicola), un titolo che quasi suggerisce un’esortazione da psicologia inversa.

Il romanzo racconta la vicenda – in una Valparaiso tra gli anni ’40 e ’70 del XX secolo – del giovane Gabriel Burbank Cambiasso che, affidato già neonato, alle cure di un’allevatrice, Anastasia Pérez, si ritrova a commettere una serie di delitti, guidato proprio dallo sguardo vigile e attento della sua nutrice. I due si trovano a condividere lo stesso disagio di figli privati dell’amore genitoriale: Anastasia è orfana mentre Gabriel ha perso la madre – morta dandolo alla luce – e suo padre, Giorgio Cambiasso, è in realtà una figura poco, o per nulla, presente durante gli anni della sua crescita e formazione. 

Nella vicenda di Gabriel e Anastasia, si snodano altre microstorie che tra loro si intrecciano e si innescano in ramificazioni perpendicolari. Questa struttura chiasmatica consente all’autore di dispiegare una pluralità di caratteri e di immortalarla nelle risposte, tutte diverse e personali, alle prove poste dalla vita in quest’angolo di Cile. Giorgio, per esempio, quando la sua amata Diane muore, sprofonda nel dolore non curante delle sue responsabilità paterne, che finirà per delegare ad altri ritirandosi in solitudine, pago della sola nostalgia di pochi ricordi felici.  

Ovidio Márraga, maestro di Gabriel, invece, si sforza di reprimere per anni, a causa di un trauma subìto da bambino, i propri impulsi pedofili sapendoli sbagliati, per poi infine cedervi miseramente stuprando la sua alunna Josefina – la sola amica di Gabriel – e punirsi o abbandonarsi all’unico vero sollievo: la morte. 

«Il piccolo Gabriel» crescerà «[…] da una parte, nel candore e nell’innocenza dei film Disney che ogni tanto guardava con il padre […], e dall’altra nel mondo oscuro e misterioso delle leggende che Anastasia gli raccontava […], dove regnavano le passioni più bieche e l’astuzia». Questa doppiezza – che ci riporta dritto all’ambivalenza dell’animo umano per come raccontato dalle fiabe – caratterizzerà il protagonista nel suo ritrovarsi a percorrere entrambe le strade. Ma a intessere e muovere le fila di tutta la narrazione servendosi dei fratelli Grimm rimane sempre lei, Anastasia.

Cresciuta in un orfanotrofio si rende conto fin da subito di quanto ingiusta possa essere la vita. Tuttavia si lascia incantare dal fascino del primo lungometraggio d’animazione della Disney, Biancaneve e i sette nani, e si ritrova quindi a sognare e sperare che qualcuno venga a salvarla dalla sua condizione tragica. Ma in seguito a un evento subdolo e spiacevole con Ovidio – proprio il futuro maestro di Josefina e Gabriel –, Anastasia scopre che per lei non esiste alcun eroe e nemmeno uno sgarrupato salvagente. L’unica alternativa che le resta dunque è rifugiarsi in biblioteca dove comincia a leggere i racconti dei fratelli Grimm. Così «attraverso quelle fiabe colme di poteri capricciosi e autorità indiscutibili, di dolore e crudeltà, riuscì a trovare un significato alla sua vicenda e non si sentì più così infelice. Si rese conto che la vita assomigliava davvero a quella che i fratelli Grimm avevano descritto: nonostante tutti i tentativi per addolcirla, rimaneva comunque atroce». E proprio quelle storie diventano per Anastasia una vera e propria «guida alle passioni e alle perversioni umane» che le insegnano «a cavarsela in un mondo sordido e ingiusto» e a contare solo su di sé. Negli anni però comincia a covare un forte senso di rancore nei confronti dell’intero genere umano e, in particolare, verso gli abitanti di Valparaiso, rancore che presto si traduce in un desiderio di rivalsa. E come per magia, questa possibilità di salvezza e vendetta, si manifesta proprio nel suo diciottesimo anno, quando lascia l’orfanotrofio ed entra a far parte della vita di Gabriel come balia.  

Anastasia quindi si vota sulla tomba del leggendario serial killer Émile Dubois vissuto decenni prima di lei offrendogli in dono l’animo del piccolo Cambiasso che diverrà il suo carnefice, «un nuovo martire dell’oscurità». Così il primo omicidio che Gabriel commette – sedicenne – ha come movente la gelosia: elimina un potenziale corteggiatore della sua tutrice: credeva infatti che l’uomo potesse minare il loro rapporto divenuto negli anni solido e decisamente morboso. 

Da quel momento in poi Gabriel e Anastasia diventano amanti. Così nel giro di poco tempo il giovane Cambiasso porta a compimento altri delitti che appaiono come morti accidentali, ma che in realtà sono studiate e programmate, con meticolosa attenzione, nel minimo dettaglio. Ma Gabriel non uccide per il piacere di farlo, sceglie le sue vittime con attenzione fra chi ritiene la feccia della società. Ai suoi occhi diventa dunque un epuratore sociale del male.

Non leggere i fratelli Grimm ha una scrittura diretta pur non rinunciando ad accenti e strutture proprie del mito. Ortiz, infatti, fa riferimento più e più volte alle fiabe nella loro versione originale (Pollicino, Cenerentola, Raperonzolo, Il pifferaio magico), ma è Biancaneve e i sette nani a ricorrere più spesso nella narrazione sia nella tradizione dei fratelli Grimm, sia nella versione Disney. Ed è proprio con la pellicola del primo film d’animazione della compagnia che comincia e finisce il romanzo, sancendo i destini dei due protagonisti così affini eppure così diversi tra loro. Nel romanzo non mancano però neppure elementi che richiamano la tradizione cristiana: la donna (Anastasia) che si lascia sedurre dal male nel mito del serpente – che qui assume le sembianze di Émile Dubois – e della mela. Per non dire dell’espiazione dei peccati che avviene con un sacrificio dell’altro, e non di sé stesso, che sembra una variazione al tema del «morire per dare la vita» con «morire per dare la morte»: unica vera ricompensa. Questa traccia è giustificata da Ortiz nel destino che accomuna ogni uomo e proprio per questo a Gabriel sembra che uccidere qualcuno significhi solamente «accorciare la sua permanenza in un luogo da cui prima o poi se ne sarebbe dovuto andare». E ancora, è Giorgio, il padre di Gabriel che svegliatosi dal suo torpore doloroso, capisce che il figlio naviga in bruttissime acque e per questo decide di favorire la sua redenzione architettando l’allontanamento di Anastasia da Gabriel e l’incontro del figlio con la sua vecchia amica Josefina. E sarà proprio Josefina a farlo resuscitare a vita nuova, in pratica una specie di donna pura e innocente dell’amor cortese.Nonostante le atrocità e le verità raccontate in Non leggere i fratelli Grimm, proprio come da copione, Ortiz non rinuncia al lieto fine: la strega malvagia soccombe e il giovane prode si salva. Una scelta che concede speranza all’essere umano che, anche se di natura fallibile, avrà sempre a disposizione una strada nuova e buona da percorrere che lo distragga dal desiderio di voltarsi indietro e seguire le briciole lasciate cadere sulla via del ritorno.

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